Adriano Spatola, l’irriducibile della Neoavanguardia
by Nadia Cavalera
Brindisi, 9.7.1987
Caro Adriano Spatola,
vorrei farle vedere, per un’eventuale pubblicazione nei quaderni della sua rivista, un mio lavoro di poesia visuale, che necessita di una personale presentazione.
Io potrei essere da lei venerdì 24 c.m..
La trovo? E dove? Ma se crede, data la stagione, potremmo incontrarci anche quaggiù, dove il mare, nonostante tutto, si difende disperatamente bene.
Mi faccia sapere qualcosa: 0831/87164, in via Montebello n.20/E – Brindisi.
A vederci,
Nadia Cavalera
Così, in maniera molto sbrigativa e quasi perentoria, contattai per la prima volta Adriano Spatola. A proposito di Amsirutuf: enimma[i].
Di lui non sapevo niente e pensavo fosse un editore e basta. Me l’aveva suggerito Enzo Miglietta,[ii] un amico poeta di Novoli che, all’epoca, aveva pubblicato un libretto nelle edizioni Tam Tam.[iii]
Io ero allora, e in fondo lo sono ancora, una solitaria[iv], non impedita però dal mio isolamento a stare, per intuizioni coltivate e ricerche personali, al passo dei tempi e talora ad anticiparli.
Come nel caso di Amsirutuf: enimma, che se per Spatola rappresentò un «libro totale alla Roland Barthes»[v], per me era semplicemente testimonianza della mia vita. Recupero commentato di mie giovanili poesie e impegno programmatico per il futuro. E precisamente, come ebbi modo di scrivere in seguito:
Un emblema sinestetico del degrado crescente di un mondo ingiusto, vuoto e falso che andava cambiato.
Amsirutuf: enimma, con quel suo blocco di parole in alto a sinistra completamente coperto da segni e disegni, più spesso sfregiato e la proposta dello stesso, in basso a destra, rovesciato ed evidenziato, era il mio no ad una parola fascinosa ma non aderente alla realtà, che la copriva anzi e mistificava. Ne immobilizzava la crescita.
Ma era anche il mio sì per una parola da reinventare, pescando nel passato (da ciò la scrittura a ritroso, non speculare, con quelle sue propaggini di lettere quasi radici aeree, piume “angeliche” novae, tese a captare tra le macerie) per trovare le energie necessarie a fondare il futuro. In una sfida di cui avvertivo tutta la più lontana incertezza, l’enimma appunto, presente nel titolo, dopo un futurismo a ritroso e al femminile.
Di una sola cosa ero certa: in quel futuro la donna doveva avere un ruolo diverso, ma pari in dignità a quello dell’uomo. Non è certo un caso che la “TAV. 1968, 7^ variazione”, dove il testo coperto recitava “ma
pretendiamo la festa dell’uomo / la donna celebriamo”, contenesse due righi musicali (non uno come per tutte le altre).” »[vi]
Non passarono molti giorni e Spatola mi chiamò al telefono. Era interessato, gli mandassi pure il manoscritto. E così ho fatto. Mi richiamò compiaciuto. Un lavoro singolare, globale, che rientra nella collana, disse, nominò vari autori e pure Roland Barthes, mentre io scoprivo un mondo nuovo e a me consono, insieme.
Per commentarlo e definire le modalità concertammo che sarei andata a trovarlo a Sant’Ilario D’Enza, nell’agosto successivo, approfittando del mio soggiorno in montagna a Campo di Giove (in Abruzzo), che mi avrebbe consentito un viaggio più breve.
Non so bene se sia scesa a Parma, o direttamente a Sant’Ilario. So solo che, una volta in stazione, per raggiungerlo in via val d’Enza 228, sono stata costretta a prendere un taxi (ce n’erano diversi… doveva essere una città), ad un costo salatissimo da me non preventivato. Tant’è che sarei stata costretta a farmi prestare da Spatola l’importo per ritornare indietro.[vii] All’arrivo, ecco, nel verde di siepi basse, il cancelletto e la Ca’ Bianca[viii], nome luminoso, teso quasi a neutralizzare nel candore evocato l’olezzo insopportabile (per narici pugliesi non avvezze) delle porcilaie intorno, o forse di allevamenti di polli.
Lui mi è venuto incontro insieme al cane, che abbaiava. Gli gridai subito che ne ero spaventata. Alto, grosso, sorriso incerto tra la barba stellata, aveva una camicia a quadretti trattenuta dalle bretelle di comodi pantaloni e teneva la testa di Lulù premuta sulla coscia. Era gentile, ma di poche parole, come imbarazzato. Entrati in casa, ricordo solo un ambiente stretto e lungo, con una scaffalatura in metallo di fronte, a lato di una finestra, e un tavolo al centro. Per il resto, per quanto ho visto di sfuggita, altrove, un arredamento minimal-monacale. Mi fece visitare anche la stalla vuota destinata a galleria d’arte e luogo di incontro per eventi e presentazioni (vi avremmo potuto presentare, disse, anche Amsirutuf). I libri credo stessero sul fienile, da sistemare (si era trasferito lì, dopo Mulino di Bazzano, passando per alcuni anni a San Polo d’Enza, che non era molto).
Superati i convenevoli, fatti anche di mie illustrazioni e sue considerazioni, mi comunicò il preventivo. Troppo alto per me. In qualche tipografia a Brindisi, stampandolo in proprio, avrei speso molto meno, pensai ad alta voce. Stavo desistendo. Senonché lui, mi incoraggiò, disse che sì, era vero, i prezzi lì erano eccessivi (lo sapeva bene), ma il mio era un lavoro sinestetico molto interessante, non dovevo lasciar perdere, e che mi avrebbe permesso di stamparlo nel brindisino. Sotto la sua guida e col suo marchio[ix]. Avrei però dovuto garantirgli l’invio di alcune centinaia di copie. Lui avrebbe scritto l’introduzione.
Così fu. Un lavoro in tandem. La scelta della tipografia, dopo una lunga ricerca a garanzia della qualità, cadde sull’ Italgrafica di Oria. E a risultato finito, Spatola si complimentò molto per la cura che avevo posto. Disapprovò, giusto per motivi legati all’amministrazione, che io non avessi rispettato la data di uscita indicatami, dicembre 1987, e avessi apposto gennaio 1988 (una mia leggerezza: aprire l’anno piuttosto che chiuderlo mi sembrava di migliore auspicio – e poi non sapevo ancora niente dei legami dei supplementi ai numeri delle riviste). Comunque lui, ammise, non avrebbe saputo fare di meglio. Ed in realtà ancora oggi mi chiedo come io sia riuscita, alla prima esperienza, a far combaciare tutto perfettamente, essendo le pagine di Amsirutuf: enimma molto composite, tra foglio tratteggiato, disegno di segni che coprono il testo in alto, a sinistra, testo a ritroso scoperto, in basso a destra, rigo musicale in basso, quasi a universale didascalia. E con un indice favoloso nella sua unicità (me lo riconobbe anni dopo anche Sanguineti)
Credo che il mio sia l’unico libro uscito per interposta autrice. E se questo sul momento mi inorgoglì, dopo, quando ebbi modo di conoscere lo spessore culturale di Spatola e l’amorevole rigore con cui seguiva tutte le sue pubblicazioni, me ne rattristai. Mi sembrava un demerito. Ma superai ben presto l’idea, considerando l’accaduto come una lezione privata, un insegnamento fattivo (in seguito avrei anch’io curato personalmente, in toto, molte altre mie pubblicazioni, la rivista «Bollettario» compresa).
Una preziosa collaborazione con uno dei più singolari poeti della neoavanguardia. Il poeta “stanziale” della resistenza. L’irriducibile, molto più vicino, per taluni versi, di alcuni novissimi a quell’idea di avanguardia che in seguito avrei definito io: «anticonformista zoccolo duro della inderogabile necessità di cambiamento»[x] e «polimorfico indomito contraltare del mutante capitalismo»[xi].
Un poeta, come accertai dopo (a partire da quei primi libri che mi procurai da lui sino alla recente edizione completa delle sue poesie[xii]), che ebbe il merito non solo di credere nell’avanguardia ma di praticarla ad oltranza. Niente coitus interruptus, da me rimproverato alle altre avanguardie (la neo, compresa), ma affondi completi, exploit reiterati, personali e di gruppo. Perenni, nella fede di un ricambio continuo, da costruire incessantemente.
Infatti, nel 1969, quando il fenomeno della neoavanguardia sembrava rientrato del tutto (tra carrierismo trionfante e discrepanze ideologiche), con la chiusura di “Quindici”[xiii], Spatola, che vi aveva lavorato come redattore insieme ad altri, tra cui, in qualità di segretaria, Giulia Niccolai (iniziarono allora la loro relazione), lasciò Roma e con la nuova compagna, si arroccò a Mulino di Bazzano, in una cascina affittatagli da Corrado Costa, e lì avviò una stagione culturalpoetica straordinaria. All’ombra di una non smaccata politicità. Solo sottintesa. Sobria, direbbe forse Luciano Anceschi.
Mulino costituì un’enclave operativa unica, un «luogo fecondo vivo e produttivo»[xiv] , dove tra la gioia di lavorare e la gioia di ricrearsi, si svolgeva «una festa continua»[xv], ricorda l’artista Giuliano della Casa, che ben ne ha rappresentato il vitalismo di fondo in un acquerello in mio possesso.
Fu una vera e propria officina d’avanguardia, che in una fitta rete di contatti nazionali e internazionali (già testata nella famosa iniziativa di Parole sui Muri, del 1967, a Fiumalbo, quando 100 artisti tennero in scacco dei linguaggi multimediali un intero paesino)[xvi], lo avrebbe decretato «miglior mugnaio»[xvii].
Per Luciano Anceschi[xviii], suo mentore, che ne capì il valore già dal primo impatto visivo (come mi confessò durante uno degli incontri avuti con lui[xix]) fu sapiente teorico delle nuove tendenze, «importante e influente figura di faber», interprete originale e attore di una vita vissuta solo di poesia e per la poesia.
La praticava costantemente, rigorosamente, nonostante tutto e tutti, sempre contro («poesia a tutti i costi, poesia come opposizione»[xx]), e in tutti i modi. In forma lineare, concreta, visuale, sonora. Gestuale. Viscerale. Corporale. Spatola e la poesia erano una sola cosa. Forse anche troppo per Niccolai che lo definì come una sorta di Sisifo, prigioniero della sua stessa ossessione:
Ancora oggi, quando penso ad Adriano, l’immagine che mi si presenta alla mente è quella di un Titano condannato a spingere un masso in salita. Il masso erano le sue opinioni, anche e soprattutto quelle della sua poesia, da lui vista come unica possibile salvazione. Solo, sentiva di non potersi staccare dal macigno e continuava a spingere per paura di rimanere stritolato. Egli sperava di raggiungere alfine la vetta della
montagna, di vedere il masso che rotola giù per l’alto versante e di ritrovarsi libero[xxi].
Peraltro ne aveva contezza Spatola stesso:
Avevo infilato la testa nella poesia, la poesia, la poesia, e capivo che funzionava a limite dell’ulcera. Perché sì ero quasi sempre ubriaco. Questo è stile. Ho i testimoni»[xxii].
Fino alla fine:
Alle soglie degli anni Ottanta molti dubbi positivi si sono trasformati in certezze negative e la poesia o scivola via da sé stessa o si accanisce su un nucleo miserabile di resistenza ai tempi[xxiii]
Per lui ogni giorno l’imperativo categorico era: fare qualcosa per la poesia.
Divenne così la prova provata che il linguaggio e la realtà potevano essere una sola cosa. A discapito dei tantissimi detrattori che lamentavano dicotomie inconciliabili.
E non a caso è Spatola il propugnatore della Poesia totale[xxiv], quella che passando per l’apoesia (liberazione della poesia da sé stessa nei lacci dei vari condizionamenti sociali e della memoria, quale celebrazione feticistica dello statu quo)[xxv], e auspicando l’autoabolizione del pensiero merce a favore del pensiero-sogno[xxvi], arretra alle origini e, tramite lo spasimo continuo di una tensione pura, assurge alla dimensione mentale di invenzione assoluta. L’unica che possa garantire, nel segno della interartisticità e multimedialità, e attraverso i linguaggi onnicomprensivi della plurisensorialità (coinvolgenti i cinque sensi della conoscenza) la ripresa, il cambiamento.
Ecco, il cambiamento è da sempre stato il suo sogno, sin da quando giovanissimo si proclamava anarchico individualista e se gettò una molotov contro la questura di Bologna (6 gennaio 1964) lo fece a miccia spenta, come semplice gesto dimostrativo. Lo dichiarò apertamente: «Sono un anarchico individualista, è stato un gesto simbolico», riferisce in un suo scritto Maurizio Spatola[xxvii], fratello di Adriano e fedele custode della sua memoria. Dunque sovversivo senza volontà di uccidere. Da quell’ anarchico pacifista che era. E da chiaroveggente, gravato dalla visione funesta delle sorti cui una dissennata conduzione etico politica stava spingendo l’umafeminità[xxviii]. Lo dice, tra le righe, nel complesso romanzo L’oblò, per bocca di Guglielmo:
«l’unica mia paura è di essere un profeta veritiero. E se tremo tremo perché la terra mi trasmette il suo tremito»[xxix].
Lo stesso che paleserà ad Anceschi, a proposito del primo disastro nucleare, quando gli dirà: «è ormai cominciato…»[xxx].
L’oblò uscirà in quel 1964, anno denso di avvenimenti per Spatola. Già presente al primo convegno, a Palermo, del Gruppo 63 (era il più giovane), nel 1964 partecipa anche al secondo, a Reggio Emilia, dove approfondisce la conoscenza di Giulia Niccolai e di Corrado Costa, grande ironico affabulatore e suo amico conflittuale storico. Con questi, Nanni Scolari, Antonio Porta e Giorgio Celli fonda la rivista «Malebolge»[xxxi] che tiene a battesimo il parasurrealismo, che mira a colmare un vuoto nella cultura letteraria e pittorica italiana: l’esperienza dell’istanza surrealista. Certo non volevano far rivivere il surrealismo, ma con esso sentivano il bisogno di fare i conti. Era per loro «una sorta di manierismo del surrealismo, un surrealismo freddo, alla seconda potenza, rivisitato soprattutto nelle sue tecniche, con un uso intenzionale e retorico della scrittura automatica, e della psicoanalisi.» dirà, in un convegno[xxxii] a Celle Ligure, Giorgio Celli, che in una intervista rilasciatami nel 1991 preciserà:
Secondo noi la cultura nostrana aveva eluso lo scontro con una esperienza del Novecento che giudicavamo di importanza fondamentale, e che era stata quella surrealista. In Italia non c’era stato un surrealismo pittorico, e tanto meno letterario e quindi ci trovavamo di fronte ad un buco nero del nostro passato. Che cosa bisognava fare? Non è che si potesse rivivere il surrealismo però si poteva fare del parasurrealismo, cioè tutto quello che era per il surrealismo giocato in chiave primaria veniva da noi adattato in chiave secondaria. Quindi ci consideravamo dei manieristi del surrealismo, lo impiegavamo nella coscienza di impiegare degli stilemi che anche modificavamo, e tenendo quindi ben conto che era una situazione manierista e i manieristi è noto che sono sempre stati il controaltare del classicismo. Cioè, se vogliamo creare queste due categorie, diciamo che il manierismo è lo specchio nero deformato inverso del classicismo. Dove c’è un classicismo e si consolida una cultura classica ed egemone ecco che a un certo punto questa si disgrega c i suoi gruppi marginali fanno la fronda e quindi cambiano, stravolgono, usano, impiegano cinicamente quello che il classico impiegava in una prima istanza. Ecco noi pensavamo di fare questo surrealismo di riporto proprio perché ci sembrava impossibile di farlo, rivivere qual’era (la storia non torna indietro né ha sacche culturali laterali). Nello stesso tempo però potevamo passare al nostro paese il nostro mondo parasurrealistico, cioè una specie di esperienza vissuta come arzigogolo sul surrealismo [xxxiii].
Sempre nel 1964 Spatola pubblica L’ebreo negro, una sorta di cartina di tornasole che, strizzando l’occhio surrealisticamente al simbolismo, mira a illuminare, per contrasti metrico ritmici e figure semantiche ripetitive, il dietro le quinte, l’arcano, vissuto spesso come terribile, inaccettabile. E fonte sotterranea di disperazione e induzione all’autodistruzione. Dirà Anceschi: «C’è un ritmo profondo e segreto in tutto il lavoro di Spatola, la poesia-gioia la poesia-farsa nascondono una profonda disperazione, una rinuncia continua a sé stessi, quasi una meditata distruzione.»[xxxiv]
Tematiche già presenti in nuce nello snello e ingiustamente “ripudiato” Le pietre e gli dei (del 1961), prontuario del viaggio che si accingeva a compiere, e che recita, sconsolato, a sé stesso. Quale viatico, per affrontare l’angoscia della mortalità racchiusa nella tirannia del tempo («il tempo è tutto in questo cader d’acqua, in questo crescer d’erba»[xxxv]) e rappresentata dalle pietre («Le pietre non ricordano la vita: c’è una parte di te che non conosci che si brucia nell’attimo che nasce»[xxxvi]). In raffronto perdente, diseguale e immane, con l’immortalità che si indovina dietro le maschere della divinità (evocata qua e là come Signore). Per sopportarne il peso solo la poesia che permette di lasciare qualche traccia di sé: «Malinconia di vino nelle sere/quando chiediamo di essere ascoltati/ per cantare canzoni e sono tante/ sì che rimanga qualcosa di noi»[xxxvii]. Per poi prefiggersi un percorso in salita, difficile ma indispensabile al suo progetto: «tu non seguire la via troppo nota, /dell’astro che nasce per morire»[xxxviii].
Il tutto in maniera realistico-crepuscolare, con qualche spunto e incipit persino dannunziani. Probabilmente secondo gli strumenti e le conoscenze a sua disposizione all’epoca, prima che conoscesse (e ne fosse conquistato) Emilio Villa, Luciano Anceschi, e, tramite i Novissimi, le teorie linguistiche della neoavanguardia.
Di cui saranno frutto tutte le opere successive (poesie concrete e visuali comprese), a partire dall’Ebreo negro, a Majakovskiiiiiii (1971), Diversi accorgimenti (1975), La piegatura del foglio (1976/77), sino alla Definizione del prezzo, uscito postumo, nel 1992. Per citare i più noti. Senza dimenticare le straordinarie performances, in primis Aviation/Aviateur, Seduction/seducteur, o Variation/Variateur, che l’hanno imposto sulla scena internazionale della poesia sonora. In omaggio della quale fonderà e dirigerà, nel 1978, la rivista in audio cassette “Baobab”[xxxix]
Con una caratteristica peculiare, va ribadito. Non l’adesione piena alla neoavanguardia più nota, ma la volontà di recuperare e utilizzare idee portanti delle avanguardie storiche e successive riprese, per svilupparle in un terreno altro. Da qui la predilezione per il precursore Emilio Villa, il citato parasurrealismo di «Malebolge», le tante tentazioni d’innocenza sciamanica e le mescolanze molteplici di poetiche, allignate in tutto il mondo, e di cui lui era acuto codificatore senza codici in cambio da imporre. Un osservatorio puntuale e puntuto. Nel tentativo costante di ripristinare altre vie, non solo per comunicare, ma nell’ ostinazione di ingenerare la stessa situazione della comunicabilità, per lui determinante. Con la ragione libera dalle attuali incrostazioni storico culturali deleterie, accentrate solo sull’economia, e finalmente proiettata verso una realtà altra, almeno più sopportabile.
Una realtà nuova, che poteva trovare origine solo da un linguaggio nuovo. E che non poteva che stare avanti. Avanti.
Convinto che «Scrivere significa costruire il linguaggio non spiegarlo». Questo l’esergo di Max Bense, alle edizioni in Italia e all’estero, del poema visuale Zeroglifico[xl], frantumazione all’osso non delle parole ma delle stesse lettere che le compongono, ad indicare il caos primordiale, ma soprattutto a cercare di tirarne fuori i segreti celati, quelli già annusati quando in epoca ginnasiale si era appassionato alla scrittura egizia. Quasi un bambino che rompe i suoi giocattoli per spiarne il meccanismo interno. Gli Zeroglifici, plateali contestazioni della filosofia del mondo insita in tutti i codici linguistici esistenti, e pura materia grezza, inerte, da cui ricominciare in eterno, sono divenuti poi simbolo, per me, della sua stessa vita.
Immolata, a pezzi, nella macerazione dell’alcol, sul golgota della poesia. Nella folle fede di una rigenerazione. Mediante lui. Per tutti. Che diventassero possessori sani e produttori attivi del linguaggio e della loro storia.
La pia illusione si schiantò presto contro gli scogli/pietre della
morte, diretta tacita interlocutrice di tutte le sue riflessioni, e protagonista presentita dell’ultima sua performance, “Morte di un poeta”[xli]. Segnando nell’ondata d’urto la traccia di un cammino.
Era un mercoledì, il 23 novembre 1988. Adriano Spatola, all’anagrafe Bruno Adriano Spatola, aveva 47 anni. Era nato a Sapjane (Fiume). È stato sepolto nel cimitero di Montechiarugolo, ai piedi del medievale castello, sulla riva sinistra del torrente Enza.
Io, trasferitami dal luglio di quell’anno a Modena, ne parlai subito su «Gheminga»[xlii], e dopo pochi giorni, quasi a raccogliere un ideale testimone, scrissi a Edoardo Sanguineti, per proporgli di fondare insieme una rivista. Sarà «Bollettario».
Note
[i] N. Cavalera, Amsirutuf enimma. Sant’Ilario D’Enza, Gennaio 1988. Poesia visiva,
introduzione di Adriano Spatola. In copertina testo visuale dell’autrice. Formato cm 16 x 23, pagine 104.
Tiratura limitata a 777 copie numerate. 54/b della collana.
[ii] E. Miglietta, Viaggio nell’utopia 1954-1984-2014, Sant’Ilario D’Enza, maggio 1986.
Introduzione di Adriano Spatola, in copertina testo visuale dell’autore. Formato 12 x 17,
pagine 40. 49/a della collana.
[iii] Nata dal connubio artistico letterario con Giulia Niccolai, la rivista TamTam è stata registrata, nel 1971 (prima uscita nel marzo 1972), come periodico delle precedenti edizioni Geiger (febbraio 1968).
[iv] Per scelta o obbligo caratteriale, sebbene, collaborando per il settore cultura al «Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto», conoscessi a fondo tutta la realtà culturale del Salento.
[v] A. Spatola, Introduzione, in N. Cavalera, Amsirutuf: enimma, cit..
[vi] N. Cavalera, La scrittura tra realismo e allegoria, in Superrealisticallegoricamente, pag. 55.
[vii] Avevo sostenuto molte spese, albergo, ristorante, a Parma, dalla sera prima, così da poterlo incontrare nella mattinata e riuscire a rientrare a casa in giornata (avevo già il biglietto di ritorno).
[viii] Scoprii molto dopo che il nome era In onore della seconda moglie, Bianca Maria Bonazzi.
[ix] Disegnato da Giovanni Anceschi
[x] N. Cavalera, È necessario un chiaro progetto alternativo, Corso Canalchiaro 26. Interviste, saggi, interventi negli anni di «Bollettario», Marsilio 2010, p.90.
[xi] Ivi.
[xii] A.Spatola, Le poesie, a cura di Nicola Storch, 10 agosto 2012 (tipografia e luogo di edizione non indicati).
[xiii] La rivista fondata nel marzo 1967 a Roma da Alfredo Giuliani e Nanni Balestrini, e chiusa nell’agosto del 1969 (19 numeri), per divergenze sulla sua crescente politicizzazione. A favore Balestrini. Contro Giuliani, ed anche Spatola (forse scottato da una sua giovanile esperienza sovversiva).
[xiv] G. Della Casa, in E. Cazzola «Al miglior mugnaio», cit., p.174
[xv] Ivi.
[xvi] L’iniziativa, svoltasi dall’8 al 18 agosto nel 1967 fu raccontata subito in un libro delle edizioni Geiger, e oggi può essere ripercorsa storicamente in E.Gazzola, Parole sui muri, Diabasis 2004
[xvii] Eugenio Cazzola «Al miglior mugnaio» Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, Diabasis 2008.
[xviii] L. Anceschi in «il Verri», numero monografico dedicato a A.Spatola, Bologna, dicembre 1991.
[xix] Gli incontri erano finalizzati ad un libro intervista che non fu mai realizzato per il peggioramento delle condizioni di salute di Anceschi. Su Corso Canalchiaro, cit. c’è solo una mia intervista e un profilo del grande maestro.
[xx] A.Spatola, Poesia a tutti i costi, in «Malebolge», n.1, 1964, p.48
[xxi] G. Niccolai, Esoterico biliardo, Archinto 2001, p.84.
[xxii] A.Spatola, in «Doc(K)S», Nouvelle serie, numero 3, Adriano Spatola 1941/1988, Autunno 89, p.4.
[xxiii] A.Spatola, in S. Batisti – M. Bettarini, Chi è il poeta?, Gammalibri 1980, p.222.
[xxiv] A.Spatola, Verso la poesia totale, Rumma 1969; nuova edizione: Torino, Paravia 1978.
[xxv]A.Spatola, Poesia apoesia e poesia totale, in «Quindici», n.16, marzo 1969, poi ripreso in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di A.Guglielmi e R.Barilli, Feltrinelli 1976, pp.128-131.
[xxvi] A.Spatola,Va’ pensiero (coro), in «Quindici», 1968, ora in AA.VV. Quindici. Una rivista e il Sessantotto, Feltrinelli 2008, pp. 345-347.
[xxvii] M.Spatola, Etica, rigore, anarchismo nella poetica di Adriano Spatola, in «Testuale» N. 46, anno 25°, 2009.
[xxviii] Neologismo indicante l’insieme di uomini e donne, che dovrebbe soppiantare, secondo un mio progetto etico-linguistico, il termine umanità, sessista e grondante millenaria violenza.
[xxix] A.Spatola, L’oblò, Feltrinelli 1964, p 139.
[xxx] L. Anceschi in «il Verri», cit.
[xxxi] Aveva al suo attivo già la rivista Bab-ilu (1962, due soli numeri )e, dopo Tam Tam, fonderà, in omaggio alla poesia sonora, anche Baobab, rivista in audiocassette.
[xxxii] G.Celli, in Adriano Spatola poeta totale (Atti del convegno di Celle Ligure organizzato nel 1991 da Pier Luigi Ferro).
[xxxiii] G.Celli, intervista, in N.Cavalera, Corso Canalchiaro 26, cit. pp. 54-55.
[xxxiv] L. Anceschi in «il Verri», cit.
[xxxv] A.Spatola, Le poesie, a cura di Nicola Storch, p.173.
[xxxvi] Ibidem, p.171.
[xxxvii] Ibidem, p.176.
[xxxviii]Ibidem, p.181.
[xxxix]«Baobab. Informazioni fonetiche di poesia» è stata diretta da Adriano Spatola fino al 1985. Era distribuita dalle edizioni Elytra di Ivano Burani. Conta 20 numeri, di cui l’ultimo, a lui dedicato, uscì nel dicembre 1988.
[xl] A. Spatola, Zeroglifico, Bologna, Sampietro, 1966; poi, identico, Torino, Geiger, 1975; con l’aggiunta di sei testi inediti, per The Red Hill Press, Los Angeles & Fairfax 1977.
[xli] Avvenuta a Roma il 9 novembre 1988, pochi giorni prima della sua morte, la performance consisteva nel far auscultare al microfono il battito del suo cuore, che fortemente compromesso, arrancava violento, facendo presagire la fine imminente.
[xlii] «Gheminga. Bollettario di letteratura e critica», Anno 1988, n.3. È la prima rivista da me fondata a Brindisi (solo 4 numeri) e antesignana, già nel sottotitolo, di «Bollettario. Quadrimestrale di scrittura e critica» 1990-2010, l’unica rivista fondata e diretta da Edoardo Sanguineti, su mio input.
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