Vincenzo Lagalla: le radici della violenza
by Francesco Aprile

Stando a Walter Benjamin c’è una violenza e questa, possiamo estendere la nozione, permea gli stati di cose dell’esistenza umana; c’è una violenza, una violenza del diritto[1], per dirla ancora con Benjamin, che è, a sua volta, una violenza di linguaggio. Se il diritto, per essere tale, è sempre imposto o conquistato, lo è anche nella forma del linguaggio. In principio era il verbo. Nell’operazione dell’insufflare come momento originario, la radice si deposita come estremità di una lingua non già scelta, ma imposta. Nella violenza allora la forma primeva è quella del verbo come momento esiziale perché irrompe, accendendo il corpo con la separazione fra l’enunciato e l’enunciazione, fra il soggetto e il suo inconscio come alterità radicale irriducibile e irraggiungibile nella sola forma della lingua. Luce Irigaray[2] allora sposta l’attenzione sulla scelta: crediamo di scegliere di essere, di scegliere di nascere, ma la separazione tra questa credenza di scelta e l’impossibilità di scegliere effettivamente la nascita, sancisce uno iato irrecuperabile che si manifesta nell’assurdo, camusiano, del nostro rapporto con il mondo perché proprio nella consapevolezza maturata attorno all’impossibilità di scegliere il momento primo dell’esistenza, si cela quel principio di separazione fra i termini dell’esistenza, iniziale e finale, che apre il processo all’oscillazione che Lagalla riprende, via Severino, articolandola nella forma composita di una lingua organica.  Per Lagalla la parola si fa materica, corpo, sostanza che abbandona l’accidente del foglio per trovare la necessarietà di elementi vitali: il legno e la terra su tutti.

Questa fuoriuscita della parola, questa metamorfosi del linguaggio dal fiato originario imposto, questo tendersi alla caducità di elementi naturali estranei al verbo, tenta quanto sarebbe altrimenti impossibile: ricondurre lo statuto della lingua alla pratica di un’esistenza che aggira la spirale dell’eterno ritorno, come nell’opera “Illatenza”, dove il legame tra questa fuoriuscita e la materia organica è segnato dal solco dell’arare, dalla manualità irriducibile alla lingua, al verbo. Ciò che cade fuori dal solco fa emergere la corruzione del già venuto al mondo e lanciato nella violenza, come il sale di “Illatenza” che cade sulla foto di una bambina corrompendola. L’amore, allora, è una lingua amputata o qualcosa che langue amputato, recita l’ambiguità dell’opera “Langue” del 2012, dove il gioco è espressione di un “linguaggio”, quello dell’amore, senza “muro”, a- mour, proprio perché irriducibile alla forma del linguaggio socialmente e culturalmente istituito e, allora, se risultasse destinato e restituito alla sola formalità della lingua risulterebbe amputato. Di fatto l’amore, che è amour / a- mour / a- mur[3], senza muro, è forma di esistenza che attinge alla materia e al suono, dove l’esserci è un “Tu -Bi”, un’esperienza fonetica che scontorna il diritto e la sua radice violenta che è anche linguistica.

 

 

 

[1] Benjamin W., Per una critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 2007

[2] Irigaray L., Nascere: genesi di un nuovo essere umano, Torino, Bollati Boringhieri, 2019

[3] Aprile F., Amour che sul muro scrivi / Senza muro Amour. A/mur, in «New Page», 2015, https://newpageinstore.wordpress.com/category/scavi/opere-s/francesco-aprile_s/

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