La parola delle distinzioni relazionali
by Carmen De Stasio
Quale ostacolo si frange tra l’uomo e la parola?
Essere vivente, materia d’indagine e materia della sua stessa indagine. Nuove le intromissioni e le interferenze, nelle sillabe la parola si costruisce nel paradigma delle ascese-discese senza mai decomporsi totalmente. La parola è anche colori, forme e curve o ellittiche decrittazioni di movenze che accadono quando l’uomo ha lo sguardo rivolto altrove. Quando il tutto si risolve in anopsia che confuta iltempo. Il tempo c’è e anche spazio per riprendersi dallo sfinimento dovuto al distacco. Non vedere non è non-accadere e così la parola s’umanizza. Antropomorfica immagine. Attraverso di lei si memorizza il passaggio. Nominale e predicativa, essa è profetica e predica se stessa come storia. Educatrice piuttosto che istitutrice.
Speculare diventante, la parola si frange su aspetti di emissione, trasmissione, ricezione, interconnessione e intra-repulsione o reciproca repulsione. Ma anche interlocuzione e testo enciclopedico da registrare. Nella complessità è soggetta a sviluppo e lo sviluppo, in quanto tale, non può essere ipertrofico o trofico, altrimenti la parola sarebbe un tropo. In verità, essa ha la capacità di essere al contempo in diversi luoghi ed essere tanti luoghi mai in rigetto di sé. Una volta sulla scena, s’investe di funzionalità. È strumento per tradurre voli scarni ‒ le chiacchiere (Heidegger) ‒ che falsificano il si identificativo e il si impersonale o un ci come falso comunitario. Talora appare sospetta in forma di aporia che agisce per più fronti, oppure imbastisce il fronte del nulla insieme a una trasmigrazione verso l’astrazione dal sé. Secondo una tendenza a categorizzare, in astrazione la parola concretizzata non potrebbe elevarsi per via dell’appartenenza. Al contrario, la sua natura molteplice comporta la continua intra-relazione con l’ambiente che essa va a generare, a concludere o a completare, in ciò riconoscendole un criterio scientifico, che assolve allo scardinamento delle costrizioni e ritiene un fermento meta-socio-culturale.
In quanto organismo vivente, inoltre, la parola ordina le stigmatizzazioni del pensiero di pari passo a colui che ritiene esserne creatore. Per questo si può parlare di duplice percorrenza: aggettivale-esplicativa o avverbializzante-conclusiva. Descrittiva negli avverbi e predicativa negli aggettivi che ne condensano la forma principale. A volte si disperde nella nominalità, comportandosi come roccia implosiva ed esclusiva. Una doppelganger che acquisisce la rappresentazione di opera d’arte negli elementi caratteriali, in là rispetto a qualsiasi conclusione che ne comprima il valore in tempo finito in uno spazio definito.
Per tutta risposta (se così posso esprimermi) la parola delle distinzioni relazionalinon ribalta condizioni, ma ne comprende lo svolgimento al fine di scavalcare le dimensioni diacroniche e pervenire a una diacritica forma. Organismo attivo nuovamente detto che, nell’investire l’ambiente, diviene ambiente. Tuttavia, per inciso, valgono non solo l’ambiente e la motivazione a decretare la verità contenuta nella parola: veicolo o veste scenica. In particolare, mi piace pensare all’effetto flooring. Ininterrotte, le trame della parola rivestono un ruolo fondamentale anche a decretare la traiettoria intrapresa. Per questo parlo di doppelganger. Inoltre, nel riflettere sul significato della parola, mi sovviene una commode in stile Beidermeier. Il motivo è ben chiaro: lo stile primo ottocentesco Beidermeier si discosta dai privilegi e porta a fulgore una minimalità, in relazione alla quale sistemare (senza che sfocino in cloni) pensieri fluttuanti (stille di parole in sopraggiungi mento). All’estremità opposta è il sovra-articolato, il voluttuoso, la macchia plateale rispetto a un’informalità comunque logicizzata secondo un ordine intrinseco. La parola d’arte in stile Beidermeier così si potenzia di una duplice connotazione: intrinseca-intrinsecante ed estrinseca-estrinsecante. Accanto, una terza meta-comprensiva intrinseca-estrinsecante. Tale maniera rinnova la posizione dell’uomo nella catena esistenziale. Ne ricompone il rigoglio creativo senza trascendere nell’equivoco della solitudine (talora ricercata o sacralizzata), così che la parola d’arte intrinseca sostiene l’opportunità di penetrazione fuori, dove appare estrinsecante. Ovvero, l’arte-parola, da parlata, diviene parlante soggettivamente ordinativa. Per questo ritengo la valenza della parola consista nell’essere costruttiva di ambiente:
«Anti-melliflua e dalla funzione liberatoria di compensazione, la parola s’identifica con un’equazione matematica, la cui significatività incorpora – nel corridoio dei numeri – segni e incognite; contrasta dissociazioni e destruttura il carisma contaminante delle asperità pregresse sul presente sentire di essere un cuore dont la mémoire / n’est plus que le rêve d’un rêve (Artaud, 2002, p. 36)» (De Stasio C., L’intimità rivelata oltre il non-detto ‒TERRITORIUM ‒ Viaggio nell’intra-costrutto della poesia di Baban Kirkuki)
Il problema sta nell’agguato d’impoverimento-imbastardimento della rotta. Se ostacolo c’è, si riscontra nella velocità che, anziché connotare lo stile, sembra divenire lo scopo. Un impossibile chiasmo. Quasi un’anafora che riporta là da dove è arrivata. E ‒ poiché (così mi espressi in un precedente saggio) dalla somma di un piano conferente con lo zero l’uno subisce disorientamento; e ancora: poiché anche nella stabilizzazione virtuale del sistema solare si è orientati a pensare che a una dimensione corrisponda l’esistenza di un’altra in contrasto ‒ viene da sé che, nell’impoverire il pensiero alla base della diramazione geo-eco-antroposofica dell’evoluzione, le abilità dell’intelletto abbiano un potere che l’uomo non può disintegrare, né avvilire. Questa la traccia affinché la parola trasli a situazione (complessiva) e così evitare di crearsi ostacolomediante atteggiamenti che mal si coniugano con la mutazione in quanto fatto ambientale. L’immagine, in questo caso, è sconvolgente sovrappopolazione di parole-formule, di individualità, di screzianti frange, nervature e assilli tormentosi. Diversa la situazione dell’io speculato nell’Io. In questa posizione, l’Io non trova altro che l’io stesso, non il sé. Dall’Io l’io non si distanzia. Vive una sorta d’improbabile percorso che parte da zero e, seppur pronto in dinamico lancio, resta fermo. Questo forse uno dei sostegni a una certa tendenza culturale alla rottura con schemi ritenuti infidamente serranti (penso agli aloni luminosi di V. Woolf; al controcanto di Joyce o all’imagismo di Pound e di Yeats).
La differenza sta nella prospettiva di chi scrive la parola d’arte o che sia riconoscibile come creattiva a se stessa (O. Wilde riteneva due tipi d’artista: l’uno disposto a porre domande; l’altro forgiato sulla prospettiva di dare risposte). Va da sé quale sia il tipo di arte che consacri realmente la parola parlante-comunicazionale. Con un procedimento che attiene evidentemente a una sorta di neo metensomatosi, la parola sopporta lo scardinamento poiché è in grado di entrare in sinergia con forze attenenti altre dimensioni. Per questo parlo di eteromorfismo: se la parola fosse monotetica e unidirezionale, configurerebbe l’iconogramma di un’espressione distante dal senso stretto e radicalizzerebbe il senso tautologico e universale dell’arte stessa. La diversificazione visiva attiene a due paritetici confronti: l’uno incentrato su un’intonazione di disappunto e utopistico scardinamento. L’altro gestisce la diversità d’indottrinamento, parla di teoria di rottura di convenzioni e agisce secondo una prassi, un’organizzazione (rivoluzionaria). Certo, il primo caso desta maggior attrattiva, sebbene comporti a media e inoltrata lunghezza uno scadimento d’interesse. Ma è nel secondo caso che si concentra la progressione culturale, suffragata da un’organizzazione interna e dall’assunzione percettiva di fattori esteriori, ai quali si collega per il fatto di compiersi nell’ambito dello scibile. Ciò permette un salto di qualità per il carattere critico-analitico di arte-parola coincidente con l’azione sociale. In maniera marxiana il carattere incide e coincide con il proiettarsi verso l’orizzonte di uguaglianza e mira a scardinare le questioni proprietarie, poiché l’arte e la parola sono di dominio sociale. Compito del facitore è la rescissione del cordone ombelicale. Una sofferenza (V. Woolf) ma anche un atto dovuto. Ciò sostiene la funzione eteromorfa e aporica della parola parlante-artifex, piuttosto che la parola parlata e tiranna. L’azione può dirsi infinente, non lasciandosi sottomettere dai crismi del tempo finito, dello spazio finito ‒ traduzione del sapere di non sapere socratiano:
(…) non è la più riprovevole forma di ignoranza, questo presumere di sapere ciò che non si sa? (…) Mai insomma rifuggirò impaurito da qualcosa che per quanto ne so potrebbe anche essere un bene, piuttosto che da un male certo (Platone,«Apologia di Socrate ‒ Critone»)
L’essenza della parola composta da sapere e non-sapere (essere-in-divenire) si giova altresì di una forma programmatica di selettività, che non già apre e chiude in uno stretto ambito supportato dai fili di una sola traccia, ma si muove lungo l’arco di una dubitazione come riflesso del suo espandersi orizzontalmente, verticalmente, obliquamente, talora passando anche da se stesso e per più di una volta. Quale posto mutevole, la dubitazione si congiunge con il carattere di una parola antinomica e contenutaria. Ecco perché parlo d’intervento intromissivo che solleciti la critica. Ciascuna critica costruisce perché è propositiva. La parola non si disperde e non può permetterselo, poiché della realtà costituente e costituita è parte costruttiva. Opera come dialettica, ma è la realtà il luogo in cui la dialettica viene costruita. Da qui la determinazione di parola nella dimensione performativa e performante. Altresì, detiene il carattere d’installazione per la sua transitorietà, per le effervescenze fluttuanti che non ne delimitano l’orizzonte e permettono al suo carattere sensile di rendersi efficace dell’idea contenuta. Dalla realtà esteriore, che l’uomo costruisce con le (sue) idee, si risale alla condizione dispositiva dell’autocoscienza hegeliana. Il procedimento è semplice: con il superamento dialettico la consapevolezza di uno stato determinato si avvale di una visione completa e le funzioni a essa collegate. Il superamento rende implicito il concetto di gara come rappresentazione di una pariteticità di mezzi, di obiettivi, di presenze individuali che, inseriti in una competizione, devono manifestarsi sullo stesso piano. A differenziarli è la modalità che rende il loro (particolare) essere nel divenire. La specifica maniera dialettica.
Il cerchio argomentativo si accosta alla conclusione con una ripresa: la materia della parola è l’uomo di relazione (H. Arendt). Abile a stabilire climi intellettuali, è essa stessa clima intellettuale (arte-architettura di tutte le arti). Ciò tanto nel luogo della letteratura quanto dell’arte, dove avviene una sorta di redistribuzione del sistema valoriale della parola non già come transito nella storia che l’insieme di uomini compone, quanto la penetrazione che la storia ha all’interno della parola. Difatti si può parlare talora di parola-epifora, ma anche parola di recupero storico. In tal caso essa è nodo di unificazione o intreccio e snodo a un tempo parabolico, iperbolico ed ellittico. Sembrerebbe una disfunzione, ma è il carattere perché la parola sia facitore e non artificio-reiterazione a procrastinazione evagriana. Una garanzia sarebbe iniziare costantemente dal basso; attivare opportunità per evitare il travolgimenti di rumori devianti. È l’azione d’intelletto creativo: quando lo scrittore scrive, esce da sé, compone su un ordine di piani modulabili il paesaggio delle cose e degli eventi e ad esso attribuisce il valore dell’azione dell’uomo moltiplicato o addizionato. Nel prospettarsi all’esterno, assembla i dati e poi rientra nel suo eremo. Pur nell’isolamento, egli non è mai completamente fuori; inoltre, pur non rimarcando la propria presenza, evita le etichette, bypassa la collettivizzazione di immagini statiche e acquisisce la natura eolica che rende la parola inedita, anti-rinunciativa, convincente nelle sue contraddizioni. Per questo né la parola disconosce se stessa, né è sconosciuta a se stessa. Ugualmente lo scrittore-artista non è mai alieno alle sue tensioni; vive la sua a-sistematicità nel non-luogo di revisione periodica, dove confrontare domanda-offerta e stabilire la miglior (propria) offerta e l’efficace domanda. Dove, portando lo sguardo verso la pangea della metafora, la parola sarebbe ostacolo, infuocato Pandaemonium di miltoniana memoria. Trasgressione in limitazione. È per altro il pericolo atteso quando la parola, da strumento di alternanza nomica, si sistematizza come broché pregno di congerie. In tal senso la confluenza della diade purezza ‒ cultura immaginativa traduce l’unitarietà di personalità e identità dell’uomo e, dunque, della parola e dell’arte (e dell’arte-parola). Tutto ciò suffraga una volta ancora il legame asindetico tra parola e arte che non limiti il pensiero; che, al contempo, non ne vanifichi le traiettorie e non rivendichi una verbosità tesa sovente a frantumare coincidenze favorevoli all’implementazione e al rinnovamento dei linguaggi della sperimentazione. In tal caso si parlerebbe di semi-indipendenza, di distrazione parziale dalle caratteristiche dell’arte d’immagine (o imagista) e la scientificità.
Proprio il carattere di semi-indipendenza dispone a colloquiare con le valenze che T. E. Hulme pose all’inizio del XX secolo e che, nell’oggi, riconduco ad una forma asindetica di parola-arte d’immagine. È un fatto che nell’imagismo si compenetrino le opposizioni e i contrasti con una visualità accantonata in favore dei caratteri di visività e visivo, dotati di cadenze scientifiche in una docimologica strutturazione, che aiuta l’armonia anche attraverso fasi geometriche tanto nella scrittura quanto nell’arte. Qualcosa intorno al 1910 cambiava (In or about 1910 something changed ‒ asseriva V. Woolf). Dal canto suo T. S. Eliot appellò l’imagismo point de repère: iperbato antiverboso, ellittico; nitido con un forte tratto sonoro; libero nella speculazione dei soggetti; contenuto non già solo nella brevità (con influenza dalla poesia metafisica di John Donne); conciso nell’auto-regolamentazione della traccia sistematica che squarcia il velo sul soggetto (umano, eventuale, d’azione). Non esistono limitazioni e talora, pur apparendo una sorta di disciplinamento artistico, non c’è traccia d’intromissione per la precisione delle opere imagiste. Se, infatti, nella poesia il campo si allarga da Pound a J. Joyce, F. Madox Ford (solo per citarne alcuni), in arte esemplari sono Klee, Ernst, ad esempio. Successivamente in Italia, Giuseppe Viola.
Siamo, dunque, fuori da un’ortodossia di snaturamento dell’operazione artistica: nella rappresentazione del sentire intimizzato della realtà esterna, i passaggi non sono insonorizzati e dipingono un quadro che, nei suoi simboli, preme su una carica mai aliena dalla realtà: nella scrittura è l’ingegno a utilizzare immagini comprensive con un linguaggio tornito che riunisca (senza affaticare né l’una né l’altra sponda dell’essere e dell’essere tra altro e altri) le soggettività e l’esteriore fatto. In arte è soprattutto l’uso di materiali diversi, l’assenza di logorroismo e la nettezza di spazi umani temprati nel tempo di riferimento. In questa luce la mescolanza tecnica e dei materiali diviene chiave di volta (sostituibile) per colmare lo spazio vuoto tra il significativo per il pensiero e l’obiettivo, oltre che la traiettoria. Similmente, la medesima mescolanzaè nella parola auto-implementativa, simbolo di apertura e rigore per l’uso incondizionato di costruzioni multi-materiche. Così la stessa opera potrebbe giungere a essere codice di studio dell’anatomia umana, tanto da riferire di antropo-arte con riscontro nell’intercomunicazione estetica tanto nella rappresentabilità, tanto nei risvolti etici dell’inteso dire-agire (parola-arte). Una volta ancora le aree apprendono nuove compostezze, sicché le immagini diventano più o meno integrate, sospese o isolate, conseguendo effetto favorevole all’identità. Così l’artista di parola sonda le tendenze delle motivazioni profonde e la spettacolarità del visibile per introdursi con una metodologia che salvaguardi l’incontro tra reale fattivo e inconscio (eredità che colgo da Klee). In altri termini, il processo è occasione perché la parola conservi sia il valore oggettuale che fattuale, sì da evitare che l’esteriore riesca ad imporsi, coinvolgendola in una marmorea postura.
In tutto questo il tempo risulta commistione di tendenze-intenzioni-modulazioni e dibattiti culturali, la cui rilevanza è nel carattere attivo, comportamentale, compensativo degli apparenti (o appariscenti) frazionamenti. Una questione riguarda la natura intrinseca del frazionamento, tanto rilevato nella parola smorzata dal silenzio (sigetico), tanto presente nella riduzione (confinamento), nella sostituzione (singulto avverbiale) o sofisticazione idioglossica. Diversa la posizione della parola-ideogramma ‒ luogo di confronto su un terreno di proposizioni, anticipazioni, obiezioni, alle quali la coltivazione della storia ricorre per accreditare le condizioni che Hegel ritiene necessarie per modificare le fasi esistenziali nei tanti tempi stigmatici (storicistico e sconfinante). In tal senso la storia implica un’interpretazione liberale di effettivo contrasto alla recitazione censoria, alla parola-feticcio, un falso mediante il quale negare e opporsi a un’opposizione. Su queste basi (e non solo) si condensa il pensiero al di là di un presente occlusivo ad interferenze, giacché la storia è sistema a interferenze costanti. Ciò evita la caducità e diffonde la costruzione come integrazione eterogenetica di contro alla subordinazione e, peggio ancora, alla subornazione. La parola è di fatto eterogenica nel rendere la complessità nell’uno. È altresì eterogenetica in quanto sintesi originaria e confluente. Da qui la differenziazione tra parola che comunica e parola-comunicazione: l’una soggettiva attuativa; l’altra obiettiva e volitiva. La svolta è nel momento in cui, considerate le situazioni, entrambe siano di superamento a limiti imposti da una certa spazialità e da una stringente temporalità, la cui alterazione agisce alla stregua di una società corrotta dall’abuso dei propri mezzi.
(…) l’angolo pressoché impercettibile, / tanto da rendere impossibile risalire il circuito (Pound E., Canto XVI)
Note:
Artaud, A., Il Palazzo Incantato – Prime Poesie 1913 – 1923 in «Poesie della Crudeltà», Roma, Stampa Alternativa, Nuovi Equilibri, 2002, p. 36
De Stasio C., L’intimità rivelata oltre il non-detto ‒TERRITORIUM ‒ Viaggio nell’intra-costrutto della poesia di Baban Kirkuki
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