A proposito di FEU di Mariantonietta Clotilde Palasciano
Opere in mostra presso la galleria LO.FT – gennaio 2020
by Stefania Dubla
Fuoco come la brama di ardere ‘l mondo che Angiolieri fa cantare alle note vispe di De Andrè.
Fuoco come la techne rubata all’iracondo Zeus da Prometeo che ne fece dono agli uomini i quali, in cambio della loro condivisa abilità con gli dei nell’addomesticare la Natura, ricevettero tramite Pandora le uniche cose che li avrebbero definitivamente allontanati dai privilegi dell’Olimpo: la morte e l’illusione della speranza.
FEU come “fuoco” in francese.
Nella mostra FEU di Mariantonietta Clotilde Palasciano, l’abilità tecnica si mette al servizio di un desiderio compostamente distruttivo, che nega al fruitore le sue fallaci convinzioni divinatorie per riportarlo all’origine del suo rapporto con l’esperienza del reale (opera n.1) mosso alla radice dalla domanda: può il pensiero esistere senza il linguaggio?

Nella volontà di accompagnare il fruitore alla risposta, l’artista lo pone immediatamente davanti all’immagine (opera n. 2) di un insieme di pagine bianche, tinte di nero da un gesto cadenzato, su cui sembra leggersi una scrittura. Facendosi sempre più prossimo all’oggetto, il fruitore si rende conto che quel segno non trova corrispondenza in alcun repertorio linguistico noto, agitando in lui un primo spaesamento. Per dirla con le parole di Irma Blank, tra le più incantevoli voci dell’asemic writing, egli entra così in contatto, operandolo, co un esercizio continuo di “purificazione della scrittura, che diviene aperta, poiché non dà ad essa alcun significato fisso” (a).
Liberarsi dal senso univoco (o significato fisso) del linguaggio, soprattutto se trasposto nell’atto privato della scrittura, potrebbe ingannevolmente apparire al fruitore come un’egomaniaca volontà dell’artista di sottrarsi alla comprensione da parte del mondo. La tendenza di Palasciano, invece, è esattamente opposta poiché quella dionisiaca e cadenzata danza, che anima la mano dell’autrice, imprime nel testo senza parole la traccia di un rituale gestuale, sacro, primitivo e dunque prelinguistico, in cui l’io annulla se stesso per accogliere il noi. E’ così ad esempio che, attraverso l’espediente del cucito – pregno del significato comunitario amplificato da Maria Lai -, Libro d’artista di Palasciano si palesa quale manifesta traduzione antindividualistica del gesto come opera collettiva che, interpretato nella scrittura asemica, diventa universale [confronto tra la foto di un momento dell’intervento ambientale “Legarsi alla montagna” e il dettaglio di “Ciò che non so” di Lai con il Libro d’artista di Palasciano opera n. 3].

In dettaglio, l’universalità del significato della parola grafica esente dal senso fisso è reso esplicito in Libro d’artista nell’ultimo foglio di tessuto svelato dal risvolto della pagina precedente. Esso mostra un insieme di punti disposti come a disegnare la mappa di una costellazione in cielo. La parola grafica arriva alla sua sintesi estrema, da testo si fa punto per racchiudere in sé l’infinito cosmo dei significati. La scrittura asemica non si sottrae ovvero alla comprensione da parte del mondo ma, anzi, accoglie la sua universalità, l’immensa pluralità dei suoi significati.
D’altra parte, il valore del gesto come opera collettiva si rintraccia nella tecnica utilizzata da Palasciano, che va letta come un vero e proprio rituale di distaccamento dal sé. Per l’artista, la sperimentazione della scrittura asemica nasce in treno, quando, nel mentre di raccogliere i propri pensieri su un foglio, la mano crea improvvisamente degli scarabocchi trascinata dai movimenti rapidi del vagone in corsa. L’automatismo del gesto di Palasciano non è perciò psichico, come l’avrebbero voluto i surrealisti, ma meccanico, indotto cioè da agenti esterni. Non riflettendo gli andamenti dell’inconscio della propria singola persona, l’automatismo dell’artista non si può definire individuale ma va inteso nella sua qualità di traccia di un andamento esteriore, come il movimento del viaggio di un’eterogenea comunità in treno (opera n. 4). Il suo corpo si fa strumento di un ritmo che comprende tutto ciò che è fuori da sé, dunque collettivo nella misura in cui anche ella vi rientra come parte dell’insieme. In FEU molte delle opere sono state realizzate per combustione: il risultato dell'”automatismo indotto” dal fuoco cambia l’iconografia rispetto alle opere di scrittura ma resta il metodo alla base del processo di produzione artistica (opera n. 5) . Tutto questo viene fatto per non correre il rischio di dare coscienza (cioè significato individuale, chiuso, personale) alle opere e renderle più “asemiche” possibili, a prescindere dalla forma finale che esse assumeranno.

L’opera di Palasciano è dunque universale nel suo liberarsi da un significato univoco, collettiva nel distaccamento dal sé. Ma resta la domanda: nell’assenza di linguaggio come può generarsi il pensiero?
Partiamo dal presupposto che la lingua sia quell’insieme di segni dalla cui relazione si palesa il ragionamento. Tutto ciò che noi esperiamo siamo portati a conoscerlo non in quanto tale ma in relazione a qualcos’altro: l’albero con il bosco, la luce con il buio, le nuvole con il cielo, viceversa e così via. Acquisiamo ovvero nella nostra coscienza la realtà (o significato) di un oggetto se legato a un principio di non-contraddizione all’interno del suo contesto (l’albero, in qualità di albero e non altro da sé, non può stare in cielo). Essendo questo l’unico modo che crediamo di possedere per conoscere il mondo, il ragionamento lo riflette nei suoi enunciati costruiti per una relazione non contraddittoria di segni dal senso univoco, cioè contestualizzati, circoscritti in un preciso ambiente di significato. Tale relazione, normalmente binaria, costruita per cause e conseguenze, ci ha spesso indotto a identificare l’oggetto con il suo segno linguistico, ignorando tutto ciò che non trova una corrispondenza di significato nel linguaggio. L’albero esiste poiché esiste il nome “albero” che lo definisce. Il non-essere non esiste poiché avendolo definito “non-essere” ragionevolmente non è.
Secondo questo antico sillogismo per secoli la cultura occidentale ha ignorato l’esistenza di alcune entità in quanto tali, come il vuoto, concepito solo nella sua subalternità di relazione rispetto al pieno (oggetto esperibile). La filosofia orientale ha invece costruito i pilastri della sua sapienza sull’idea del non-essere in quanto tale, in particolare proprio sul concetto di vuoto, e questo non in un rapporto di privazione rispetto a qualcos’altro né attraverso una definizione dal significato chiuso, contestualizzato. Il “ma” (vuoto) giapponese è a volte inteso come ciò che è pieno di senso (cade così il principio di non-contraddizione secondo cui una cosa può essere quella e non il suo contrario), eppure non è l’unico significato: alla base resta un concetto inafferrabile, inesprimibile, che esiste a prescindere dalla nostra capacità o meno di tradurlo nel linguaggio.
Il vuoto è tra le fondamentali chiavi di lettura per la comprensione del lavoro di Palasciano. L’incisione, techne da cui proviene l’artista, è l’abilità dell’esaltazione dell’assenza da cui nasce l’immagine desiderata. Palasciano più che privare la materia di qualcosa, costruisce intorno all’assenza come significato in sé. Dà al vuoto lo spazio con la scrittura e non il contrario, ovvero la scrittura non riempie il vuoto, anzi, essa si manifesta nello spazio per il suo non-significato, cioè per un’assenza. Ritorna l’idea del non-essere come ciò che esiste di per sé e a prescindere dalla nostra volontà di controllo su di esso tramite il linguaggio.
Quando Mallarmé scrive Un coup de Dés jamais n’abolira le Hasard (“Un lancio di Dadi non abolirà mai il Caso”), tramite soprattutto l’impaginazione del testo nel libro, dove il vuoto è importante tanto quanto il pieno della scrittura [confronto l’immagine di un estratto del testo Mallarmé e particolare di opera n.6], egli ci sta descrivendo tutto ciò che comporta l’atto di lanciare i dadi: l’agitarli per bene, il tipo di lancio, il calcolo della loro caduta per far uscire quel determinato numero piuttosto che un altro, il loro modo di sparpagliarsi sul tavolo. L’evento di muovere i dadi nella nostra mano ci illude di averne il controllo, di poter operare su di essi una scelta, ma – ci aiuta a riflettere Mallarmé – malgrado queste presuntuose convinzioni dell’uomo il Caso esiste di per sé e agirà secondo le proprie imprevedibili regole (b).

Palasciano si libera dell’idea del controllo. Non lo possiede sulle forme, generate dalla casualità della combustione (opera n. 7), sull’io e l’andamento dei segni, che la mano crea oscillando con il movimento del treno (opera n. 4), sul modo in cui la fuliggine si imprime sulla carta e il miele cade su di essa (opera n. 8); Palasciano decide di perdere il controllo sulla prima cosa che crediamo di possedere, ovvero il significato della realtà attraverso linguaggio (opera n. 9).

L’illusione della lingua è quella di portarci a credere di possedere il senso della realtà che nominiamo, attribuendo ad essa un significato che però è del tutto arbitrario. Definivamo “fulmine” la manifestazione dell’ira di Zeus prima di scoprire che fosse un fenomeno atmosferico. Il significato si pone perciò come qualcosa di mutevole nel tempo e nulla ha a che fare con la verità, pur potendo godere di una momentanea ragionevolezza, cioè di un temporaneo rapporto di coerenza con il suo contesto. Il termine “logico”, infatti, contiene la stessa radice di logos, che per i Greci significava sia “parola” che “pensiero”. In altri termini, fin dall’antichità, logica, linguaggio e ragionamento (da sempre erroneamente inteso come sinonimo di pensiero) per definirsi tali, devono godere del principio di non-contraddizione. In matematica 1 vale 1 e non può valere 3. Così accade per le parole, chiuse nel loro significato, la cui relazione – come già detto – è spesso dettata da un rapporto di causa e conseguenza, ovvero da un sistema linguistico binario che, ci dice Hélène Cixous, è frutto di un tipo di ragionamento fallocratico (c).
Il linguaggio maschile, sostiene la scrittrice francese, tende a ridurre l’essere in categorie di binomi in cui l’uno esiste in quanto negazione dell’altro e in un rapporto di subalternità. Si pensi ad alcune coppie di parole e al genere grammaticale attribuitogli (uomo/donna, sole/luna, giorno/notte, cielo/terra, corpo/anima,
cacciatore/preda), al loro significato assunto per secoli in un legame di attività e passività, e all’assenza spesso di una parola-sfumatura tra esse o di una che le comprenda entrambe. L’unilateralità di significato, che coincide con la sua univocità (1=1), priva il ragionamento della capacità di esplorare con i suoi mezzi (ovvero attraverso il linguaggio) la molteplicità dei possibili significati di cui gode l’essere e, soprattutto, nega la comprensione dell’inesprimibile, ridotto alla categoria del non-essere. All’opposto vi è il linguaggio femminile (che per Cixous nel 1977 ancora non aveva trovato una forma (d)), caratterizzato dalla sua estraneità al ragionamento dualistico in termini maschili e che propone, al contrario, una dimensione narrativa dai significati fluidi, molteplici, aperti.
Dunque, poiché senza “alcun significato fisso”, possiamo affermare che la scrittura di Palasciano interpreta le forme del linguaggio femminile, ma non solo. Essendo senza significato, essa si manifesta come alla nostra coscienza appare il vuoto, non per esperienza sensibile ma in forma aprioristica, un’epifania che ci svela la scrittura per quel che è e non in relazione a qualcos’altro: senza significato la scrittura arriva a interpretare il pensiero. Quando è depauperato dagli orpelli ingannevoli dei sensi che attribuiscono alle cose significati coerenti nella loro mortalità (o temporaneità), il pensiero arriva a concepire la verità di sé, che non è ragione ma intuizione primordiale, che esiste come ente in quanto tale, atemporale e non in relazione a.
In fondo l’artista, per rispondere alla domanda che ci insegue dall’inizio, non ci sta privando del linguaggio in sé ma della sua ragionevolezza, ovvero della fallace pretesa che la ragione ha sul mondo, dicendoci che questa non è vera, non lo è mai stata, ma gode solo di una momentanea coerenza. In altri termini, il pensiero è un’eccedenza di significati (fluidi, molteplici, aperti) che il linguaggio non può contenere, soprattutto se ridotto alla binarietà del suo schema di ragionamento.
Ancora: il pensiero può esistere senza il linguaggio poiché non è ragionevole. Quello che a malapena leggiamo sulla nuvola di velina da restauro (opera n. 10) è un segno che si libera della ratio (ciò che de-finisce le cose, ovvero pone loro una “fine” nell’attribuzione di un significato univoco e specifico) per abbracciare un inconscio condiviso (quindi collettivo) prelinguistico, che vive il mondo nella sua ambivalenza di significato, per cui ogni cosa è leggibile in un modo ma anche nel suo contrario.

John Cage ha esplorato le massime espressioni della musica col silenzio, Mondrian ha raggiunto l’apice dell’iperrealismo in quei dipinti che oggi erroneamente chiamiamo astratti, Isgrò restituisce significato alle parole cancellandole. Questi sono alcuni degli artisti che hanno abitato o abitano l’ambiguo (o il “femminile” o il pensiero in quanto tale), quel luogo dai confini non netti ma irregolari, che oscillano di continuo. Dobbiamo immaginarli come le onde che si dissolvono sulla spiaggia, quando si trasformano in spuma che mentre si ritira per un istante resta acqua e per l’altro sabbia. Come poter stabilire la nettezza del confine tra le onde e la spiaggia? Come poter negare in quel limbo la coesistenza di forme opposte? (opera n. 11 di Marco Musarò)
Anche, anzi soprattutto, i poeti fanno oscillare di continuo il senso delle parole stabilendone con l’utilizzo la loro indeterminatezza. “Se io fossi piccolo come il grande oceano”, scrive Majakovskij nell’ossimorica dedica All’amato me stesso, “se io fossi povero come un miliardario”, “se io fossi silenzioso, umil tuono” o ancora “se io fossi balbuziente come Dante o Petrarca” (e). Secondo i ragionevoli parametri con cui ci confrontiamo con il mondo reputiamo immenso l’oceano, ricchi i miliardari, rumorosi i tuoni etc., ma nello spazio poetico l’oscillazione di significato permette che vera sia la coesistenza degli opposti nella realtà dell’oceano, del tuono, e così via.
Per artisti e poeti di ogni epoca, il linguaggio, in qualsiasi forma esso si presenti (musica, pittura, scrittura, etc.), viene letto come un’oppressione del pensiero dettata dagli schemi del ragionamento contemporaneo. L’improvvisazione jazz si contrappone al linguaggio ufficiale e ordinato della musica classica, la libertà impressionista insorge sull’inattualità delle regole dell’Accademia, e così via. Nello specifico della lingua, Cixous, Blanchot, Derrida e i lettristi parlano di logocentrismo, cioè di una società fondata sulla parola come strumento di potere. Per Cixous, l’abbiamo detto, essa è espressione del sistema fallocratico, per i lettristi di quello capitalista. Poi c’è l’architettura: forma per eccellenza di controllo sulla vita dell’individuo. I piani urbanistici, concordati nelle sedi del potere, disegnano sui luoghi traiettorie univoche (come le parole dal significato chiuso) che obbligano in un solo senso prestabilito i percorsi dell’uomo. Per Guy Debord la forma della città è uno dei più potenti strumenti di coercizione psichica e fisica sull’individuo (f). Quindi dov’è la scelta? Siamo ancora in grado di operarla e come, se tutto (spazio e linguaggio) sono luoghi prestabiliti all’esercizio del potere?
In fondo ragioniamo come sentiamo ragionare, abitiamo come la casa ci dice di abitare. Controlliamo come siamo controllati. Allora perdere il controllo diventa la prima arma di ribellione.
In FEU, Palasciano non induce solo se stessa allo smarrimento del senso ma vi trascina con lei anche il fruitore. Nel luogo-testo ella ricorre a riferimenti visivi ben precisi (le righe, i capoversi, il distanziamento cadenzato tra i raggruppamenti dei segni, l’inchiostro nero su sfondo bianco, l’ordine orizzontale delle linee, etc..) per contrapporvi il non-senso dei segni, la loro illeggibilità e impossibilità alla decodificazione da parte di un qualsiasi soggetto, dall’artista al fruitore. Mette cioè in atto un processo ben congeniato di collettivo disorientamento, giocato tutto sulla perdita di senso in un sistema dai riferimenti noti che replicano e simulano le caratteristiche strutturali di un luogo (testo) convenzionalmente concepito.
Non solo. Il suo “luogo” non si circoscrive allo spazio della pagina ma diventa l’intero ambiente in cui agisce. Le opere, se lette nell’insieme, si trasformano in composizioni che trattano la sala e la parete come un unico corpo asemico. Accanto alla linea astratta nel testo troviamo il figurativo dell’ape magistralmente incisa sul piccolo esagono in ottone (opera n. 12 – e particolare n. 13); dall’altro capo della partitura asemantica ( opera n. 14 particolare) troviamo un leggibile – eppur in via di dissoluzione – FEU, scritto sulla parete col fumo (opera n.15); mentre le mappe della serie Atlas s i muovo tra la terra e la sospensione in aria (opera n. 16 e 17). Sfrutta ovvero come riferimenti visivi la “binarietà” della relazione tra le opere portando il ragionamento alla deriva, alla perdita di senso, grazie alla contrapposizione di elementi disorientanti.

Applica – potremmo azzardare a dire – ciò che i lettristi chiamavano psicogeografia, il metodo di un volontario disorientamento nell’ambiente. E’ fuoriuscendo dai percorsi indicati che ci appropriamo dei nostri spazi. Per seguire nuove strade non possiamo chiedere alla ragione di condurci perché essa non sa perdersi e ritorna sempre alle vie della logica. Dunque come poter assecondare il disorientamento se non nella scelta di abbandonare la ratio?
Questo è FEU, un manifesto dell’abbandono e il preludio a una più ampia riflessione sul corpo nello spazio. Dal provenzale à ban donner, letteralmente “donare al bando”, e ban dal significato gotico di “segno” (l’antico documento scritto che veniva affisso e reso pubblico), l’abbandono nelle opere di Palasciano è il dono (la sua manifestazione pubblica, l’esternalizzazione) di un segno ancestrale; è il regalo della perdita di senso nel linguaggio attraverso la messa a nudo della musicalità dell’intimo, il quale grazie all’automatismo – indotto da agenti esterni come il treno o il fuoco – non appartiene alla sua persona ma alla collettività in senso universale.
La discontinua linea nera sul foglio registra gli andamenti dell’Io (inteso nella sua primordiale valenza collettiva) come un elettrocardiogramma fa col cuore e lo spartito con uno strumento, divenendo la trasposizione grafica del suo ritmo interiore. E’ esattamente secondo questa lettura che il compositore Marco Malasomma ha dato suono ai segni della partitura asemantica (opera n. 18) nella inaugurale performance musicale con strumenti elettronici.
La scrittura di Palasciano non è parola ma suono e silenzio (opera n. 19 – con particolari), ordine e caos (opera n. 18), vuoto ricco di significato in sé, pensiero.

Alla domanda su quale direzione stesse prendendo la letteratura, Maurice Blanchot rispondeva che ella “va verso se stessa, verso la sua essenza che è la sparizione”. Egli auspicava la morte del libro (ripresa da Jacques Derrida in La fin du livre et le commencement de l’écriture), o meglio il superamento politico della sua forma che vede la parola (luogo di esercizio del potere) primeggiare sulla scrittura. E’ necessario che invece accada il contrario. Abbiamo bisogno di una scrittura che disturbi, come i graffiti nelle città, che si ribelli, che sovverta e distrugga il sistema di valori tradizioni rappresentati dal libro, che sia in grado di “trasgredire ogni legge, compresa la propria” (g) (opera n. 5 e n. 7).
Note bibliografiche
- (a) Tratto dalla riflessione di Irma Blank realizzata per il canale YouTube di Biennale Channel, intitolato “Biennale Arte 2017 – Irma Blank” (link: https://www.youtube.com/watch?v=r5ARAo67Fl0).
- (b) Stéphane Mallarmé, Un coup de Dés jamais n’abolira le Hasard, 1 897. E’ consultabile online la versione integrale del testo edita a doppia pagina (pubblicata per la prima volta in questa forma nel 1914 dalle éditions Gallimard) al sito coupdedes.com.
- (c) Sul tema del sistema sociale e linguistico fallocentrico si sono espresse molte scrittrici – tra cui H. C. – a cui hanno contrapposto la necessità dello sviluppo di una scrittura femminile. Un pregnante excursus sul tema è proposto da Giorgio de Faggi in Riflessioni su una questione d’attualità: la “scrittura femminile” in “Francofonia” n. 9 (autunno 1985), pp. 41-62.
- (d) “Je parlerai de l’écriture féminine: de ce qu’elle fera” in Hélène Cixous, La venue à l’écriture, Paris, UGE 1977, p.39.
- (e) Per l’ascolto integrale della poesia All’amato me stesso, scritta da Vladimir Majakovskij nel 1916, si rimanda alla magistrale interpretazione di Carmelo Bene portata in televisione dalla Rai nel 1974 nella trasmissione Quattro diversi modi di morire in versi. Majakovskij-Blok-Esenin-Pasternak (l’estratto è disponibile su YouTube al link: youtube.com/watch?v=V2g9KPbjlmc).
- (f) Per approfondimenti sul tema si consiglia la lettura integrale del II numero della rivista internationale situationniste edita a Parigi nel dicembre 1958 con i contributi di G.-E. Debord, A. Khatib e Constant in cui si affrontano il tema della psicogeografia e la teoria della deriva.
- (g) Le citazioni su M. B. sono tratte dall’illuminante articolo di Giuseppe Zuccarino, Blanchot e il superamento del libro, in “Doppiozero”, luglio 2017 (link: doppiozero.com/materiali/blanchot-e-il-superamento-del-libro)
Didascalie delle immagini
Opera n. 1 – M.C. P. e Annalaura Tamburrini, stampa ai sali d’argento e combustione, 2020 Opera n. 2 con particolare – M.C. P., dalla serie Appunti asemantici, c hina su carta pietra, 2018 Opera n. 3 – M. C. P., Libro d’artista Text Us, tessuto e filo di seta blu, 2017
Opera n. 4 – M.C. P., Appunti asemantici 1255, acquaforte su fondino di carta bibbia, 2016
Opera n. 5 - M.C. P., Vocabolario, vocabolario di italiano sottoposto a parziale combustione, 2019 Opera n. 6 - particolare di M. C. P., dalla serie Atlas (partitura asemantica), 2019
Opera n. 7 - M.C. P., Enciclopedia, enciclopedia di greco sottoposta a totale combustione, 2019
Opera n. 8 – M.C. P., particolare dalla serie Atlas, fuliggine e miele su carta, 2019
Opera n. 9- M.C. P., dalla serieAppunti asemantici, intervento ad ago su fuliggine, 2019
Opera n. 10 - M.C. P., dalla serie Appunti asemantici, impressione di carta carbone blu su velina da restauro, 2019 Opera n. 11 - Marco Musarò, Imparaticcio, paillettes e cera, 2019
Opera n. 12 - M.C. P., Appunti asemantici, installazione su parete, tecnica mista, 2020
Opera n. 13 - M.C. P., particolare della serie Appunti asemantici, matrice acquaforte su ottone, 2019
Opera n. 14 – particolare di M. C. P., dalla serie Atlas (partitura asemantica), stampa digitale su carta architetto, 2019
Opera n. 15 – M. C. P., FEU, fuliggine su muro, 2020
Opera n. 16 - M. C. P. dalla serie Atlas, acquaforte e acquatinta su carta riso con pietre in resina, 2018
Opera n. 17 – M. C. P. dalla serie Atlas, installazione su parete, tecnica mista, 2020
Opera n. 18 – M. C. P., Partitura asemantica, stampa digitale su carta architetto, 2019
Opera n. 19 con particolari – M. C. P., Silentium est aureum, serigrafia al miele e cassettiera tipografica con farfalla, 2019
Opera n. 20 – M. C. P., dalla serie Appunti asemantici, intervento ad ago su carta termica e appunti bruciati, 2019
Confronto con la foto dell’intervento ambientale Legarsi alla montagna (foto di Piero Berengo Gardin
finestresullarte.info/479n_maria-lai-un-filo-che-tesse-storie.php) e il dettaglio opera “Ciò che non so” (Foto
Musacchio Ianniello, ansa.it/sito/notizie/cultura/2019/06/18/maria-lai-il-filo-che-lega-il-mondo
_dd03be19-9bfb-4e8a-be36-7a4c1e6a41fe.html), entrambi di Maria Lai
Confronto con estratto del testo di S. Mallarmé – immagine tratta da pag. n. 7 in
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