Dòdaro-Verri o della rimozione
by Francesco Aprile

 

Dal 13 novembre 2021 ha avuto luogo, fra le strade della città di Lecce e alcuni luoghi centrali della vita culturale salentina come il Museo Sigismondo Castromediano e la Biblioteca Provinciale Bernardini, la mostra-evento “Verri Antonio Leonardo. Una stupenda generazione” dedicata al poeta-editore di Caprarica di Lecce oltre che alla rete di rapporti amicali, letterari, editoriali intrattenuti dallo stesso nel corso della vita. In chiusura della mostra è stato dato alle stampe un catalogo al cui interno sono presenti numerosi contributi che affrontano l’attività verriana da diversi punti di vista. Inoltre, l’editore Kurumuny ha avviato la ripubblicazione dell’opera del poeta; ad oggi sono stati ripubblicati tre titoli: Bucherer l’orologiaio, Il pane sotto la neve, La Betissa. Proprio la pubblicazione di quest’ultimo ci porta, oggi, a ospitare su Utsanga il testo che segue, in origine inserito nel catalogo della mostra verriana e volto a indagare, seppur in sintesi, il rapporto Dòdaro-Verri che vive, nell’accademia salentina, una drastica e radicale rimozione. Stesso trattamento è destinato alla figura di F. S. Dòdaro, determinante per molti, non solo in Puglia (per una prima e rapida idea: https://www.utsanga.it/10-francesco-saverio-dodaro/), continuamente sminuita e cancellata dalla miope, si fa per dire, attività dell'”intellighenzia” salentina. Per quale motivo tutto questo? La domanda è lecita, ma le risposte tardano ad arrivare e forse mai arriveranno. Lo stesso Dòdaro, e chi lo ha conosciuto ne sarà consapevole, ha atteso invano, come certe lettere, in cui chiedeva spiegazioni, lasciate cadere nel vuoto dai suoi interlocutori. Per farsi un’idea: https://www.utsanga.it/aprile-rapporto-dodaro-verri-attraverso-critica/. Per tornare alla collana “Declaro” con cui Kurumuny ha avviato la ripubblicazione dell’opera verriana, possiamo trovare: 1) la solita nota bio-bibliografica in cui le collane sperimentali (rivoluzionarie) curate da Dòdaro-Verri sono lasciate alla solita ambiguità; Verri entra come co-curatore ed editore in queste iniziative, ma sarebbe bene dirlo (non ribadirlo, dato che in certi ambienti “ufficiali” non è mai stato detto) che l’ideazione è dòdariana per cui può risultare, e infatti risulta, il solito “un sodalizio che vede Verri e Dòdaro dare vita a” (fra l’altro, anteporre, come sempre, Verri, che non fu l’ideatore delle collane, significa invertire le coordinate operative) come ambigua tematizzazione di tali esperienze; 2) incomprensibili, come nel caso de La Betissa, arrampicate sugli specchi in fase introduttiva. Veniamo al dunque. Scrive Fabio Tolledi introducendo il volume sopracitato: 

“Il femminile ne La Betissa è al centro di ogni evento, non solo della figura della Madre, nella natura liquida e generatrice de La Mar. Il richiamo evidente all’elemento materno del mare, del liquido amniotico si trova di fronte alla perturbante dimensione del desiderio, della perdita dei sensi, dello stravolgimento della carne, del turbamento che stravolge i corpi. Questo aspetto dovrebbe ridimensionare anche il riferimento a Dòdaro e al movimento dell’Arte Genetica, a cui Verri ha aderito certamente con entusiasmo e convinzione. Ma anche con una certa dose di curiosità verso l’idea e la pratica della sperimentazione” (Tolledi, p. 15). 

A quanto scritto da Tolledi è possibile rispondere con la lettera verriana di adesione al movimento di Arte Genetica, in prima battuta: 

«Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole».

Per altro rimandiamo, fornendo allora al lettore i testi stessi (alcuni) di tale teoria, ad una serie di contributi che chi avrà voglia e tempo di leggere potrà notare come la riduzione tollediana alla madre fisica appaia lontana dal poter definire e qualificare la teoria genetica (https://www.utsanga.it/dodaro-testi-di-teoria-letterariaeditoriale/; https://www.utsanga.it/dodaro-letterarieta-luciano-caruso/; https://www.utsanga.it/dodaro-codice-yem-le-origini-del-linguaggio-ovvero-la-rifondazione-della-coppia/); dunque, dove finisce il processo di simbolizzazione che nei secoli e oltre, nei millenni e oltre ha portato questa figura a muoversi e oscillare, sconfinare e dilagare ora nel mare, ora nella creazione ecc? D’altro canto, lo stesso Tolledi è contraddittorio, rinviando al liquido amniotico, alla creazione, ai corpi, alla carne. Lo stesso Verri, capisce e intuisce nel profondo la teoria genetica di Dòdaro, facendola propria ed eleborandola in una forma personale, originale, attraverso le sue opere letterarie, ma è tutto che al di fuori di tale teoria. Cosa riporta Verri nella lettera di adesione? “L’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita…”. Cosa riconosce e individua, Tolledi, per distanziare e sminuire l’influenza dòdariana? Il “desiderio, la perdita dei sensi, lo stravolgimento della carne, il turbamento che stravolge i corpi” ovvero, per citare ancora Verri: “L’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita…”. 

Continua Tolledi: “Proprio tutto il lavoro de La Betissa, infatti, testimonia una distanza radicale di Antonio Verri dall’approccio linguistico-psicoanalitico che domina il pensiero e la pratica di Dòdaro. La complessa azione linguistica di Verri richiama, piuttosto, una appartenenza alla ricerca pienamente letteraria. Una inquietudine tra esplosione poetica e sedimentazione narrativa. Non ricerca disperata del soggetto scomparso, della disperata mancanza, della frantumazione dell’io che caratterizza il discorso di matrice psicoanalitica”.

La Betissa è un testo marcatamente anaforico-ritmico. Verri stesso riconosce questa dimensione annodandola, nel testo, a F. S. Dòdaro: «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che poesia è ripetizione». La ripetizione è marca letteraria ed è tale anche in Dòdaro, applicata con furia e tensione fisica ai suoi testi letterari oltre che esplorata in una miriade di testi sì poetici ma di intento teorico.

Per il resto, si rimanda alla breve sintesi dal catalogo verriano. 

 

 

Sul rapporto Dòdaro-Verri
Dal catalogo verriano
 Francesco Aprile

 

Nell’avventura poetica, letteraria, editoriale e verbo-visiva di Antonio Verri ha giocato un ruolo fondamentale il rapporto dello scrittore di Caprarica di Lecce con il poeta, poeta visivo, teorico dell’arte e della letteratura Francesco Saverio Dòdaro. L’arrivo di quest’ultimo nel Salento, agli inizi degli anni Cinquanta, avviene all’insegna della rottura con le modalità creative dominanti sul territorio, tanto da attirare l’attenzione di numerosi operatori, poeti, artisti come Edoardo De Candia, Antonio Massari, Franco Gelli, Vittorio Pagano e, successivamente, dello stesso Verri e altri, stringendo, con questi, importanti legami amicali, poetici, editoriali, artistici. Le dinamiche di questo incontro saranno quelle delle personali ricerche e operazioni editoriali. Nel Settantasei Dòdaro aveva fondato il movimento di Arte Genetica, rintracciando l’origine dei linguaggi nel battito materno ascoltato in età fetale, teorizzando il linguaggio come una congiunzione volta a rifondare la dualità dell’essere umano – non un regressus ad uterum, bensì la “coppia”, la dualità, la dimensione originaria e plurale del linguaggio, la comunione con l’altro – e l’arte come linguaggio del lutto, annodandola alla mancanza lacaniana. Sin da subito Dòdaro aveva caratterizzato il movimento con una ricerca radicale: alla proposta teorica, poetica e artistica, infatti, seguivano l’immediata apertura internazionale (sedi a Lecce, Genova e Toronto), due riviste (Ghen, edita a Lecce, Ghen Res Extensa Ligu, edita a Genova e diretta da Rolando Mignani) alle quali si affiancava l’esperienza del C. E. A. C. (Center for art and communication) di Toronto che sulle pagine della propria rivista pubblicava i contributi del movimento dòdariano. Antonio Verri, nel periodo in cui incontrava Dòdaro, appariva impegnato prima nel progetto-rivista Caffè Greco, poi nella rivista Pensionante de’ Saraceni. Proprio su quest’ultima, per il tramite di Dòdaro, iniziavano a comparire contributi verbo-visivi (Lamberto Pignotti, Luciano Caruso, Klaus Groh ecc.) e Verri veniva stimolato ora dalla poesia visiva – Dòdaro rappresentava già un importante tassello di tale pratica nello scenario internazionale – ora dalle teorie genetiche. Da questo punto di vista risulta fondamentale, anche per comprendere al meglio il legame creativo e amicale Dòdaro-Verri, la lettera con cui quest’ultimo formalizzava, in una fase successiva alla reale adesione, la sua partecipazione al movimento di Arte Genetica:

 

«Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole»[1].

 

Pubblicata nel 1989, la lettera è in realtà datata primo maggio 1988. La lingua, poetica-lineare e verbo-visiva, attraverso il contatto con l’opera dòdariana, veniva indirizzata da Verri alla delegittimazione del soggetto autorale a vantaggio di una ricerca sonora, genetica: «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che poesia è ripetizione»[2]. Del 1988 è, invece, il testo I Trofei della città di Guisnes, ancora nel segno della teoria genetica intrecciata, però, con quel paradosso del silenzio mutuato dall’esperienza di John Cage; Verri dedicherà il testo, fra gli altri, anche «al battito creatore di F. S. Dòdaro»[3].

L’interesse verriano per le teorie e le pratiche dòdariane troverà ulteriori sviluppi nella poesia visiva; proprio con Dòdaro, infatti, andrà spesso in cerca di scarti tipografici fra le tipografie leccesi in modo da utilizzarli nella realizzazione di opere verbo-visuali, derivando da questa ricerca, alla quale Dòdaro era già avvezzo, l’interesse per il concetto di scarto, tanto da costruirci sopra la propria dimensione poetico-visiva modulandola a partire dall’accostamento di elementi differenti, i quali si attivano nella costruzione di uno scenario plurale: oggetti, frammenti di lingue diverse, slogan pubblicitari, corpi umani, materiche espressioni gestuali del colore, grafismo, in un alternarsi di accumuli e momenti riflessivi nella coabitazione, dunque, di pieni e vuoti.

L’intreccio, a cui si è accennato, della teoria genetica e del silenzio di Cage all’interno de I Trofei della città di Guisnes sarà elemento portante anche della pratica verbo-visiva; molte opere, infatti, vedranno la presenza e ripetizione di alcuni elementi caratterizzanti che possiamo riconoscere nell’utilizzo dell’immagine di John Cage e nel costante inserimento dei “Dis” dòdariani all’interno delle opere verriane. Nel 1990 Verri cura il volume Le carte del Saraceno al cui interno raccoglie una scelta di operatori estetici salentini. Fra i materiali raccolti compaiono una serie di opere verbo-visive dello stesso Verri; si tratta di cinque tavole intitolate Scrittura, con apposita numerazione, datate al 1989. Sono opere prodotte attraverso il ricorso a materiali eterocliti: ritagli di giornale, scarti tipografici, pittura gestuale. Su tutti, fanno capolino i “Dis” dòdariani e le foto di John Cage a significare una continuità decisa, sicura, sui percorsi di commistione avviati fra la teoria genetica e le esperienze di Cage. La sinestesia semantica di marca verbo-visiva applicata dall’autore scopre, dunque, l’intricato gioco fra pieno e vuoto che si produce in un sovrasenso ludico e sonoro. Le tavole dedicate da Verri a John Cage, raccolte dopo la morte dell’autore da Cosimo e Salvatore Colazzo nel volume Il suono casual nel 1994 per le edizioni Madona Oriente, ma in parte già pubblicate da Verri in E per cuore una grossa vocale, si fanno espressione, ancora una volta, della relazione fra pieno e vuoto. Questa condizione, oltre a evidenziare i rapporti che la ricerca verriana intrattiene con l’opera di John Cage, mostra quelle influenze dòdariane che Verri aveva già da tempo assorbito: quel vuoto come luogo di creazione è la mancanza a essere lacaniana tanto studiata, assorbita e rielaborata da Francesco S. Dòdaro sin dagli anni Settanta. Tutto il senso di questo lavoro di commistione fra la teoria genetica e la personale ricerca autorale emerge lungo un arco di prove letterarie che va a comprendere: La cultura dei tao, La Betissa, I trofei della città di Guisnes, Il Naviglio innocente, Ballyhoo Ballyhoo!, E per cuore una grossa vocale, Abstract n. 2, Io e Lulù, La salle de bain, Bucherer l’orologiaio, oltre che una serie di testi limitrofi e le interessanti serie di opere verbo-visive. Proprio in Bucherer, ultima prova dell’autore, pubblicata postuma nel 1995, è presente la descrizione della teoria genetica, affidata alla visione di un personaggio, Bucherer, che è, almeno in quel frangente, la rappresentazione di Francesco S. Dòdaro:

 

«Questo grande mostro a cui Bucherer pareva attribuire ragioni di una entelechia universale vive di un solo suono, di un solo monotono suono, di una sua autonomia radicale, ossessiva, che mentre permette ad ogni cosa di moltiplicarsi scompostamente, mentre permette nuovi soffi, nuove necessità, nello stesso tempo li riconduce alla sua sostanza. È lui l’Essere, gridava Bucherer, è lui la Grande Forma, è lui l’oceano che batte le scogliere, è lui che muove le lunghe migrazioni, è lui quel che nel mondo c’è di denso e di sonoro, di leggero, di informe, di discorsivo, di irrazionale; è sul suo grande corpo che si inseguono le ore, che perdurano e cessano le appendici, i dettagli non visibili, ogni cosa con chissà quanti sfaldamenti e mescolanze e mutazioni»[4].

 

Qui ritroviamo, nell’«oceano che batte le scogliere»[5], «Le sorgenti neummaniane»[6] e in quell’unico suono monotono, invece: «Quante biblioteche! Per dire rosa. Tutte metafore, spostamenti, capovolgimenti per esprimere, forse, un fonema, uno solo, che ci ha marcato. Un fonema contro l’idea»[7].

A tutto questo vanno aggiunte le innovative collaborazioni editoriali. Sul finire degli anni Ottanta, infatti, Antonio Verri entrerà come editore e co-curatore in una serie di collane editoriali ideate da Francesco S. Dòdaro e volte al rinnovamento dei concetti di libro e scrittura: Spagine. Scritture infinite (Caprarica di Lecce, Pensionante de’ Saraceni, 1989) scritture di ricerca formato poster, spaginate; Compact Type. Nuova narrativa (Caprarica di Lecce, Pensionante de’ Saraceni, 1990) ovvero romanzi in tre cartelle; Diapoesitive. Scritture per gli schermi (Caprarica di Lecce, Pensionante de’ Saraceni, 1990) scritture di ricerca da proiettare; Mail Fiction (Caprarica di Lecce, Pensionante de’ Saraceni, 1991) romanzi su cartolina. Questo intenso e rivoluzionario sodalizio vedrà, inoltre, la partecipazione di Dòdaro nella strutturazione dell’utopia verriana del Quotidiano dei Poeti nel 1989. Per la prima versione di questo quotidiano, Verri chiese aiuto proprio a Dòdaro il quale propose un giornale in formato A2 (42×59.4) con modularità dattilo A4 e l’utilizzo del dattiloscritto dell’autore al fine di evitare la composizione tipografica dei testi. Questa prima serie prese il nome di “elefante rosso” per via del formato e del colore dei caratteri. Un sodalizio amicale, editoriale e autorale, quello Dòdaro-Verri, intenso e di straordinaria importanza creativa, interrotto soltanto dalla morte di Verri nel maggio del 1993.

[1] A. Verri, Lettera di adesione al Movimento di Arte Genetica, in «SudPuglia», IV, 1989.

[2] A. Verri, La Betissa. Saga composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora, Kurumuny, Calimera, 2003, p. 38.

[3] A. Verri, I Trofei della città di Guisnes, Il Laboratorio, Parabita, 1988.

Va sottolineato come Verri citi e richiami apertamente Dòdaro nei testi della maturità letteraria: La Betissa, I Trofei della città di Guisnes, Il Naviglio innocente, Bucherer l’orologiaio.

[4] A. Verri, Bucherer l’orologiaio, Lecce, BPP, 1995, pp. 4-5.

[5] Ibid.

[6] F. S. Dòdaro, La letterarietà di Luciano Caruso, in «Pòiesis. Ricerca poetica in Italia» (Eugenio Giannì, a cura di), 1986, pp. 259, 261.

[7] F. S. Dòdaro, Lettera ad Antonio Verri, Lecce, 18 maggio 1988.

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