Altrimenti sarebbe stato il silenzio assoluto: piccola postilla sull’ombra. Tre domande ad Andrea Astolfi
Francesco Aprile – Andrea Astolfi
1) Il tuo lavoro segue una traiettoria controcorrente a partire dal modo in cui viene articolato e vissuto. In un contesto caratterizzato da iper-presenzialismo, iper-comunicazione, eccesso di marketing, sostituzione delle esperienze autorali con la capacità, piaciona, di intrattenere relazioni e stringere le mani giuste (si obietterà: era così anche prima, ma lo è molto di più adesso), svuotamento dei circuiti alternativi allo standard in favore di una corsa, misera, verso i posti che “contano” – che nella poesia è tutto dire: non conta nulla, è un gioco, la poesia stessa, da miserabili accattoni – procedi mantenendo una rotta: fuori dai contesti standard, fuori dall’editoria, conquistando, giorno dopo giorno, una posizione marginale, avrei detto liminale, ma la parola oggi è abusata, spesso utilizzata a sproposito. Come mai questa scelta? Come collochi te stesso e il tuo lavoro e come lo articoli in queste modalità?
Quanta carne al fuoco, diamine! Diciamo che ormai il problema “poesia” non mi appartiene più, perché, di fatto, non scrivo pressoché più, e già da qualche anno la mia ricerca si è completamente spostata sul fronte visivo, che ha tutte altre qualità, difficoltà, attriti. Ricostruendo un po’ il mio percorso, ho iniziato con la lirica, sono passato ad una scrittura sperimentale e poi ho mollato il colpo, alla ricerca di altro (leggi arti visive). Dico “mollare il colpo” ma in realtà si è trattato di uno spostamento, uno scossone necessario. La poesia mi stava stretta sia come modalità costruttiva e decostruttiva, sia come fuoriuscita finale. In sostanza ho abbandonato il senso logico – che la parola necessariamente custodisce – per abbracciare la suggestione, il trasporto, la rispondenza (sì certo, anche la parola vi lavora ma più relativamente, almeno nel mio caso). L’operazione dello scrivere – azzardo? – è troppo legata ad una costruzione di senso – azzardo sì – sia interno (grammaticale, logico, semantico che sia) che esterno (senso di fruizione), il quale permette alla frase, almeno nel primo caso, di stare in piedi e restituirsi per quella che è: una frase di senso compiuto. Son d’accordo, esiste anche tutta una letteratura che non cede al fascino del senso (interno/esterno), la quale tuttavia, riesce perfettamente nel suo intento: non voler farsi leggere, né comprendere (anche perché non c’è niente da comprendere all’occasione), dal momento che nessuno finisce per leggerla né comprenderne una cicca, appunto – il grosso della mia produzione testuale, come tanta scrittura sperimentale, non è immune da questo impasse. Sul fronte visivo la questione non si pone negli stessi termini, né con la medesima violenza, perché a differenza della scrittura, nel loro darsi – mi riferisco in particolare a pittura e fotografia –, non ricorrono ad un barile di segni codificati pre-esistenti rispetto a sé stesse. Per il pittore esisteranno i colori, le velature, le diverse possibilità di pennellata ecc, per il fotografo le gradazioni di luce, l’esposizione etc, tutti fenomeni sia più sfuggenti, che malleabili, rispetto al “parco-parole” di ferro a disposizione dello scrittore. Non dovrà preparare i colori, né la tela dovrà essere intelaiata, smontata o preparata, né settata la fotocamera. È come se, mentre nello scrittore l’innalzamento del senso si generi solo ad una dimensione – il senso di ciò che scrive[1] è “come” lo scrive –, nell’artista (il pensiero va al pittore) invece il “senso” dell’opera venga distillato duplicemente: il senso di ciò che dipinge è “come” lo dipinge, perché è il segno di ciò che dipinge il senso di ciò che sarà dipinto. Forse sarà il risultato della natura bidimensionale che la pittura, dall’alba dei tempi, porta con sé. Se quel “come” (dipinge) nel pittore coinciderà con il “segno”, elevatosi a “senso” una volta conclusa l’opera, nello scrittore diversamente – quel “come” scrive – resterà sempre e solo “senso”, mai “segno”. Ciò mi porta a pensare che se nello scrittore c’è solo “senso”, nell’artista convivono “senso” e “segno”, e questo gli dà gran libertà, perché l’uno si scambia all’altro e mescola, in una danza infinita che non vede vincitori, né vinti, ma unificazione. In nuce, il senso della forma letteraria non proviene direttamente da un aspetto gestuale[2], scatenante una superficie segnica (che divenuta opera si fa “senso”), ma unicamente dalla costruzione di un apparato logico-grammaticale, dove l’aspetto gestuale – il battere dei polpastrelli sulla tastiera, nel nostro caso – è solo strumentale alla strutturazione dell’impianto portante di senso, diversamente edificato e non il suo senso proprio! Per il pittore invece, sarà il “segno” che farà il “senso”.
Non è un caso, che stando sempre nel terreno dello “scrivere”, che ciò che si definisce “asemic” tenti di lavorare proprio su questo aspetto. Ma il terreno diventa scivoloso. Preferisco un discorso orientato più in virtù del “segno” – ma risiamo già nelle acque delle arti visive. Ritornando alla parola, di sicuro, la mia ricerca testuale più importante è quella di kireji, in parte già pubblicata in soli 20 esemplari di pregio nell’anno 2020, e di prossima pubblicazione (nella versione inedita all, ovvero comprensiva di tutti i testi e non solo di una selezione, come nel caso del libro d’artista) per le edizioni della vostra rivista, Utsanga. Posso dire che è stata una ricerca febbrile, durata un paio di anni, di devozione totale e assoluta. In quel periodo scrivevo in continuazione brevissimi testi, quelli che io chiamo, appunto, kireji, avevo – da poco – preso a scattare foto in pellicola e frequentavo i monasteri zen Il Cerchio e Sanboji. Dico tutto questo perché costituiva un percorso e immaginario di senso, per quanto frammentato, ad ogni modo compiuto, sia artisticamente che personalmente. Le foto erano dei kireji e i kireji erano delle foto, il tutto unito da quello spirito zen di fede, ironia e determinazione, di cui ero alla ricerca. Ma cos’è kireji? kireji, è un componente dell’haiku, che potrebbe tradursi con “carattere che taglia”; essenzialmente si tratta di uno stacco, un capovolgimento di tipo semantico o concettuale, segnalato spesso in traduzione con un trattino, un punto, un’interiezione. Esso sta ad indicare la presa di coscienza dell’haijin (o meglio della non-mente, del sopraggiunto non-io) nei confronti di ciò che ha di fronte ed è – in questo senso – l’essenza dell’haiku, che è a sua volta, espressione dell’insegnamento zen, pratica di vita all’insegna della consapevolezza e compassione. Stando a ciò, il mio tentativo è stato quello di asciugare ulteriormente lo scheletro portante dell’haiku, lavorando quasi esclusivamente sulla ragione dello stacco, dell’indicatore di vuoto e ribaltamento che è il kireji, per il semplice motivo che mi sembrava fosse l’elemento custode dell’insegnamento zen più importante, la presa di coscienza. A titolo d’esempio:
“hanno raccolto le noci – i monaci”
*
“che colpo! – i cacciatori”
*
“suona un disco – viene domani”
Naturalmente tutto ciò veniva perseguito, fregandomene deliberatamente degli aspetti più formali dell’haiku, quali il conteggio delle more e via discorrendo. Mi interessava andare al nocciolo del problema, o di quello che mi sembrava l’aspetto più interessante: ritagliare l’essenza dello spirito dell’haiku, per farne l’haiku dell’haiku, un brandello di testo più breve ancora, incisivo e immediato del suo genitore, tralasciando le parti meramente introduttive o più da corredo, per così dire. Altre volte tuttavia il registro intraprendeva anche vie alternative, dirottando il testo, ora tra le braccia del non-senso, ora in quello del segno, del frammento, dell’appropriazione e rispondente dislocazione. Questo aspetto, che ritengo il più rilevante di tutto questa faccenda, chiaramente, non l’ha compreso nessuno, vuoi una riluttanza della poetanza italica a confrontarsi con qualcosa di così distante dal loro nasuccio, vuoi la mancanza di educazione profonda ad altre tradizioni poetiche ed esistenziali (giapponese, nel caso non fosse ancora chiaro); mettici poi una certa riluttanza per chi non presidia case editrici e festival, una distribuzione praticamente inesistente e il gioco è praticamente fatto! L’unico che ha avuto il coraggio di scrivere di kireji – prima dell’uscita dell’edizione Utsanga – e di aver dato una lettura che trovo davvero molto lucida è Antonio Francesco Perozzi (testo presente nell’edizione di kireji all).
È vero, sono sempre stato fuori da ogni circuito, lontano da qualsivoglia consorteria o combriccola che sia. Senza tante arie, credo sia una mia disposizione naturale, quel bisogno viscerale, di fare un percorso sulla mia strada, fatta di incontri, storie e quant’altro, ma dove la ricerca ha sempre la prima parola, senza indugio. Ad un certo punto della vita, credo, bisogni decidersi, se far società o percorre un sentiero, degno di questo nome, e che si fa, necessariamente, in solitudine e solo di rado, assieme – non viceversa. Di sicuro questo stare “fuori” è un mio modo, almeno, per quanto riguarda il rapporto con la poesia. Tuttavia anche a voler vivere “dentro”, non mi sembrò proprio ce ne fosse possibilità alcuna per me, sia per il tipo di ricerca che allora conducevo, sia forse, per il mio modo di essere silenzioso e irruento, sgraziato e fine, pungente e delicato. Insomma, non so se, in un primo momento fosse una scelta. Se non lo era, lo è diventata. Altrimenti sarebbe stato il silenzio assoluto. Ma quello me lo risparmio per più avanti.
2) Il tuo lavoro in poesia è affidato a libri autoprodotti. Un tempo la pratica dell’autoproduzione era una caratteristica delle avanguardie, delle linee di ricerca: riviste, libri, materiali effimeri. Negli anni Ottanta questa produzione alternativa ha continuato a manifestarsi, ma qualcosa, nella costruzione continua di un circuito alternativo, “contro”, si è inceppato, le produzioni hanno iniziato a sparire dai radar e il ricambio nel sistema di potere ha lasciato il passo a una standardizzazione verso il basso, sempre più sfacciata, esagerata, kitsch. Il concetto di “esoeditoria”, in modo particolare legato alle riviste ma non solo, dopo una diffusione in ambienti specifici, trovava una caratterizzazione nel catalogo dell’esposizione internazionale di Trento nel Settantuno andando a connotare, sempre più, tutte quelle produzioni e quei materiali considerati minori, a volte inutili, deperibili, associati a forme di controcultura non ascrivibili al solo filone delle avanguardie, ma anche all’attivismo politico. Tutta questa produzione, nel tempo, come le forme sperimentali della poesia concreta, della poesia visiva, delle scritture Dada o futuriste, sono spesso state considerate come aspetti goliardici e, in questo modo, messe, in sostanza, al bando, relegate ancor di più ai margini rispetto a quella che certi “puristi”, non si sa di cosa, tendono a etichettare come “Poesia vera”. Da una parte il gioco, dall’altra la “verità” (divina?). La tua autoproduzione poetica si colloca, allora, esattamente a metà strada fra l’esoeditoria e il libro d’artista: da un lato l’autoproduzione come marchio di fabbrica, dall’altro la scelta di utilizzare non materiali scadenti a basso costo, ma carte particolari, pregiate, di una certa grammatura, rilegature, anche in questo caso, non standard, ma ricercate, piccoli formati, carte e controcarte allegate a costruire ulteriori sviluppi. Tutto questo impreziosisce le tue operazioni, avvicinandole al libro d’artista che, però, come notava lo storico Giorgio Maffei, si colloca all’interno del concetto di mercato, mentre le tue pubblicazioni, più concettualmente vicine all’approccio esoeditoriale, se ne distanziano. Come vedi questo tuo sottrarti e in qualche modo in quale posizione pensi si possa collocare la tua pratica di autoproduzione?
Sì, la mia produzione testuale è sempre stata affidata a libricini autoprodotti, realizzati, come dicevi tu, con una certa cura, a partire dalla scelta di carta, la rilegatura, la grammatura e quant’altro. Ad oggi ne ho realizzati 5, 4 testuali (ὁράω, Abbiamo visto un film, kireji, ku) ed uno “olfattivo”, ovvero blu, libro d’artista profumato, realizzato in un unico esemplare, in collaborazione con la Casa Profumiera Artigianale Label Fine Perfumes Toiletries and Waxes di Tenerife, facente parte della Collezione della Fondazione Berardelli. Di sicuro kireji e ku sono quelli più significativi sul fronte testuale ed anche i più simili, non a caso fanno parte della collezione di REPLICA, l’Archivio del Libro d’Artista Italiano, curato da Simona Squadrito e Lisa Andreani. REPLICA stessa nell’estate del 2022, presso la Biblioteca Braile dell’Istituto Anna Antonacci di Lecce, ha curato la mostra “Langue&Parole”, dedicata al libro d’artista, nell’ambito di Capriola, in cui kireji era presente assieme alle opere di Adriano Spatola, Corrado Costa, Emilio Isgrò, Bruno Munari, e tanti altri. A ben vedere i miei libri viaggiano in questa ambiguità, a cui facevi riferimento, tra libro d’artista ed esoeditoria, tra libertà e distanza dal mercato, perché – penso soprattutto a kireji e ku – incarnano abbastanza bene lo sgattaiolare di tre movimenti interni alla mia ricerca di allora: la scudisciata dalla pratica di scrittura alle arti visive (1), la mia necessità di non avere padroni, né padrini (2), l’assoluta refrattarietà alla ragione economica – per quanto potesse essercene – come principio validante dell’opera (3). Tuttavia, rivederli oggi, quei libricini – kireji in particolare – mi sembra abbastanza chiaro, non si tratti tanto di una produzione testuale in senso stretto (leggi anche qui la diffidenza e totale indifferenza/incomprensione di tanti addetti dell’ambito di scrittura di ricerca o sperimentale che sia o sedicente tale..per non parlare dei lirici..) ma di una produzione testuale spuria, nel senso che trova la sua collocazione significante in un’evocazione dal carattere prettamente visivo – figurativo, astratto, sfumando.. –, ai tempi pensavo vicinissima alla fotografia – già scattavo in pellicola –, che ad oggi tendo a vedere bene anche nella pittura o nei suoi anfratti. Quando ho iniziato a realizzare questi libricini, l’idea era esattamente la seguente e tale è rimasta: solo all’artista o scrittore che sia, spetta il compito di creare l’oggetto-testamento, nella fattispecie “libro”, della sua produzione, anche a costo, di stampare in tiratura limitata, e di vedersi di fatto negata una distribuzione ramificata, ma col vantaggio impagabile di fare quello che va fatto, e sotto la propria responsabilità e cura. La sottrazione dal mercato, stando alla mia sola ricerca di scrittura, è un dato di fatto: acquisito, esperito e restituito, nel senso che non poteva che essere così, per le ragioni precedentemente suddette. Una ricerca, difatti, incomprensibile agli addetti ai lavori canonici perché troppo distante da un humus squisitamente italico, troppo lontana dalla tradizione delle “lettere” nostrane e troppo vicina – implicitamente – alla sensibilità delle arti visive, in cui finalmente, ad un certo punto, sfociai, con mia grande gioia e sollievo – e chiaramente anche troppo, dico “troppo”, lungi da qualsiasi cricca urlatrice letterariucola. In sostanza la mia pratica di autoproduzione è un discorso pressoché chiuso. Magari ne farò altri di libricini, il discorso sarà lo stesso. La posizione della mia pratica di autoproduzione rassomiglia al lancio di un piccolo sasso in uno stagno. Qualcuno magari un giorno lo troverà e se gli garberà ne farà/dirà qualcosa. È successo già altre volte, no?
3) Le tue scelte, sia in poesia che nelle arti visive e nell’arte pubblica, hanno un valore estremamente politico, politicizzato. La scelta dell’autoproduzione, la scelta di essere fuori dal mercato, la scelta di essere fuori dal circuito dell’editoria standard, sono posizione politiche. Raccontaci il valore e il peso della politicità nella tua ricerca.
La politicità del mio “ricercare” è qualcosa che rintraccio non soltanto nell’estrinsecarsi del mio modo d’essere (zuppa fritta – brodo lento?) o agire, né unicamente a partire dalle coordinate della mia posizione socio-economica, ma è un dato che, ad un certo punto, mi sembra consegnarsi come massa acquisita, spazio capitalizzato (e perduto, non-ottenuto, il restante), il che non vuol dire data collocazione assolutizzata garantita, almeno questo l’augurio – anche perché il margine è fino davvero! – né congruità certa e razionale rispetto a quanto fatto finora, anzi… Per dire che sempre più spesso si confondono cause ed effetti di alcune azioni o situazioni in cui ci si imbatte, ma forse neanche troppo erroneamente. Nella fattispecie si potrebbe leggere la mia condizione diseredata – o “ex” o “da ex” – in “poesia” con entrambe le lenti (prima lente: causa; seconda lente: effetto), senza che queste, perdano troppo di colore, si tratti di verde vescica, blu di prussia o giallo napoli. In un mondo, anche quello artistico, sempre più impelagato, macchiato dalle “scuole di”, “accademie del”, da un ridicolo professionismo di giada ed un tecnologismo esasperato, il semplice cercare altrove o battere altri lidi, significa di fatti consegnarsi nelle mani del residuo, nel patito cono d’ombra. Ma forse – Perniola docet – non sta proprio nell’ombra quanto di più interessante possiamo andare a scoprire? Il mondo circostante, il “mondo fluttuante” come lo chiama qualcuno è un insieme fittissimo di relazioni, conoscenze, capitali, mercati, ignorati i quali (ma anche ignoranti), si finisce irrimediabilmente per passare a miglior vita – simbolica o sostanziale che sia. Resta la fede, il monasterio, la vita santa. Anche in una cornice laica. Eppure alle volte mi tornano alla mente le parole di Lao Tzu: “L’uomo saggio non lascia tracce”! Ma da gran mortale e poco saggio che sono, chiuderei pur così:
“Non libertà.
Liberazione.”[3]
Piccola postilla infine sull’ombra:
“Quanto è nella cosa è dietro la cosa (e non la cosa).
L’ombra della cosa
è la cosa e non la cosa stessa.
E più dell’ombra della cosa
è la luce d’attorno l’ombra della cosa
che è la cosa illuminata.[4]”
[1] Nello scrittore il senso di ciò che scrive e il come lo scrive coincidono.
[2] Alla lettera: relativo ai gesti o fondato sui gesti.
[3] Testo estratto da ὁράω – breviario, (2016) primo dei libricini realizzati dall’artista
[4] ivi