Note su “Glitchasemics” di Marco Giovenale
by Francesco Aprile
Glitchasemics (Estratti)
Glitchasemics (Libro)
Glitchasemics è un libro di Marco Giovenale, edito da Post-Asemic Press di Michael Jacobson nel 2020, con introduzione di Michael Betancourt e note di Kenneth Goldsmith, Mark Amerika, Jim Andrews. Per sintetizzare, il volume raccoglie una serie di opere in cui l’autore mette in relazione le scritture asemantiche e il glitch.
Introducendo il libro, Betancourt parte, giustamente, dalla relazione fra opera asemica e fruitore la quale permette di stabilire quella produzione di senso e significati che nella mobilità e precarietà del movimento relazionale diventa possibile. In quanto tale, però, ogni conquista di senso è provvisoria. Gli strumenti utilizzati da Giovenale, ricorda Goldsmith, sono plurimi, l’autore, infatti, passa dall’uso della mano al computer, continuando con fotocamere, pagine di quaderni e fotocopie. Ma questi strumenti non fanno altro che rappresentare prospettive di intervento differenti: la mano scrive e disegna, la fotocamera cattura, la fotocopiatrice cattura e manipola, il pc tiene insieme e manipola ulteriormente. La condizione mediale dei linguaggi è quella di compromettersi, di complicarsi a vicenda e l’approdo, ultimo, dei diversi mezzi nella camera operativa di un computer rappresenta il momento stesso della complicazione. Di fatto, la “sensibilità alienata” che McLuhan individuava nell’avvento della stampa a causa del lutto per la separazione di gesto, immagine e suono, è colta lungo un percorso di cucitura e superamento che dal Novecento arriva a oggi nella capacità di ricomposizione dei differenti media che trova espressione nell’uso del pc. Il lavoro di Giovenale non fa eccezione. Gli strumenti utilizzati come, ad esempio, i fogli strappati da quaderni o block notes, assumono un ruolo che dal montaggio passa alla composizione e creazione di spessori che alimentano punti di fuga sulla superficie dell’immagine, lasciando pensare a un “retro” che nell’avvento della manipolazione finale, il glitch, risulta essere un “gioco” o, meglio, un depistaggio, dove il retro reale è tutto o in parte emerso, visibile. Il manifestarsi dell’errore, infatti, conduce alla creazione di un oggetto che non è più espressione del rapporto tra un foglio che funge da base e pochi lacerti posizionati su questo per assemblare l’opera compiuta, al contrario l’amalgama finale è un blocco unico che supera la condizione a-prospettica dell’immagine “glitch” nel tutto di un oggetto che esercitando l’illusione della profondità ravviva la scrittura come corpo; lo sconfinamento delle superfici emerse del glitch, associato al “rimosso” dello scrivere che si affaccia sulla pagina con l’asemic writing, determina l’incertezza della relazione opera-fruitore come impossibilità della salvaguardia di qualsivoglia dato certo. Gli elementi che si danno come leggibili, allora, sono, in sostanza, gli elementi visibili e il dato “comune” e “familiare” che ricaviamo dalla fruizione è rappresentato dal segno asemantico come “scrittura” o “disegno” che è, però, a sua volta illeggibile, mai realmente decifrabile e questo riporta la scrittura, nella sua condizione finale, a farsi corpo, immanenza incatalogabile e irriducibile. La serialità di alcune immagini, anziché ridurre la portata di irriducibilità la amplifica mostrando le opere come processo, evidenziando la natura di una immagine, inserita e ripresa nel suo svolgimento, come mai definitiva, ma transitoria, incostante, dunque, di non immediato ed esaustivo accesso. Ogni autore che si confronti con l’asemic si trova davanti alla possibilità di immaginare un linguaggio; reintrodurlo, però, nella precarietà del transito, del movimento, sposta il linguaggio immaginato verso i litorali che con Wittgenstein possiamo ancorare al processo di immaginazione di una forma di vita: se proviamo a esplorarla la troviamo sempre più al di fuori dei radar della “definizione”.
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