Sul concetto di “Struction” in scrittura
by Francesco Aprile
2018/01/18
Asemic writing
Le operazioni delle avanguardie storiche, in particolare dall’esperienza futurista e mano-parolibera di Balla alla parola-flusso di area surrealista, hanno avuto il merito di intercettare i cambiamenti in atto nella società del primo Novecento. Lo sconquassamento delle guerre e della disumanizzazione tecno-scientifica, si inseriva in un clima intellettuale di generale cambiamento anche e nell’ottica dell’indirizzo letto dal sociologo canadese Marshall McLuhan in termini di “ritribalizzazione” dell’Occidente. La formulazione del concetto di “villaggio globale” avrebbe bene interpretato l’esasperazione dell’uomo e della terra stessa in un contesto di produzione indiscriminata, mostrando l’inevitabile necessità di un muoversi verso forme ibride, capaci di tenere insieme il locale (“village”) e il globale, fra pratiche di cura e sviluppo inteso in termini di evoluzione più che di progresso indiscriminato. Dal primo Novecento fino al sopraggiungere della seconda metà del secolo, si registrano momenti culturali tipici di una risposta dell’attore sociale che alla barbarie della disumanizzazione risponde con la liberazione del corpo; il risultato è ancora oggi visibile in quelle pratiche che, muovendo principalmente dall’esperienza di Henri Michaux, hanno messo in discussione la meccanicizzazione autorale della scrittura, fuoriuscendo dall’omogeneità del senso, compromettendola. La disposizione del significato è estromessa dal segno/parola che trova i suoi effetti di senso nella gestualità, nel colore, nella matericità. Nasceva fra Europa e Stati Uniti quella che negli anni ’70 sarebbe stata ribattezzata come “scrittura asemantica”, una pratica autorale che poneva al centro della riflessione e dell’azione il gesto calligrafico e non la parola, portando il gesto ad assumere caratteri di evidente tensione calligrafica, senza però giungere ad una significazione logico-formale. Il clima europeo è altresì quello dell’incontro con l’altro da sé, nella fattispecie rappresentato dalla cultura orientale, che pone in essere una sorta di primitivismo autorale legato al gesto, al segno, e che trova agio nell’incontro con una prospettiva nuova, differente, generata dall’avvicendarsi in Occidente delle tematiche tipiche del pensiero orientale. Lo scrivere veniva così svuotato della scrittura, liberando sulla pagina il contenuto rimosso dello scrivere stesso: gesto, segno, colore, materia.
Glitch
Il carattere di fluidità, rinvenibile nell’avanzamento delle odierne tecnologie, contribuisce ad articolare la promiscuità strutturale fra superfici provenienti da piani differenti, al punto da far risultare vana l’opposizione reale/virtuale, per riprendere una definizione di Rosa Menkman, teorica, nonché esponente della glitch art. Il poeta, già divenuto operatore estetico in seno alle avanguardie storiche, partecipa della messa in opera di nuove tipologie di immagini, di cose. Una poetica dell’errore, dunque, è la dimensione alla quale, l’intervento dell’essere umano, destina l’opera tecnicamente identificabile come Glitch. L’intervento esterno, volto a provocare un errore all’interno della trasmissione dei dati, genera la messa in evidenza del codice che sottace all’immagine ultima, degradandola. L’immagine ultima, completa, precisa, definita, da un lato, l’errore dall’altro, si collocano rispettivamente lungo i piani metafisico/dogmatici, i primi, e nelle membra di quelle avvisaglie di disgregazione logico-formale che si stagliano nel mondo, in maniera sempre più consistente, dall’emancipazione estetica, dalla messa in discussione dei codici e dalla crisi del soggetto, i secondi. È un nuovo tribalismo dell’immagine, del dato aleatorio che presentifica l’oggetto. Dall’esperienza di Nam June Paik nel 1963 con “13 TV: 13 distorted TV sets”, dove 13 televisori mostravano immagini distorte, producevano errori, dunque glitch, agli anni ’90 della net.art, con il glitch si è tramutato l’errore in poetica. L’avvento dell’errore comporta così l’emergere del codice nascosto – che nei termini posti da Mario Costa può essere collocato sui piani heideggeriani dell’essere, mentre l’immagine su quelli dell’ente – il quale con il suo emergere degrada l’immagine unitaria e ultima, corrompendola, producendo una scrittura dell’immagine. L’oggetto visivo, che è anche processo, nella destrutturazione della superficie a vantaggio dell’immerso che diviene emerso, procede di pari passo con la ridefinizione del concetto di soggetto di area novecentesca. L’immagine, come il soggetto, si mostra senza punti di ancoraggio e non è un caso che motivo centrale di molte produzioni glitch nel mondo sia l’immagine stessa degli autori, ovvero la messa in discussione della presenza e del mostrarsi, scrivendo modalità altre di tribalismo techno-urbano. La degradazione apre ad un nuovo luogo di parola. La scrittura glitch di un testo, o di un’immagine, porta all’attenzione la degradazione del materiale visivo-letterario. L’emergere del codice, tramite errore, degrada, scrive una scrittura nella scrittura.
Code poetry
Secondo Florian Cramer il source code poetry rappresenta una scrittura che può essere, ad un tempo, elaborata dal pc e, ad un altro, letta come un comune testo. Ciò che segna lo scarto, il passaggio fondamentale, si manifesta in questa polarità del source code poetry, laddove il codice di programmazione assolve il suo ruolo tradizionale, ma in un secondo momento l’intero codice, o spezzoni di esso, possono essere estrapolati e letti come opere, connotando il testo per una valenza visiva che permette di inserire l’operazione relativa al codice all’interno delle esperienze verbo-visive, ma anche della net.poetry. Il programmatore e poeta Richard Gabriel ha coniato l’espressione code is a poetry e successivamente, nel 2002, aveva anche iniziato a lavorare ad un master di Belle Arti in disegno del Software. Il termine Codework è stato coniato da Alan Sondheim in una serie di articoli apparsi nel 2001 sulla American Book Review. L’utilizzo del termine è indirizzato ad una serie di opere intese come deviazioni delle forme, laddove un linguaggio di programmazione viene utilizzato per usi esterni alla programmazione stessa. Già fra gli anni ’90 e i primi del 2000 artisti provenienti dalla net.art si cimentavano con l’uso del codice, il quale, mantenendo lo spirito tipico dei net.artisti, era utilizzato per scopi di spiazzamento e sorpresa.
Una delle prime accezioni del termine Code poem compare in Cybernetic Serendipity (1968) a pagina 57. Si tratta di un trittico di opere di Edwin Morgan, intitolate The Computer’s First Birthday Card, The Computer’s second Christmas card, The Computer’s first code poem, le quali si presentano come blocchi rettangolari, la prima, o quadrati, di testo, in un percorso di indagine che vede Morgan intento nell’affrontare le relazioni esistenti fra la capacità creativa del computer e quella umana.
I Computer Poems di Archie Donald, Timesharing: Conditional Jump, editi nel 1973 riconducono, invece, dritto per dritto alla concezione qui espressa di Source code poetry. Frammenti di codice, scrittura in codice, in sequenza logica, scandita da comandi de-scritti in basic che rimanda chiaramente alla dualità del codice così come inteso nel source code poetry (o code poetry source): da un lato una scrittura eseguibile, dall’altro una scrittura che porta a torsione la programmazione divenendo leggibile al di fuori delle dinamiche della macchina, aprendosi all’ambiguità della comprensione nella dialettica umana; questa dualità conduce il codice sul terreno poetico, oltre che su quello visivo, rapportandolo alla cosalità dell’immagine digitale. Tale pratica trova oggi ampia diffusione nel network internazionale, grazie anche al proliferare di concorsi dedicati.
Differenza
Materiali per un’indagine a largo raggio sulle recenti tendenze negli ambiti della verbovisualità, mettono in evidenza lo spostamento dell’indagine stessa la quale, anziché offrirsi come semplice analisi storica, comporta la rilevazione dello statuto differenziale implicito alle tre pratiche sopracitate. In un contesto caratterizzato dalla riformulazione del concetto di soggetto, eteroflesso, decentrato, la dimensione di questa riformulazione permette un allargamento dei limiti della stessa. Lo statuto differenziale dell’opera consente l’emergere dell’altro da sé. In quest’ottica ritroviamo nell’asemic writing, attraverso lo svuotamento della scrittura, l’emergere dello scrivere che apre all’altro da sé, a quella differenza della scrittura altrimenti eliminata, rimossa e che partecipa all’azione in termini di gesto, colore, materia. L’azione del corpo, lungi dall’essere una semplice prosecuzione della performatività calda, emotiva delle ricerche espressive, pittoriche e autorali del Novecento, ancora prospettiche nello spessore analogico della materia, diventa, oggi, a-prospettica nel tutto-flusso del digitale dove il movimento del corpo è la risultante, l’effetto di una azione mentale sotto l’esercizio del logorio costante della techno-psicopolitica.
Similmente, l’emergere del codice nell’opera Glitch appare come una metafora della differenza. Il carattere estetizzante dell’immagine, come effetto di sintesi unitaria del suo processo di creazione, è smantellato. Il codice retrostante la sintesi unitaria emerge dall’interno e sprigiona una differenza che è forza creatrice e azione vitale. Il piano ontologico del nuovo soggetto si colloca nell’immanenza del soggetto stesso, sprigionando dall’interno una differenza in termini qualitativi, non più quantitativi. L’immagine, aprendo al codice retrostante, alla degradazione, apre all’altro da sé, parla una lingua altra nella lingua, scavandola. Questa scrittura multipla, plurale come il corpo, espone diversi stati di se stessa, ad essa appartenenti e al contempo estranei, è il linguaggio come perturbante, vicino, interno ed esterno, conosciuto, consueto eppure estraneo, altro da sé.
L’effetto che il Source code poetry produce sull’elemento “codice”, sottraendolo alle dinamiche sociali del lavoro, della programmazione, della progettazione, incuneandolo nei meandri della scrittura poetica è quello tipico di una disfunzionalità in quanto risulta sottratto ai criteri di efficacia strumentale tipici della produzione. In altra istanza, il codice come scrittura poetica si presenta come componente visivo-concettuale, dunque lontano e in opposizione a quella dimensione contemporanea che vede nell’accelerazione emozionale l’elemento corrispondente all’accelerazione del capitale. Il codice si scopre disfunzionale, sempre codice, sempre se stesso eppure diverso, altro da sé. La scrittura del codice espone il proprio statuto differenziale.
Struction / Struzione
Delle prime quattro tendenze affrontate, tre di queste – asemic writing, glitch, differenza – rispondono appieno a quei criteri che vanno a comporre la nozione di Struction (Struzione) elaborata da Jean-Luc Nancy. Di queste prime quattro tendenze, la terza, il Source code poetry, riflette in parte lo svincolamento dal concetto di crisi e l’oltrepassamento di un tradizionale orizzonte di senso che è insito nella nozione di Struction, dunque, in parte, coincidendovi. La formulazione offerta da Nancy è quella di un tempo e di un pensiero non più prossimi e/o espressione della crisi e di progetto, bensì incuneati in un contesto in cui la sostituzione e l’integrazione di natura con tecnologia impongono da un lato la coincidenza dei mezzi con i fini, dunque il loro continuo scambiarsi i ruoli, dall’altro il venir meno di un senso ultimo e alto da raggiungere che è perfetta risposta alla già citata coincidenza di fini e mezzi. Questa proliferazione di fini/(mezzi) comporta una condizione di generale equivalenza, «valore di tutti i valori»[1], la quale apre al superamento del concetto novecentesco di assemblaggio, di montaggio, a vantaggio di immagini – l’asemic writing (il più delle volte digitale, non analogico) e il glitch, e le corrispettive versioni video – che si presentano come superfici sconfinanti senza ancoraggio, senza centro, «nel senso di un accumulo privo di assemblaggio»[2] dove «nessuna scelta ci farà uscire dall’equivalenza interminabile dei fini e dei mezzi se non usciamo dalla finalità stessa, dalla meta, dal progetto e dalla proiezione di un futuro in generale»[3]. Qui, Nancy mostra punti di ancoraggio con il pensiero orientale e rende manifesto il punto di rottura di una crisi tale da non rendere più possibile il suo superamento dall’interno e, d’altronde, Lao-Tzu scriveva: «Non è forse perché è senza fini che può realizzare i propri fini?»[4].
A questo punto, l’immagine corrotta, degradata, privata della sua dimensione ultima e unitaria, disancorata in un tutto di superfici sconfinanti realizza l’assenza di fini in un tutto di elementi affastellati senza rapporto, espressione di una contiguità scoordinata, disassemblata, fermata nella compresenza di singolarità tali da tentare e/o ritornare a esprimere il senso di una propria esistenza al di fuori di quell’orizzonte di senso della rappresentazione, semplicemente come pensiero della presenza dove «la comunicazione diventa contaminazione, la trasmissione contagio»[5], occorre, dunque, «superare la finalità, o meglio, imparare a pensare finalità e finitudine congiunte»[6].
Non si assiste più ad un montaggio di materiali, ma ad un affastellamento dove le superfici che sconfinano l’una sull’altra rimandano all’intercambiabilità tra fini e mezzi, allo scambio dei ruoli, ma nell’assenza di punti di ancoraggio rivelano faglie, crepe, elementi che fuoriescono e rompono l’omogeneità dell’uguaglianza mostrando presenze, dunque esistenze singolari e infinite dove l’infinitezza sta per grandezza di un senso altro, esterno alla crisi, oltre che per assenza di progetto unitario, ultimo che nei continui rinvii e salti rivendica un reale
intrecciato a operazioni tecniche e cognitive di cui ci sfugge il fine, in un assemblaggio che non si risolve in un’architettura, né in una composizione organica. Non ci si può più porre di fronte al mondo in termini di rappresentazione, in cui un soggetto indenne, intangibile, rende di nuovo presente qualcosa in sua assenza. Piuttosto il soggetto viene strascinato via con il mondo, essendo parte esso stesso di questo fare senso[7].
Il superamento del montaggio apre all’impossibilità di una composizione organica dove il confine sempre più labile fra superfici diverse, il loro sovrapporsi, parla degli intrecci fra organico e inorganico propri del feticismo secondo Walter Benjamin. L’opera, come la crisi, non è più risolvibile dall’interno della crisi stessa, dunque del capitale, reclamando una etnografia dei resti che dall’Angelo della storia accumula piani senza tensione organica alla composizione.
[1] Nancy J. L., L’equivalenza delle catastrofi, Milano, Mimesis, 2016, p. 30.
[2] Ibidem, p. 51.
[3] Ivi.
[4] Lao-Tzu, Tao-Teh-Ching, Roma, Newton Compton Editori, 2013, p. 29.
[5] Nancy J. L., L’equivalenza delle catastrofi, Milano, Mimesis, 2016, p. 49.
[6] Cecala P., Per un “comunismo dell’equivalenza”. Note sulla democrazia, in «Epekeina», v. 3, n. 2, 2013, pp. 88-89.
[7] Tusa G., Alla fine del mondo, in Nancy J. L., L’equivalenza delle catastrofi, Milano, Mimesis, 2016, p. 22.
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