Tassonomia di un segno dissidente
by Mariangela Guatteri
febbraio 2019

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Ātmanvī syām

​​Letteralmente «avente se stesso io mi sia», l’inizio del gesto cosmogonico. È il dio della morte che fa l’esperienza del Sé nella condizione di là da essere e da non essere e mette in moto il processo della creazione, come è detto nel secondo brāmaṇa della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (cfr. Upaniṣad antiche e medie, Bollati Boringhieri, 2007).

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Il segno prende autonomia; visivamente si anima, si stacca dalla forma e dal ruolo di elemento di qualcosa. Va sulla superficie per suo conto, se vuole, liberamente fuori dai margini.
​​Il segno prende il movimento; spazialmente crea una dimensione, si stacca dalle linee direttrici e da quelle di forza che animano le composizioni visive e prende un suo proprio moto, consentendosi la libertà di azzerare, con un repentino movimento divergente, la sua stessa esistenza in quanto segno.
Il segno prende una funzione propria; intrinsecamente non ha qualità strumentali, non è ad esempio una traccia sismografica dei moti mentali, muscolari. Non è nemmeno un segno estetico, artistico; non è un segno alfabetico, fonetico, musicale. Non è dunque un segno molto espressivo, non è qualcosa che termina con -ista.
​​Il segno non costruisce una personalità in sé, né la esprime, ma prende distanza e autonomia dal creatore; dà da sé le proprie coordinate di esistenza.
​​Il segno non combatte ma si occupa invece di esistere; inclassificabile, se non per negazione, comprende in sé il privativo.
​​Di un segno così non si può allora domandare, ad esempio: chi l’ha fatto? Perché l’ha fatto? Cosa significa? Cosa rappresenta? A che serve? ​​Da un segno così e possibile ascoltare qualcosa che non è nel silenzio della parola, né della musica, né della natura. È un segno che ha un suo intrinseco silenzio; esiste come movimento-spazio-visione della dissidenza e ha una forza vitale altrettanto intrinseca, seppure a volte appaia immobile. La percezione di immobilità è quel “parkinson del senso” che realizza un movimento velocissimo e imploso rispetto alla propria potenzialità parlante. Potenzialità a cui però questo segno ha abdicato per poter essere.​​

​​Riuscendo a stare non-frontalmente a tal segno, ma nel movimento e nella dimensione silenziosa di esso, le parole prodotte dalla mente iniziano a galleggiare come morti molto gonfi sulla superficie increspata dei loro suoni. Sono morti che alleggeriscono la mente, eppure possono essere fonte di disorientamento totale, così come lo è il silenzio quando si sta l’uno di fronte all’altro.
​​Un segno dissidente vive inglobando questa privazione di potenzialità parlante senza alcun senso di perdita e di depotenziamento. Ed è in virtù della sua stessa natura, dissidente, non-oppositiva, non-combattente, che la perdita di qualcosa è un alleggerimento, è funzionale a un processo di rinnovamento sostanziale e di radicamento nel contesto in cui nasce ovvero si manifesta. Questo processo di rinnovamento è sostanziale perché trasforma il segno a partire dal modello relazionale che coinvolge:

​​1) il segno,
​​2) chi lo ha consapevolmente messo al mondo e
​​3) chi lo guarda.
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​​È una relazione a tre ma è estremamente complessa in quanto due dei tre elementi possiedono un plesso cognitivo attraverso cui ordinariamente il sovvenimento della memoria è nei moti mentali atti a conoscere e a capire.
​​Di fronte a cose molto nuove, cioè che appaiono del tutto incomprensibili, il processo che ordinariamente si attiva è allora un affondo nella memoria, cioè nel già conosciuto: un luogo, una dimensione di riferimento in cui si tenta di portare il non-conosciuto e (si crede) non altrimenti conoscibile, osservabile, comprensibile.
​​Una cosa molto nuova come un segno dissidente viene allora approcciata riconducendola sotto un consueto dominio che la declina in senso artistico-visivo, oppure psichiatrico o magico-rituale, onirico, emozionale, avanguardistico, di rottura, contestazione… Ma questo approccio non risulta sempre efficace perché rischia di non cogliere
l’essenzialità esistenziale di un segno che provoca uno spostamento così evidente nella relazione tra l’uomo e il linguaggio da risultare traumatico. Un trauma talmente profondo che è difficile da accettare per quel che è.
​​Ecco, di fronte a questo trauma, incomprensibile, pare difficile stare mentalmente fermi e silenziosi; difficoltà, disagio, avversione sono condizioni mentali a cui si regisce in molti modi, ma raramente si procede ad osservarle, indagarle restandovi semplicemente accanto.

​​Chiamiamo “scrittura asemica” o “scrittura asemantica” qualcosa che assomiglia a una scrittura alfabetica. Ma, guarda bene, non c’è la scrittura.
​​E allora che c’è? C’è da indagare, osservare in totale silenzio con tutte la porte aperte, sbarazzati della salsa delle emozioni che sbava i contorni propri delle cose, e del pacchetto del conosciuto che condiziona l’indagine. Allora si può vedere che nel medesimo istante di tempo coesistono due stati del segno:

  1. ​​stato privativo, in cui la rinuncia a (lo spostamento da) funzioni comunicative, espressive, indicative, è il sacrificio necessario per “avere un essere”;
  2. ​​stato creativo, in cui il sacrificio di sé (segno) a se stesso per “avere un essere” è una necessaria costante esistenziale della dissidenza, dell’indipendenza, dell’intera potenzialità-in-atto.

​​Due stati possibili e osservabili ma non pensabili attraverso un
modello “spento/acceso”, “essere/non essere”.
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​​La potenza esistenziale di un segno dissidente si osserva in questa disorientante condizione, cioè quando è in atto un integrale processo di liberazione.​​
​​In una situazione in cui siamo artificialmente in grado di comunicare a distanza, lavorare su scrivanie e ambienti virtuali, disegnare su lavagne condivise a fusi orari differenti, osservarci da fuori attraverso un altro occhio, arrivare fisicamente in un luogo prima dell’ora di partenza, è così impossibile concepire la coesistenza di uno stato indeterminato del segno? Stato privativo-stato creativo: uno stato indeterminato e non un stato di indecisione rispetto allo stato da assumere.
​​È possibile conoscere, magari intuitivamente, questo stato indeterminato? Di ciò che qui si continua a chiamare, solo per comodità , “segno”, è possibile cogliere un movimento – osservando il creatore nel suo atto istantaneo di morte-creazione – che è il più radicale, fondante dei processi di liberazione?
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