*Liminali ai margini di un naufragio…
by Lamberto Pignotti

 

*Dalla mostra Liminale. Opere verbo-visive, di Francesco Aprile e Cristiano Caggiula, svoltasi dal 21 novembre al 6 dicembre 2015, a Roma, presso il Centro culturale Gabriella Ferri.

 

La storia inizia ai margini di un naufragio raffigurando il filosofo Aristippo, che nella tempesta aveva perso tutto, intento a ricominciare da capo assemblando sulla spiaggia segni eterogenei e scompigliati in cui certi mitologi intravedono la matrice della scrittura verbovisiva. Interpretazione forse troppo suggestiva ma non priva di fondamento, poiché in quanto “scrittura”, la scrittura verbovisiva sfonda il muro della letteratura e in quanto “verbovisiva” essa rompe le convenzioni delle arti basate sulla sola immagine. L’incontro della parola con l’immagine, la loro reciproca compenetrazione, lo scambio dei ruoli convenzionali, concorrono a mettere a punto una sorta di messaggio che richiede una decodificazione globale. La scrittura verbovisiva, oltre alla linguistica, mette in crisi il significato stesso di arte perché succede di incontrare delle opere che non possono essere disinvoltamente poste sullo sfondo di una tradizione pittorica, e non possono neanche essere agevolmente poste in relazione a testi letterari. E allora? Allora occorrerà rimuovere opere del genere, come fa abitualmente la critica vigente, oppure occorrerà rivedere, ristrutturare ed ampliare le attuali categorie estetiche. Oltre che sulla rimozione di tali opere da parte della critica più convenzionalmente sussiegosa, a proposito di esperienze che impiegano sistemi di segni e mezzi di espressione differenti manifestandosi con identità sfaccettate, a proposito dei modelli di comunicazione estetica che tendono alla “bi-grafia” e alla “pluri-grafia” si deve riflettere simmetricamente anche su un certo grado di rifiuto che essi, esplicitamente o meno fanno della critica d’arte in quanto attività etichettatrice e incline ad entrare in rapporto con oggetti artistici, come ha rilevato a suo tempo Roland Barthes, ” di cui si conosca bene la forma, l’uso e il prezzo prima di comprarli, e che mai niente in essi possa disorientare: tutto deve concorrere alla grande opera borghese di ridurre alla fine l’essere a un avere, l’oggetto a una cosa “. D’altronde i poeti e gli artisti furono i primi a rifiutare l’abbraccio della filosofia etichettatrice e a partire dallo Sturm und Drang, iniziarono una polemica contro la critica estetica che si manifestò nell’Ottocento, con Heine e Baudelaire, e si espresse in modo violento nelle avanguardie del Novecento. Rimbaud in un suo poema famoso scrive: ” Una sera, ho preso sulle ginocchia la bellezza. E l’ho trovata amara. E l’ho ingiuriata”. Tuttavia già molto precocemente dall’Interno della filosofia ci si rifiuta di mettere insieme cose tanto disparate: per Hegel e per Schelling la parola estetica doveva essere sostituita con quella di un discorso più globale sull’arte. Riemerge così un orientamento nato nella cultura anglosassone del Settecento all’intesa del ” criticismo “, una direzione in cui si sta muovendo anche l’estetica più recente, la quale perciò si configura come un campo di battaglia per la determinazione dei criteri sulla cui base si può esprimere una valutazione più interdiscipinare e tendenzialmente semiologica attraverso operazioni di sganciamento dall’atmosfera cosmetico-ricreativa e oscurantista in cui siamo attualmente immersi. In altre parole se vogliamo parlare di bellezza, deve essere chiaro che impieghiamo questa parola in un senso che non ha niente a che fare con l’apparenza, con l’alto gradimento degli stilisti, con la chirurgia plastica operata da qualche beauty factory, con tutta la leziosità su cui si regge oggi la ricerca di un consenso plebiscitario. Dato che sulla bellezza si pensa e si scrive da due millenni e mezzo, solo un ignorante può credere che alla domanda sulla sua essenza si possa rispondere con una definizione o con una formula. Non per caso, e pur nell’ambito di una “società liquida” l’educazione è stata riconosciuta come un elemento essenziale dell’orizzonte estetico. Purtroppo essa è qualcosa di troppo dispendioso perché presuppone la formazione di un pubblico capace di comprendere e di apprezzare la bellezza. Si procede perciò in modo più spedito e redditizio trasformando le mostre d’arte in spettacoli d’attrazione con prodotti etichettati, prezzi bene in vista, valori attestati dai bollettini di borsa. L’arte deve essere insomma esplicita, meglio: univoca, deve essere alla portata di tutti, non deve avere più nulla da sottintendere. Il realismo assoluto, unidirezionele e tecnologico in cui si è indotti a vivere non consente segreti. Tutta l’arte o la maggior parte della dell’arte che si vede alle grandi rassegne internazionali è virtualmente decorativa; potrebbe essere offerta nei supermercati. Parallelamente la maggior parte della letteratura viene proposta bene impacchettata in quei grandi magazzini che sono le grandi librerie. Meglio allora lasciare il centro di questa scena, ci dicono Francesco Aprile e Cristiano Caggiula con questa mostra, girare al largo, sistemarci sulla soglia dell’immondo spettacolo, dar vita a operazioni “liminali”, prelevare dall’abbagliante kolossal brandelli di scritture indecifrabili, abradere e riscrivere palinsesti enigmatici, rintracciare mappe di tesori scomparsi, mettere a fuoco scarti di tipografie travolti da apocalittici buchi neri. Dalla centralità alla marginalità, e poi dalla globalità alla particolarità. Dal ” macro ” al ” micro “, insomma. È un aspetto che emerge simbolicamente ma anche in modi determinati nelle opere verbovisive di Aprile e di Caggiula. Il frammento, il dettaglio. L’insieme pare non avere più senso compiuto, lo stesso avviene con le ideologie, o con la storia lineare che ha una finalità. Sono entità compromesse. La singolarità del mondo non sta più nel senso dei grandi significati che gli si danno, appare piuttosto nel dettaglio rivelatore. Quando ci si tuffa nel dettaglio, quando si frammentano le cose, si esce dal reale, dal principio di realtà e si trova la singolarità. È da tempo che si possono per altro apprezzare i dettagli nelle opere d’arte classica grazie alla riproduzione. Quella di cui parla Benjamin, non a caso ispiratore dell’idea di simili sollecitazioni liminali, non è solo la riproduzione tecnica ma è anche la frammentazione che non mantiene più il senso generale, al quale non si dà più un significato generale, ma che conserva sempre e forse rafforza una magia specifica. Si prospetta a questo punto anche una strategia della disconnessione che appare nelle varie sfaccettature verbovisive, critiche e operative di artisti come Aprile e Caggiula ma anche nelle pagine della loro rivista, “Utsanga”, una strategia che è un modo per sabotare le tattiche di induzione alla dipendenza messa in atto da quel meccanismo rappresentato secondo Baumann dalla “Lotteria di Babele”, infinito gioco d’azzardo cui tutti siamo costretti a partecipare sapendo di perdere. E’ auspicabile che una strategia di questo genere produca progetti e pratiche alternative che ci permettano di abbandonare i diktat del sistema e di abbracciare un modo di comunicare migliore Se per arrivarci dobbiamo staccare la spina facciamolo, ma con la consapevolezza di essere sospesi tra il “non più” e il “non ancora “. Del resto la storia iniziata ai margini di un naufragio continua…