Intervista  Vittorino Curci
by Francesco Aprile

 

  1. Se c’è un carattere di continuità nella sua opera, questo è rintracciabile nella parola e nell’azione che la accompagna. Che sia poesia – lineare, visiva o sonora – ma anche pittura o musica, parola e azione dominano la scena. Dalle grafie infantili di “Inside” (TamTam, 1984) alla frammentazione del suono nelle esperienze di musica improvvisata e poesia sonora, fino ai segni rapidi, sgocciolanti e sincopati di certe esperienze pittoriche e poetico-visive, l’esperienza della frammentazione percorre la parola e l’azione a questa collegata presentando in poesia una relazione fra reale e un movimento informe di creazione. Quanto, nella sua opera, la creazione si concentra e oscilla fra un continuo dare e sottrarre forma?

Nell’opera, più che la forma, mi ha sempre interessato il processo di formazione, processo che continua anche dopo che l’opera è “compiuta” (se posso usare questo aggettivo utopico) e l’autore se ne distacca. Che si tratti di poesia, musica o pittura, l’avventura dell’arte per me è confinata in un prima e un dopo in cui si condensano tutte le domande e tutte le risposte possibili. In questa prospettiva persino la decomposizione fisica o estetica di un’opera ha un suo grande fascino. Si pensi, nel primo caso a Leonardo, nel secondo all’utilizzo delle forme chiuse nella poesia. Fatta questa premessa, ci tengo a dire che per quanto riguarda la mia personale esperienza artistica ho adottato sin da giovane una lingua madre fatta di mugugni, silenzi, balbettii…

 

  1. Queste relazioni fra linguaggi sono, dunque, la ricerca di una essenza che non può non darsi se non per deformazione del reale, ovvero lo stimolo del narrare cede in qualche modo il passo all’inesprimibile che abita nelle pieghe di queste relazioni e nelle frantumazioni di senso. La pennellata, come una nota, è un taglio sulla superficie, appare. Quale rapporto intrattengono la sua poesia, la sua pittura e la sua musica con la quotidianità?

Blanchot, un autore che per me è stato molto importante, dice che l’opera irrompe nella realtà, ma non appartiene alla realtà, bensì all’immaginario.  Il fatto però che non appartenga alla realtà non impedisce all’opera di essere. E dopo aver parlato della “solitudine” dell’opera, Blanchot ci ammonisce: “Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola ‘solitudine’ vorrebbe designare”. Ebbene, è proprio da un’esperienza simile che nasce secondo me un bisogno prepotente di confrontarsi con la realtà, con la realtà più quotidiana, affinché quella solitudine esprima tutto il suo potere creativo e non diventi una malattia.  

 

  1. In che modo la sua poesia si confronta con la tradizione?

Direi che tutto quello che chiamiamo “tradizione” è in parte un cimitero e in parte una miniera d’oro. Nel cimitero lascio una preghiera, nella miniera d’oro invece scendo sempre volentieri per tornare “a riveder le stelle” più ricco di prima.