Le linee di fuga di Attivissimo nella materia dei segni
by Francesco Aprile
Una forma di lotta? Una via di fuga? Un territorio sgranato dai segni dell’inquietudine? Il segno di Giuseppe Siniscalchi, artista crotonese in arte “Attivissimo”, domina la formazione di uno spazio lirico-drammatico, ci ricorda Angelo Ferragina in un testo del 1980 che introduceva una mostra dell’artista, che fa del colore furia e incisività, che indaga il primitivo senza farne riproposta, valorizzandolo in una condensazione di linee di fuga, volte a una lettura del proprio tempo in forma di colloquio costante con la materia dell’opera e del suo sentire. Nel Settantasei, sulla rivista “Le Arti”, Gino Grassi scriveva: “Attivissimo è un autentico talento incompreso. Ce lo presenta Gaetano Ganzerli, su proposta di Enrico Bugli. Il quale, nella sua veste di docente dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, ha scoperto questo singolarissimo giovane artista. […] Un autodidatta nel senso più alto della parola, il quale, dopo aver iniziato i regolari corsi, intraprende operazioni linguistiche di alto livello e si prende il lusso di giungere ad una decodificazione degli alfabeti pittorici più storicizzati in funzione di nuovi personalissimi codici espressivi”.
In Attivissimo le ripetizioni dei segni, sia che incidano la superficie o la caratterizzino per pennellate dense, possenti o minime e rapide, si mettono in gioco in forma di proliferazione, dove il “gioco” della furia, dell’incedere forsennato quasi si dissolve nella metrica dell’abbondanza, di una intensità asignificante, asemica che forgia ancora i segni in termini di ritmo, quasi di suono, di spazio deterritorializzato dove la pittura cessa di essere tale per darsi come esistenza, materia viva, attiva in quanto desiderio, dunque svolgimento, progresso. Non è la rappresentazione in sé, non l’opera compiuta, ma la traccia, le tracce di un passaggio.
Attivissimo, scrive Enrico Bugli, “ha visto i segni nel Mundus di Ovidio che era il simbolo del risorgere della vita e della morte attraverso la Lapis Manalis. Attivissimo, come l’antico sacerdote di Borges, che vide la scrittura del Dio sulla pelle del giaguaro, prigioniero nel pozzo, ha visto gli intimi disegni dell’universo, ha visto le origini che narra il libro della tribù, ha visto le montagne che sorsero dall’acqua, ha visto i primi uomini di legno, ha visto i cani che lacerano la faccia degli uomini, ha visto gli infiniti linguaggi che formano una sola felicità e comprendono ormai tutto”. I segni, nella sua opera, prim’ancora che parlare al fruitore, si parlano, dialogano fra loro, nascono, si producono, trovano uno svolgimento per affezione, simpatia, dal graffio alla pennellata un segno chiama a sé l’altro in una concatenazione che è produzione di immagini lontane. Fernando Miglietta, allora, notava come “Un punto, un tratto, un colore, relazionati dialetticamente alla ricerca di una loro autonomia in uno spazio il più delle volte indefinito. […] Il suo spazio diventa pagina su cui scrivere, scrivere dipingendo. Ecco allora il suo alfabeto, un alfabeto dalle origini più varie e lontane”. La fuoriuscita dal “senso” strutturato, socialmente istituito, determina la formazione di una linea di fuga, un tentativo di abolizione delle trame di un qualsivoglia desiderio di potere, a vantaggio di una lavorazione pittorica che privilegia la materia espressiva e la forza vivente di un’esistenza che si esercita libera.