COORDINATE ACCIDENTALI (E AUTOREFERENZIALI)
by Giovanni Fontana

 

Fine direi, tanto per cominciare. Quando la prima elementare accorciò le ore del sonno facendo scivolare un freddo fastidioso nella schiena attraverso il colletto bianco inamidato. La fine di un’infanzia corta. L’odore dei lumini coprì improvvisamente i profumi di vaniglia delle confetture quando mia madre perse suo fratello Glauco, poeta. E fu subito scuola ché, già padrone di alfabeti materni, una suora in prima battuta mi chiese di copiare una pagina dal libro di lettura. Proprio così come la vedi. Proprio così? Le chiesi. Sì, così. E fu che ricopiai irreprensibilmente in bodoni perfetto, cercando di minimizzare i caratteri per non varcare i margini del foglio. Ovviamente fu la delusione della suora-maestra e fu la delusione mia. Che continuavo a chiedermi senza risposta perché avesse voluto obbligarmi a quell’esercizio tanto strano, quando avrei potuto scrivere tranquillamente in corsivo corrente. Un impatto deludente. E perdente. Nei confronti di quella signora bacucca così strana che si era senz’altro fatta un’idea sbagliata delle mie capacità scrittorie. In realtà ero abituato ad osservare tutto nei dettagli. E mi interessavano le grazie dei caratteri di stampa. Li vedevo cordiali e sorridenti. In particolare m’intrigava la “e”, simpaticamente, che aveva deciso di porsi di profilo per esaltare il taglio della sua risata sganasciata. Abituato a scrivere sotto dettatura, capii, lì, che non dovevo prendere tutto alla lettera. Ma, in effetti, il gran finale fuor di bambagia c’era già stato quando scappai dall’infantile ostello. Un alto cancello. Un giardino. Un pino. Altre monache. Altro tipo di cuffia. Fu la mia prima performance. Una fuga in solitario di cui mi restano nella mente certi curiosi graffiti di gesso sui muri sbreccolati. Un gran finale. Coda d’infanzia che fu chiaro segnale d’insofferenza per certe bambocciate inutili e che convinse i miei a ripiegare su altre strade. Ed ecco, allora, che fu la prima elementare, inaugurata in bodoni a cinque anni. Fine di coccole. Di boccoli. Di profumi materni legati alla cinta d’una vestaglia rosa. Ed ebbi un tavolino tutto mio per disegnare e scrivere e far di conto. Il tramonto aprì varchi d’interesse tra fantasmini di carta e colla ritagliati in profili dipinti. Fu il teatro del mondo. Dove passò il tempo e la storia. Dove montò la passione per lo spettacolo e la pittura.

Ho cominciato prestissimo ad imbrattare tele. Le mie prime mostre documentate risalgono addirittura al 1959, quando ero appena tredicenne. Sono nato nel 46, a Frosinone, a pochi metri oltre l’arco Campagiorni, una delle due porte della città ancora in piedi. Frosinone era un capoluogo di scarse risorse, sconvolto dalla guerra, che per lunghi anni conservò le sue macerie. Poco prima dell’arco troneggiava il palazzo dei Bragaglia, ormai ridotto a rudere. Bombardato e invaso dagli sfollati per lungo tempo. I Bragaglia (Anton Giulio, artista geniale e poliedrico, fotodinamista misconosciuto – con spirito contro-futurista – per quelle misere invidie che non risparmiano le avanguardie, Arturo, fotografo e caratterista brillante, Carlo Ludovico, regista di tanti film di Totò, Alberto, detto pictor philosophus) erano fuggiti a Roma in cerca di successo. Cosa poteva offrire quella provincia così arretrata.

Ricordo, da ragazzino, quanto si faticava a trovare un libro o un disco. Tutto arrivava con notevole ritardo. La lungimiranza di mia madre, ma anche la sua curiosità e il suo amore per la conoscenza, sia pure con qualche dose d’ingenuità, regalò alla nostra casa il periodico appuntamento con i libretti in brossura della B.U.R. Dimessi, grigi, senza illustrazioni, con caratteri minuscoli, nascondevano meraviglie! Sugli scaffali si compose in file ordinate l’intera collezione. Lire 50 per il volume singolo, 100 per il doppio e così via. I soli titoli erano tutto un programma. Dai latini ai classici greci, dai grandi francesi ai grandi tedeschi, dai russi agli americani.

Mi colpì la favola del silenzio di Poe, mi affascinò “perdita di fiato” e “il cuore rivelatore” fece balzare in primo piano il battito del mio cuore, un pulsar materico con valenze mostruosamente poetiche. E il richiamo notturno del corvo, così importante per un quattordicenne in vena di romantiche foschie e torbidi disperati amori. Il refrain di “the raven”. Una rivelazione fondamentale. Non v’era dubbio che il refrain “dovesse essere sonoro e capace di prolungata accentuazione: e considerazioni di questo genere mi condussero, inevitabilmente, a pensare all’o lunga, come alla vocale più sonora, e a collegarla con la r, cioè con la consonante più prolungabile. Essendo stato così determinato il suono del refrain, fu necessario poi scegliere una parola che contenesse in sé un tale suono e che, al tempo stesso, si attenesse il più possibile a quella malinconia che doveva costituire, secondo quanto avevo prestabilito, il tono della poesia. E, in una tale ricerca, sarebbe stato assolutamente impossibile tralasciare una parola come Nevermore. Essa fu, infatti, proprio la prima che mi si presentò alla mente” [Filosofia della composizione].

Questa la mediazione della rinnovata attenzione nei confronti dell’alfabeto, prima di scoprire le “voyelles” di Rimbaud. Ma in Poe ecco anche l’x-atura geniale del paragrafo in “o” che aveva impegnato fino ad esaurimento lo scomparto corrispondente nella cassetta dei caratteri. Articolo “mistico e cabalistico” come egli scrive. Ex-cellente. Ex-centrico! Geniale! Mi scatta una molla nella testa. Dovevo andare a ricercarmi bizzarrie tipografiche del genere! Ne ero stregato. Tra suono e immagine la curiosità indaga tra vecchie stampe, tipografie capricciose, calligrammi, fumetti strambi. Poi vennero gli approfondimenti d’arte. Sulla “Selearte”di Olivetti e Ragghianti, che mio zio Michele mi passava di seconda mano, scoprii Gaudì e Le Corbusier, Licini e Capogrossi, Bacon, Ben Shan, Duchamp ed un corteo lungo di classici e di incisori rupestri, di sperimentatori e di avanguardisti.

Solo nel ’63 iniziai ad interessarmi del rapporto specifico tra discipline artistiche diverse. In quell’anno tenni la mia prima mostra personale (Galleria “La Saletta”, Frosinone, con presentazione di Carlo Marcantonio, pittore di stampo figurativo, allora mio maestro di pittura), nella quale, illustrando racconti di genere fantastico (dall’amato Poe a Buzzati), sperimentavo le possibilità di connessione tra la letteratura e le arti figurative. Ma naturalmente non si poteva ancora parlare di poesia visuale. Niente di più che semplice illustrazione. Vivere in quegli anni in provincia non era facile. Tutto arrivava di seconda o di terza mano. Per le riviste specializzate c’era difficoltà di reperimento; generalmente erano distribuite su ordinazione, ma spesso non se ne conosceva l’esistenza. In quella piccola galleria, retta da Ettore Gualdini, freschissimo pittore e corniciaio, si poteva fare qualche incontro interessante. Fu una piccola palestra di esperienza rara.

Poi giochi, incontri, amori, cineclub, l’impegno, paesaggi, viaggi e geometrie, mari, montagne e cimiteri, maschere, balli, contestazioni e studi, numeri, scorribande e perdite di tempo, ma con una nuova passione per le forme dello spazio, mutuata dalla scenografia e alimentata dalla sicurezza professionale di un amico architetto di buona mano.

Nella seconda metà degli anni ’60, invece, mi dedicai allo studio dei rapporti tra parola, suono e immagine, collegando l’esperienza pittorica a quella teatrale e musicale [collaboravo con gruppi teatrali, studiavo musica da autodidatta cimentandomi sulla chitarra e sul flauto dolce e ascoltavo molto jazz]. Ma fu fondamentale il rapporto con Roma.

Mi iscrissi alla Facoltà di Architettura nell’anno accademico 1965/66. Fin da ragazzo sono stato perseguitato dalle ombre dei miei ascendenti omonimi, presupposti, vagheggiati, ascendenti d’elezione, aviti profili d’affezione, insinuati ambiguamente nel mito familiare di un trisavolo insediato ai Castelli che, senza come né perché, si sganciava dalla tradizione dei Fontana edili d’ingegno.

Un gran libro sulle gesta edificatorie di Domenico è stato sempre sulla scrivania di mio padre e, di tanto in tanto, era sfogliato in cerca di suggestive immagini di obelischi romani che erano sollevati da macchine tanto ingegnose quanto pericolose per le quali qualcuno doveva gridare “acqua alle corde” per contenere il numero delle morti bianche, che sotto Sisto V non dovevano esser poche. Con quel papa, Domenico si dimostrò grande urbanista nella Roma cinquecentesca. E non solo. Tanti e grandi lavori. Opere importanti, ma certo il progetto più curioso fu quello che prevedeva la trasformazione del Colosseo in una filanda, con tanto di abitazioni per gli operai. Quasi un Fourier ante litteram. Ma chi alitava sulla spalla era Sisto V, al quale si deve anche l’autorizzazione ad utilizzare i monumenti antichi come cave di pietra. Domenico veniva dal lago di Lugano, così suo fratello Giovanni, anche lui architetto. Chissà, forse per questo mi s’insinuò il tarlo dell’architettura. Anch’io Giovanni, anch’io Fontana. Erano di Melide.

Figlio di Domenico fu Giulio Cesare, pure architetto. E Carlo nel 600 collaborò con Pietro da Cortona e col Bernini. Suo figlio Francesco nacque a Castel Gandolfo e insegnò architettura all’Accademia di San Luca. Suo figlio Mauro seguì l’insegnamento paterno. A lui si deve l’Accademia di Santa Cecilia. E ancora e ancora. Finché non spuntò l’altro Giovanni Fontana, quello sulfureo dell’Accademia Bolognese. Architettore di macchine tanto ingegnose quanto strampalate, che aveva il gusto della scrittura e dell’impaginato.

Mi stabilii a San Giovanni, in un appartamentino di via Taranto che mio padre aveva voluto acquistare fiutando un buon affare. Cominciai a frequentare gallerie, a seguire spettacoli, a leggere riviste di area sperimentale. Trovai molto interessanti in quegli anni la lettura degli scritti di Gillo Dorfles, attraverso i quali mi avvicinai alle nuove problematiche della comunicazione; mi appassionai alle questioni legate all’estetica della civiltà di massa, ai rapporti tra i linguaggi, agli universi espressivi interdisciplinari e alle nuove forme di scrittura, dalla poesia concreta alla poesia visiva, dai nuovi sistemi di notazione musicale alla retorica pubblicitaria. Un incontro fondamentale fu quello con “Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia” di Lamberto Pignotti, pubblicato da Lerici nella collana dei “Marcalibri”. Fu un trampolino utilissimo per gli approfondimenti nel settore. Ma allora, in particolare, ero affascinato dall’avanguardia teatrale e dal linguaggio cinematografico. Cominciai a frequentare i teatri romani e a seguire con assiduità le proiezioni d’essai del Nuovo Olimpia. Mia nonna Linda, poetessa e musicista dilettante, mi aveva sempre raccontato le sue avventure artistiche di gioventù nel cinema e in teatro, con suo fratello Alberto, attore, che già nel ’35 recitò con Blasetti, poi ispettore e direttore di produzione. I suoi figli Renato e Roberto (Cinquini), furono stimati montatori, dalla fine degli anni 40 fino ai 70. Contano un’ottantina di film ciascuno. Accanto alla produzione commerciale, hanno varato film di registi come Rossellini e Germi, Vancini e Pontecorvo, Mattoli e Salce. Roberto dovette anglicizzare il proprio nome quando, con Sergio Leone, montò “Per un pugno di dollari”. E diventò Bob Quintle. Subivo la malia di quel mondo. E mi guardavo intorno.

Poi, nel ’68 costituii un gruppo teatrale, con il quale misi in scena il mio primo testo: “Qui si parla di Belacqua e del suo apriscatole”. Collaborava con me Giovanna, anche lei interessata alle arti e al teatro, che diventò mia moglie. Nello stesso anno conobbi Cesare Zavattini con il quale tenni rapporti per il suo progetto dei “cinegiornali liberi”. Zavattini si interessò al gruppo teatrale e fece in modo di farci tenere una serata al Teatro Arlecchino. Zavattini aveva antenne sensibilissime. Capii da lui che la curiosità era una grande risorsa. E con curiosità mi affacciai sul panorama poetico. Talvolta con voracità. Ed ecco Palazzeschi e Campana, Pound e Cummings, la beat generation e il Gruppo 63, fino ad Emilio Villa.

Le prime scritture verbo-visive si affacciarono negli anni 1966-1968 (in perfetto isolamento: non avevo ancora avuto modo di conoscere personalmente i poeti che operavano in quell’area) e si svilupparono parallelamente alle sperimentazioni sonore su nastro magnetico che utilizzai in teatro (1968-1972) in almeno tre spettacoli.

In quegli anni composi numerosi lavori visuali. Da un lato mi interessava la purezza della scrittura dattilografica, dall’altro la trama labirintica della scrittura libera e disordinata; da un lato mi appassionava la notazione sonora, dall’altro la composizione visiva alla maniera del gruppo fiorentino di Pignotti e Miccini.

Lavorai molto per individuare una linea personale. Quelle opere sono in buona parte andate disperse, ma molte sono ancora in mio possesso o presso la Fondazione Berardelli, altre furono amichevolmente “requisite” da Sarenco per iniziative espositive e non sono più tornate indietro: alcune poesie visive sono riapparse nella mostra “Poesia Totale” di Mantova ed una tavola a colori del ’68 figura in catalogo.

In particolare, realizzai le tavole di “Testo” (1967-68) [più di cento pagine per la maggior parte tuttora inedite] e di “Radio/Dramma” (1968-70) [ottanta tavole], che fu successivamente definito da Arrigo Lora Totino un “testo-partitura per battute visive”. La prima stesura organica di questo lavoro risale al 1970, ma molte tavole erano già state composte uno o due anni prima.

Nell’estate del 1971 mi cimentai con uno scritto teorico su “arte tecnologica e arte popolare”, che pubblicai nel gennaio 1972 sul n° 1 della rivista “Dismisura”, fondata a Frosinone da un gruppo di intellettuali locali di vario orientamento di cui facevo parte. In quel numero fu stampata anche una mia “poesia concreta”. Da quel momento pubblicai regolarmente pagine di poesia visuale. Nel n° 3 della rivista (maggio-giugno 1972) uscirono due tavole di “Radio/Dramma”.

Nel ’70 era uscito per Bompiani il “Non libro più disco” di Cesare Zavattini, che mi aveva stupito; ma nel 1973-74, la visita di “Contemporanea”, la rassegna allestita nei parcheggi di Villa Borghese, aumentò la carica dell’entusiasmo e mi spinse, da un lato, ad approfondire la ricerca, dall’altro a forzare i confini del mio ambito consueto. Inviai il mio “Radio/Dramma” ad Adriano Spatola (che si era arroccato al Mulino di Bazzano): lo apprezzò moltissimo. Fu un passo decisivo. Da quel momento (1976) iniziò la nostra grande amicizia. Pubblicai tavole visuali sulle antologie “Geiger” e regolarmente su “Tam Tam”. Nel 1977 uscì finalmente, per le edizioni Geiger (ancora ufficialmente a Torino), il “Radio/Dramma” con testi introduttivi di Adriano, di Giulia Niccolai, di Carlo Alberto Sitta, di Marie Louise Lentengre. La veste tipografica era piuttosto povera (fu stampato materialmente da Spatola in persona), ma sicuramente il taglio della ricerca denotava una certa originalità: tra poesia visiva, scrittura paramusicale, fonetismo, teatro, partitura d’azione, libro d’artista, ecc. Tutte le tavole originali (circa 80) furono esposte nel Palazzo Pianetti-Tesei di Jesi in una mostra di gruppo con gli amici artisti Elmerindo Fiore, Piero Varroni, Franco Bugatti, Riccardo Lumaca. E c’era lì anche un discreto numero delle mie tavole sui canoni proporzionali. Attraverso Dürer mi cimentavo con il dato numerico. Altro pallino, velatamente presente nel mio lavoro. Era ormai il 1978. Entrato nella redazione di “Tam Tam”, iniziai a collaborare con Adriano su diversi fronti, finché nel 1979 non decidemmo di organizzare a Fiuggi quella famosa rassegna (“Oggi Poesia Domani”), in occasione della quale fu offerto un panorama molto articolato delle esperienze verbo-visive, sonore e performative internazionali. Era anche l’anno della grande mostra Concreto & Visuale che Adriano e Giulia organizzarono all’Università di Sidney e alla National Gallery di Melbourne, un momento che ho sempre voluto considerare come una sorta di pietra miliare nel corso della mia attività poetica. Ma in realtà era solo l’inizio. La mia teoria della “poesia pre-testuale” era ancora in gestazione e l’exploit performativo era in fermentazione. Mio figlio Carlo aveva 4 anni. Luca nacque nell’81. Poi venne il resto.

 

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