Il pre-testo come luogo di trasfigurazione
by Giovanni Fontana
Il panorama mediatico va condizionando in maniera sempre più consistente l’elaborazione testuale. In particolare l’interazione tra la scrittura e la dimensione della “nuova oralità” produce, ormai da molto tempo, effetti interessanti in numerose aree di ricerca. Si osservi, per esempio, il panorama internazionale della poesia intermediale e performativa, ampiamente ignorato dai nostri critici di punta.
Sostenuta dalle nuove tecnologie elettroniche e dal ruolo di primo piano che le presenze sonore assumono nel quadro delle comunicazioni estetiche, la vocalità attraversa la scrittura già in fase di progetto poetico. In altri termini, si sta assistendo a una rinnovata funzione della voce in ambito letterario. Ma non si tratta di vocalità che aderisce a un testo, di vocalità di sostegno che si riversa su un testo preconfezionato; si tratta di una dimensione sonora che condiziona fortemente la scrittura in sede tecnica. Questo rapporto non ha niente a che vedere con quello che tradizionalmente lega la voce alla poesia orale, perché qui l’oralità si fonda sulle memorie artificiali della scrittura, da una parte, e dell’elettronica dall’altra. Si osservano, così, testi che da un lato recuperano le dimensioni ritmiche proprie di alcune tecniche sperimentali novecentesche (dal “cut up” al “simultaneismo”), dall’altro il “sound” di strada (dalle jam hip hop, al rap, al “toast”, dai dozens, allo scat), le scansioni “pop” massmediatiche e tecnologiche (dal rock allo slogan commerciale e al jingle), ma, per altri versi, anche modi popolari ed arcaici (cadenze etniche, metri affabulatori, litanie e formule apotropaiche). Insomma, si delineano sempre più nettamente strutture testuali intese come “spartito”, dove la scrittura, nel ricercare forme ritmiche più consone alla dimensione sonora, deve fare i conti con la vocalità del poeta stesso o con quella di un ipotetico esecutore. Ma non sono rari i fenomeni di segno opposto, dove la poesia scivola sui versanti della prosa rinnegandosi; mentre, invece, mi sembra molto importante che oggi anche la prosa esalti la propria tessitura ritmica. Nel mio Chorus (Fontana G., 2000), romanzo che ho definito “sonoro” [come il precedente Tarocco Meccanico (Fontana, 1990)], il testo è costruito sull’alternanza di voci che si mescolano e si scambiano ruoli. Il “volume” del parlato prevale sulla “misura” dello scritto, nel senso che la texture tipografica si pone come pre-testo: pre-testo in quanto luogo da trasfigurare, in quanto territorio d’azione da ri-definire anche in termini di spazio e di tempo, perché, in sostanza, la scrittura si appoggia a figure ritmiche che ne favoriscono lo sconfinamento, cosicché il testo arriva a configurarsi come progetto di ulteriori livelli testuali, di tessiture “altre”. In effetti Chorus non è solo un romanzo: può essere considerato anche una pièce teatrale o un poema, data la sua organizzazione ritmica. Ma può essere anche visto come partitura di “poesia sonora”, in quanto pre-testo da riorganizzare come vera e propria poesia dello spazio (secondo l’accezione di Zumthor) o come poesia visivo/sonora, nel momento in cui potrebbe aprirsi a performance ancora più complesse. Molti dei “games” che costituiscono il “romanzo” sono già stati da me proposti in versione sonora su disco o in performance. Il libro (pietra angolare) ne dà le coordinate. Insomma: il lavoro utilizza una scrittura che cavalca generi diversi e si pone decisamente come materia ri-plasmabile.
È indiscutibile che nella società ipermediatizzata il testo vocalizzato impegnerà spazi sempre maggiori (radiotesto, audiolibro, videoletteratura, espressioni multimediali, ecc.). Se ipotizziamo la dimensione ritmica come denominatore comune della poesia e della prosa, il gioco delle confluenze e degli sconfinamenti, se condizionato e sostenuto da quello che chiamerei imprinting vocale di progetto, potrebbe individuare addirittura direzioni “ultratestuali”, aprendo, così, ad una concezione di testo come testo integrato, come politesto in risonanza, come ipertesto sonoro multipoietico, come ultratesto trasversale che si sviluppa su linguaggi d’azione. Il pre-testo nella sua forma tipografica conterrebbe germi metamorfici capaci di realizzare le successive tessiture dinamiche, oltre la pagina. In ambito performativo il testo diventerebbe multidimensionale e pluridirezionale, multivalente e pluripotenziale, policentrico e multilaterale, poliritmico e multisonante.
Nel ’64 William Burroughs scriveva del “Bambino Subliminale”, che “trasportava suoni, discorsi e musica di strada, li metteva nel suo registratore, mandando onde, vortici e tornadi di suoni nelle strade e lungo il fiume del linguaggio – polvere di parole si ammucchiava e riempiva le strade di musica spezzata, clacson e martelli pneumatici – i frammenti di parole colpivano e andavano in fumo” (Nova Express).
In questa dimensione sonora il panorama delle confluenze e degli attraversamenti linguistici si fa sempre più intricato, suscitando di volta in volta nuovi interessi, se non altro perché assume un chiaro significato nel quadro della politica della comunicazione: la voce, quale portatrice di senso, è presenza attiva, dunque “temibile”, specialmente se racchiude germi antagonisti. Non è per questo che, nel passato, proprio quando la poesia viaggiava ancora di voce in voce, non si esitava a dire che “il verso mente e solo la prosa è veritiera”?
Questi attraversamenti hanno radici articolate e più remote di quanto non sembri. E molti (anche se non amano dichiararlo) mostrano di aver appreso la lezione della “poesia sonora” degli anni ’60 e ’70. Ma, senza ampliare troppo il raggio dei riferimenti, vorrei soffermarmi almeno sul concetto di “text-sound”, riferito indistintamente alla poesia e alla prosa, espresso da Richard Kostelanetz nell’antologia Text-sound texts (Kostelanetz, 1980) . Si parla di “text-sound” quando il testo è particolarmente adatto a liberarsi nella dimensione aurale, o, comunque, quando le caratteristiche del testo condizionino l’articolazione sonora in maniera determinante. Si tratta, perciò, di una struttura di passaggio che tende a confondere poesia e prosa orientando le discipline letterarie verso quelle sonore e che, pur presentandosi in genere sottoforma di tessitura verbale, non risparmia di impegnare, talvolta, spazi figurali. Nel libro di Kostelanetz sono documentati numerosi scambi ed intersezioni che superano di gran lunga il concetto di “poetic prose” e che costituiscono significativi esempi di percorso (1).
Ma nel panorama contemporaneo, mentre per molti versi i media si intrecciano indissolubilmente e i linguaggi subiscono sconvolgimenti radicali (come nel caso dell’imagerie cinematografica che diventa la controfigura della musica o, addirittura, come nel farsi musica dell’immagine) (2), si assiste a pratiche di false relazioni tra le arti, di interazione debole o apparente, di gratuite sommatorie che talvolta prescindono dalle più elementari regole di grammatica e di sintassi.
Ilya Prigogine parlava del sapere scientifico come “ascolto poetico” e come “processo aperto di produzione e d’invenzione” (Prigogine, 1991). Un’indicazione come questa, se ricondotta al sapere intermediale, potrebbe tornare molto utile per stimolare alcune riflessioni di metodo. L’opera intermediale, infatti, caratterizzata dall’intersezione dei linguaggi in una prospettiva polidimensionale, avrà una struttura pulsante che favorirà la costruzione di sistemi che ri-condizionino la dinamica degli elementi di volta in volta considerati, proprio come avviene nella fisica delle particelle. Non si potrà parlare di mero luogo di confluenza di discipline artistiche, bensì di dispositivi elastici che abbiano la capacità di relazionarsi attraverso connessioni profonde e non per semplice sovrapposizione di fasce. E qui, per comprendere meglio il concetto, conviene ricollegarsi all’intuizione di Dick Higgins, quando, trattando il tema dell’integrazione dei linguaggi, elabora il concetto di intermedium, termine riferito esclusivamente all’opera in cui tale integrazione sia completamente attuata, opponendolo a mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore sia in grado di distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.) in condizione di completo appiattimento; nell’opera intermediale, invece, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate, pur tutelando l’autonomia e la singolarità dei segni (3).
Nell’ottica dell’idea di “processo aperto” di Prigogine e della fisica delle particelle, è come se il processo di invenzione e produzione fosse realizzato da particulae, portatrici di senso solo in quanto riferite alla dimensione totale dell’opera, che si vuole come concentrazione assoluta di energie. Tutto è in funzione del tutto. Si potrebbe parlare, perciò, di entità transmateriali innervate da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle subatomiche secondo la “teoria delle stringhe” (4), dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le forze nascano da un unico costituente di base.
Secondo questa teoria le particelle subatomiche non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali (stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente. Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche, si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni; sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice di forza è associata ad una vibrazione specifica. Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari sono fatte della stessa “materia” (Green, 2000).
Nell’opera intermediale, le dinamiche interne ed esterne, le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia, comportano l’esigenza di una sincronica vibrazione degli elementi, in un’incessante esplorazione, che, reiterata e spinta fino ad individuare le ampiezze e le frequenze delle particulae della materia linguistica, finisce per coincidere con una vera e propria trasgressione nell’uso dei linguaggi medesimi. Quello di trasgressione (o trans-gressione), infatti, è un concetto che implica pulsioni indagatrici. Esplorare significa spesso dover superare frontiere precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili” è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico che culturale.
Il gesto “plurale”, pertanto, non potrà mai essere riferito alla mera interdisciplinarità o ad un banale concetto di multimedialità; esso deve comportare momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che alle sue fondamenta deve sempre essere viva la necessità della continua riformulazione di codici e di categorie. Insomma, l’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, formulando progetti in cui il concetto di “pluralità” (e anche di “totalità”, per segnare un link con la storia) non sia solo riferito all’insieme degli elementi coinvolti, ma anche a quello delle loro possibili organiche relazioni.
Su questi orizzonti può affacciarsi soltanto una nuova figura di “poliartista”: poietes che agisce sui più diversi fronti della creatività, con qualsiasi materiale, in ogni spazio e in ogni situazione, su qualsiasi supporto e su qualsiasi canale, utilizzando qualsiasi tecnologia, appropriandosi della parola (oltre la letteratura), dell’immagine (oltre le arti visive), dell’universo sonoro (oltre la musica), della dimensione teatrale (oltre il teatro), dell’universo ritmico, riconducendo all’ambito creativo perfino la sua voce e il suo gesto, quindi il suo stesso corpo. Il “poliartista”, grazie alle sue nuove competenze, contribuirebbe, così, ad ampliare e snervare i confini delle arti, nel segno della contaminazione dei sistemi e della compenetrazione degli universi separati, in un’ottica plurale che sottolinei le singolarità sempre in chiave essenzialmente intermediale.
Rimandi bibliografici:
Giovanni Fontana, Chorus. Romanzo sonoro per voci a battuta libera (con CD audio), Piero Manni Editore, Lecce, 2000.
Giovanni Fontana, Tarocco Meccanico, Altri Termini, Napoli, 1990.
Brian Green, L’universo elegante, Einaudi, Torino, 2000.
Richard Kostelanetz, Text-sound texts, William Morrow and Company, Inc., New York, 1980.
Ilya Prigogine, La nascita del tempo, Bompiani, Milano, 1991.
Ulteriori rimandi:
(1)
Al di là dei tanti nomi dell’area della sperimentazione sonora contemporanea colpiscono il risultato ritmico di Gertrude Stein in Many many women o il metodo di Jack Kerouac che considerava il jazz come un vero e proprio universo tecnico da assumere come modello per la scrittura. Come è noto, la carica dirompente degli assoli di be-bop e il loro modo di articolarsi erano acquisiti come elementi fondamentali nella sua metodologia compositiva; tanto che egli riusciva a “soffiare” (to blow) dinamicamente la sua scrittura sulla pagina, senza esitazioni, così come il jazzman “soffia” le proprie note liberandole nello spazio sonoro.
(2)
Cfr. Paul Virilio, L’art à perte de vue, Edition Galilée, Paris, 2005 (tr. it. in Domus n. 886, Milano, novembre 2005).
(3)
Cfr. Dick Higgins, Horizons. The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale, 1984. Il capitolo “Intermedia” riprende il saggio pubblicato in “Something Else Newsletter”, vol. 1, n. 1, New York, 1966.
(4)
Principio che risolve il conflitto tra la teoria della relatività generale e la meccanica quantistica.
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