– Punto – linea – superficie –
by Kiki Franceschi

Estratto da: Sono fuori del tempo i fatti umani, Firenze, Gazebo, 2012

 

“L’oggetto veramente contrario al Nautilus di Jules Verne
è il Bateau ivre di Rimbaud, l’imbarcazione che dice “io”
e, liberata dalla propria concavità, può far passare
l’uomo da una psicanalisi della caverna a
una vera poetica dell’esplorazione.”
Roland Barthes: Miti d’oggi  Torino 1974, pag. 75

Il Punto.

 

Esplorazione, dunque, negli oscuri recessi della storia, vagando oltre cumuli di cocci, frammenti, resti di templi, parole, suoni, povere elemosine dei secoli e dei millenni, rapita e  smarrita in tanta oscurità, affondata in una notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle. Procedo e mi perdo. Nel firmamento, alcune costellazioni, segni scintillanti nella notte dell’essere, custodiscono qualche parola,  vegliano su di lei, per lei, testimoni del Verbo nel convesso e concavo spazio dell’universo.  Lettere di luce, misteri infuocati , li chiamava Quevedo.  In  quella inconcepibile immensità è il mio destino, la mia coscienza storica. Mi lascio avvolgere dal tempo, che mi fa comunicare con il passato e me ne separa, convivo con il tempo al suo interno. Quel tempo che passa e resta perché quando diviene passato non passa del tutto. Esplorazione entro quel non-luogo dove nascono i linguaggi, là dove ogni discorso poetico affonda le radici, quando la musica vocale mette in scena la parola, quando il suono diventa significato ed ha una precisa forza impressiva ed espressiva. Esplorazione  per ritrovare quei  luoghi dimenticati dove i suoni e le parole non sono né suoni né parole ma hanno una precisa somiglianza, suoni leggeri, parole diafane in trasparenza, sospese senza promessa di ordine o sintassi. Parole non interamente comprese né dimenticate. Parole senza ombra, non destinate al sacrificio della comunicazione. Senza peso. Non posso dire niente, non posso scrivere niente: forse un giorno esisterà una scrittura del non scritto, una scrittura breve, senza grammatica, di parole sperdute, appena scritte e subito abbandonate, uno scritto che  arrivi lieve come il vento e passi come nient’altro passa nella vita se non la vita stessa. Il clima, l’atmosfera, il pulviscolo cadente cancellano  lo scritto. Solo le pietre incise dal vento e dalla pioggia e dall’aria ed erette da mano ignota, sono fantasmi abbandonati al silenzio in attesa di trovare una voce, sono le parole di una storia perenne. Non vanno e vengono, non si cancellano, si spengono, si riducono in polvere.

 

La Linea.

 

Se da un frammento ritrovato l’archeologo sa  ricostruire un mondo magico perduto, così  da una parola, un suono, un profumo mi avvio ad esplorare la necropoli dei miti e procedo avanti e indietro per anni labirintici, affascinata da grotte ed anfratti, da pareti stratificate le cui superfici penetrano le une nelle altre a nascondere cristalli, fossili, pietre rare. È in quel nero convesso che insetti senza occhi fanno il nido e pendono pipistrelli bozzolo racchiusi nel loro mortifero sonno, tra i vapori e le piramidi dei sali. Mi sento perduta e ammaliata, spaventata, come se entrassi ancora nella caverna che si apriva sul filo del mare per grattare il sale scuro e sfidare l’eco della mia voce ripetuta. Sono il primo uomo e tutti gli uomini insieme. Vado alla ricerca della parola originaria, dono di grazia e verità. All’improvviso so che le parole tutte alludono ad una parola perduta. La sento pulsare nel mio respiro. È parola non detta, che non oltrepassa il confine, la barriera tra il silenzio e il suono. Che nasce dagli abissi di silenzio e di musica, pensiero che si sostiene in se stesso ancora senza concetto. Segno puro non ancora decifrato, minaccia di ossessione, racconto di numeri, impronte disegnate col nerofumo, calchi dei piedi affondati nell’argilla e nel tufo, passi da compiere al di fuori o più in là del cammino tracciato in anticipo, fantasmi di qualcosa di percepito, segni che promettono prosecuzione e sviluppo di vita, tracce perenni di uomini per i quali l’arte non era nuda copia della natura ma intima copia delle cose. Da quei segni, affascinanti e colorati con tutte le sfumature dei rossi presi dalla terra, mi muovo verso la poesia, fatta di suono, di parola e di immagine, sostanza e vita di un linguaggio del quale  conosco solo la parte che affiora, come  un iceberg. Debbo calarmi sott’acqua perché è là che si nascondono i potenziali comuni allo sviluppo dei linguaggi, le metafore, le sinestesie, l’essenza delle cose, la poesia cioè, la sua carne e il suo sangue e tuffarmi sott’acqua a recuperare tesori, perle, visioni, suggestioni.

 

La Superficie.

 

Un disegno acquerellato di Füssli. Raffigura l’artista seduto presso giganteschi frammenti di una statua marmorea: un enorme piede sovrastato da un’enorme mano. L’artista è accasciato e posa la sua mano sull’enorme piede. Appare oppresso da tanto passato, consapevole del suo limite e allo stesso tempo pare attingere energia creativa proprio dall’ abisso di memorie da cui quei frammenti provengono, pare voler ritrovare le ragioni stesse della vita e dell’arte. È un archeologo, un  viaggiatore nel tempo, e nel viaggio sembra saper tradurre l’essenza delle cose, sa che ogni forma d’arte deve essere integrale ed integrata, carne e sangue perché siamo parte di tutto ciò che accade e che è accaduto, nella trama della storia così come nella trama del nostro vissuto. Ogni lingua è fossile, rovina, frammento ma è anche progetto e rinnovamento. Nelle pieghe delle parole, nascosto, vive il passato. Il poeta lo sa, l’ha saputo sempre. Nello scorrere del tempo ha superato la scarna linearità della scrittura occidentale e ha sperimentato  artifici grafico-tipografici per esaltare le tre dimensioni della parola, vocale, verbale e visuale. In questa direzione sono andati Mallarmé, Apollinaire, Morgesten, Marinetti e recentemente, Balestrini, Porta, Miccini, i poeti  inisti. Nel recente passato Gongora ricercava gli effetti fonici insieme a Crashaw il mistico, a Marino, a Leporeo, tutti mossi da intimo impulso e immediata volontà, andavano oltre i confini geografici, temporali, segnando un percorso stravagante, sfrontato che arriva ad oggi. Il musicismo lirico della poesia astratta contemporanea che traduce impressioni e stati d’animo con effetti fonici poggia sul Manierismo ed è sempre nell’età barocca che si diffonde la poesia visuale ed emblematica che traduce in forma visiva il contenuto da esprimere, penso a Herbert, il mistico inglese, ai quadrati magici, ai carmen labirintorum, ai taecnopaenia, a quegli esperimenti che si svolgono nel campo delle combinazioni alfabetiche, degli artifici grammaticali. Là dove ogni discorso poetico affonda le radici. Il ritmo è numero. La lettera è numero e in corsa verso l’alchemico contende alla cifra la capacità combinatoria all’infinito. In Agudeza y arte del ingenio  Baltazar Graciàn esaltava l’arte di produrre labirinti verbali, dove nuove significazioni potevano ottenersi scambiando lettere e sillabe. L’anagramma non era solo arguzia ma vero artificio che poteva traghettare la mente verso l’oscuro aldilà, seguendo le misteriose voci che risalivano gli abissi ad esplorare la notte. L’artificio, al servizio di un  ambiguo esoterismo, con gusto beffardo o maligno diveniva protagonista di dissimulazione linguistica. Spostando qualche lettera si potevano ottenere corrispondenze enigmatiche, generare equivoci ingegnosi. Labirinti. I corpi sono pensieri cristallizzati e precipitati nello spazio scriveva Novalis. Il significato della storia e dell’arte è interno al grande archetipo dell’esistenza umana. Il tempo della poesia è per me quindi il tempo della storia. Sulle orme di Böheme, vado alla ricerca di una lingua primigenia, una lingua poetica  che sappia cercare nuovi nuclei, suoni, colori all’interno della parola per costruire una nuova lingua senza grammatica, come preconizzava Apollinaire. Se l’opera è un varco aperto nell’insé,  la voce si faccia corpo. Il frammento, la lettera, il segno, la calligrafia, la sovrapposizione metaforica delle immagini, tutto tradisce la mia nostalgia per l’Eden perduto. Per vincerla vado in volo, alla ricerca del seme dell’infinito, con Malevich.

Compagni  di avventura:

Pessoa
Mallarmé
A.Rimbaud
Novalis
Quevedo
Shelling
Böheme

……….

negli ardimentosi voli spaziali, in nero e in bianco:
Malevich

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