I contro-dispositivi di Élodie Rougeaux-Léaux
by Francesco Aprile
L’artista marsigliese Élodie Rougeaux-Léaux ci pone davanti a tracciati che solleticano il senso comune proprio a partire dalla loro provenienza, dalla loro estrema vicinanza e appartenenza a un mondo al cui interno siamo collocati e da cui siamo strutturati. Nell’indagine sui media, perché a mio avviso di questo si tratta, Rougeaux-Léaux usa i materiali, il corpo, i linguaggi, la lingua in sé come bagaglio d’esperienze e memorie già date, acquisite, facilmente riconoscibili eppure appartenenti a modi che sono, o possono risultare, estranei.
Il mondo è un magazzino di segni. Goldsmith ci ricorda che la produzione testuale è, storicamente, sovrabbondante, che siamo circondati da materiali testuali e, sulla scia di correnti come neoismo/plagiarismo, possiamo attingere a questo magazzino anziché tentare di creare da zero un ulteriore serbatoio segnico-linguistico. A questo punto, il suo lavoro oscilla fra la presenza di un serbatoio già dato e la possibilità di un processo d’esistenza che nel suo svolgersi tende a disfarsi, a perdere tracce, informazioni, elementi determinanti per una calibrazione dei messaggi, dei segni, delle azioni. L’analisi sui media si struttura per uno sguardo al contempo storico e contemporaneo. Il linguaggio è il territorio privilegiato di un’azione politica. L’indagine è indirizzata verso quei dispositivi che, in quanto tali, svolgono una funzione dominante, si danno come agglomerato eterogeneo di discorsi concatenati in rete. Il rapporto e l’incidenza che questi dispositivi stabiliscono con e nella nostra quotidianità è il campo d’analisi attraverso cui muove le proprie pratiche, rivolte con forza espressiva verso una disattualizzazione dei dispositivi, nel modo in cui all’immagine digitale aprospettica (senza spessore) viene contrapposta la cifra esistenziale di una oggettualità ritrovata in materiali d’uso comune attraverso cui riproporre il linguaggio della rete. Così, nell’ottica googlism dell’estrazione di termini, non trovati ma cercati, e modalità d’uso dal motore di ricerca e nella condizione flarf, di un qualcosa di estraneo al propriamente poetico, mette in scena una serie di termini fra i più utilizzati su instagram, i quali finiscono per mettere a nudo lo strumento mostrando come lo statuto dominante sia quello dell’esclusione: le parole, i concetti, si soffermano sulla dominanza di un discorso ad ogni modo e costo felice, relegando al fallimento ogni altra espressione emotiva, vitale. L’esperienza del “positivo”, nell’accostamento forzato e innaturale dei termini concorre alla costruzione e rivelazione di un negativo quanto mai necessario e più reale dell’esperienza forzata del “realismo” digitale più affine al marketing personale che non ad altro. L’autrice svela i tracciati del non detto, del taciuto, li restituisce a nuova vita ancorandoli a strutture non più immateriali, ma rimaterializzandoli introduce spazi d’ombra, lacune, aree d’instabilità organizzata nel reale quotidiano.