Intervista a Giovanni Fontana
by Francesco Aprile
1) La sua poesia pre-testuale, in quanto momento interdisciplinare inteso in chiave di processo (performance), pare esplicarsi come una serie di nodi, di trame rizomatiche che permettono il salto di codice, lo sconfinamento dei linguaggi. In tutto questo, che ruolo assume il corpo, quando i linguaggi sembrano sfuggire ad una qualsivoglia centralità e si lanciano in una pluralità agente?
Al corpo è affidato un ruolo centrale. Necessario. Nell’azione. Costruzione. Procreazione. Il corpo c’è. Qui. Là. Ineluttabilmente. La performance si realizza nel corpo. Infatti. La poesia si manifesta attraverso il corpo. Infatti. Il corpo è luogo del senso, luogo del divenire, luogo di distillazione di processi significanti. Il corpo è macchina del pensiero. È spazio che si rivolge al tempo. È tempo che si fa spazio. Il corpo è elemento dinamico che si apre al contesto. Ma soprattutto è voce. E la voce è fluido in vibrazione. Tratto di autocoscienza sensuale. Che ha capacità avvolgente e coinvolgente. È flatus vitale. Presenza attiva. Respiro. È energia pulsante. È cuore e sangue.
Favorisce relazioni concrete. Non solo acustiche, ma tattili. La voce si espande nello spazio e si fa spazio. La voce si distende nel tempo e segna il tempo. E con la voce il corpo impegna lo spazio e si fa segno. La voce animus. La voce anima. La voce: elemento fondamentale del processo poietico. E non solo intermediale. Nella mia poesia pre-testuale la voce non è banalmente responsabile della trasposizione della parola dalla pagina allo spazio-tempo: la voce attraversa il testo e lo ri-scrive. Proprio lì. Nello spazio e nel tempo. E quella che si realizza è una nuova tessitura. Un sistema articolato di logos, phoné e rythmos. Che si fa poesia in un’ottica plurale. Poesia che guarda oltre la pagina. Senza tuttavia rinnegarla. Recuperando con convinzione i dati materici che hanno caratterizzato le proprie origini sonore. Ma la voce interviene anche come strumento di misura e termine di valutazione nella fase progettuale. Quando si è soli davanti al foglio bianco. Quando si lavora per plasmare sonoramente e organizzare ritmicamente la materia linguistica da rilanciare nello spazio acustico. Il pre-testo (che io considero una sorta di progetto, che tuttavia esprime valore in sé) si dilata in fase performativa. Respira un’atmosfera polidimensionale per divenire poesia come organismo pulsante. E l’energia del corpo ne alimenta le dinamiche e ne garantisce l’equilibrio. Il corpo, infatti, da una parte svolge un ruolo di mediazione e trasmutazione linguistica, dall’altra assolve a una funzione squisitamente generatrice. Del resto il performer, poeta della contemporaneità, si confronta continuamente con il patrimonio materiale che fluisce attraverso i sensi. Roland Barthes scriveva che “non c’è linguaggio senza corpo” [La grana della voce, Torino, Einaudi, 1986]. E se l’intelligenza attiva è corpo, non c’è gesto poetico senza corpo. Anzi. C’è di più. La sua energia, la sua pressione impongono all’organismo poetico processi successivi di riorganizzazione secondo itinerari pluridirezionali. Lo sottopongono a una progressiva modellazione fono-plastica, tanto che, rispetto alla struttura “genotipica” della partitura, si può parlare, per le fasi evolutive spazio-temporali, di una epigenetica della poesia. Una poesia epigenetica. Il pre-testo esprime l’assetto genico e fissa le potenzialità per la definizione dei caratteri fenotipici. Vale a dire che, analogamente con quanto accade in biologia, le caratteristiche del poema in atto (fenotipicamente riscontrabili) sono generate dall’interazione tra il pre-testo (genotipo) e gli elementi esterni (azione performante, ambiente, casualità). Il fatto è che, in un continuo processo metamorfico, ogni performance dona una sorta di imprinting alla performance successiva, che si svolge sempre in condizioni diverse, tanto da manifestarsi sempre come “nuova opera”. Una volta scrissi: la poesia pre-testuale è come un lunghissimo drago: ne fissiamo lo sguardo, ne respiriamo l’alito, ma ne perdiamo la vista della coda, che va e va. A snodarsi oltre l’orizzonte.
2) La scrittura, dunque, come progetto e un corpo come ipertesto, serie nodale, mostrano i segni di un divenire. Quanto conta il fattore relazionale (lo spazio, l’ambiente, il gesto)?
Sappiamo bene che sotto il profilo fisico-geometrico lo spazio esercita la sua influenza sul suono. Si tratta di quei particolari condizionamenti che costituiscono oggetto di studio nei trattati di acustica. A prescindere dalle variabili del mezzo di propagazione delle onde sonore e dai fenomeni di interferenza, sono ben note le variazioni dei parametri acustici in relazione al variare della forma dello spazio (proporzioni, ostacoli interni, orientamento delle superfici riflettenti) e delle caratteristiche dei materiali che lo compongono (in particolare l’impedenza), che determinano riflessione, rifrazione, diffrazione e assorbimento. Una variabile fondamentale è il tempo di riverberazione. Un pericolo è il flutter echo, quando non è voluto. Ma al di là di questi aspetti tecnici precisamente misurabili, sono da considerare attentamente quelli legati alla sensibilità estetica, non valutabili numericamente, relativi all’influsso reciproco tra l’architettura e la plastica del corpo in movimento, alle indicazioni vettoriali e alla dinamica delle traiettorie possibili, agli equilibri cromatici, all’articolazione delle superfici, ai rapporti tra le luci e le ombre (come ci hanno insegnato Oscar Schlemmer o Anton Giulio Bragaglia). E soprattutto, è indispensabile il continuo controllo del rapporto con l’audience. Sia in caso di empatia che di dispatia. In molti casi (non è una novità), il pubblico è addirittura chiamato a collaborare. In occasioni particolari ho stabilito relazioni individuali bisbigliando nell’orecchio degli astanti. Uno ad uno. Un evento sonoro personalizzato su uno sfondo acustico comune. Una circostanza singolare ed esclusiva su un paesaggio sonoro, dove nel brulicare acustico, l’udibile è rinviato all’ordine del visibile. E tutto nel gioco della circolarità sinestetica.
3) È molto importante, nella sua poetica, l’aspetto sonoro. Che valore e quale ruolo assumono le strutture ritmiche nella sua ricerca?
Il componimento poetico si organizza sempre su una struttura metrica. Come è ovvio che sia. Ma in più, nel mio lavoro, le sequenze di accenti si misurano spesso con tipologie ritmiche appartenenti al campo specifico della musica. Arsi e tesi possono fare i conti con gli accenti di cellule ritmiche vere e proprie. Misure binarie. Ternarie. Quaternarie. Possono avere a che fare con accenti dinamici. Melodici. Agogici. Ma soprattutto conta il ritmo del corpo. Che vive la propria voce, dilatando il poema. Pulsazioni. Palpitazioni. Respirazione. Quadro emotivo. Atteggiamenti espressivi. Caratteri dell’impegno fisico nella performance, ecc. Non ultime le strutture ritmiche di matrice elettronica. Che innervano alcuni passaggi stabilendo effetti poliritmici: delay, eco, loop, accelerazioni, rallentamenti, cut up digitale e simili. Energia e temperamento vocale (quindi corporeità) in rapporto con le tecnologie elettroniche, determinano quei segni acustici che hanno caratterizzato inequivocabilmente la poesia sonora novecentesca. Esplorandone le frontiere nel dettaglio, Paul Zumthor ha individuato nel “vocema” un’unità microfonica fondamentale della materia vocale che supera quella di fonema, concetto totalmente assorbito dalla linguistica, ed insufficiente nella realtà complessa della performance. Egli scrive: “Il vocema diviene nello stesso tempo suono, parola, frase, discorso, inesauribilmente; e lo diventa nella propria continuità ritmica” [P. Zumthor, , Poesia dello spazio, Nuovi territori per una nuova oralità, in “La Taverna di Auerbach”, n° 9/10, autunno 1990]. Tra l’altro, soffermandosi sul mio lavoro, così prosegue: “È così che si può, con Giovanni Fontana, assicurare che la poesia non solo è con la voce e nella voce, ma dietro la voce, all’interno del proprio corpo, da dove vengono dominati il canto, i sospiri, i soffi, gli ansiti e tutto ciò che, al di qua e al di là del dire, è segnale dell’inesprimibile, coscienza primordiale dell’esistenza. Giovanni Fontana parla in questo senso di poesia dilatata”.
4) Il suo percorso mostra come la parola fattasi segno si appropri dell’immagine. Si può parlare, per quanto riguarda la sua ricerca verbo-visiva, di una poetica del frammento? E che proprio questi sembrano permettere, nello spazio dell’opera, salti di codice, spostamenti e divaricazioni del segno.
Sì. Nel mio lavoro la parola può diventare immagine. Come del resto l’immagine diventa parola. Ma più che di poetica del frammento (formulazione che rinvia necessariamente ad ambienti vociani), parlerei di poetica del collage, dell’assemblage, del montaggio (categorie che rimandano direttamente alla “tradizione” dell’avanguardia). Se non altro perché, partendo dalla raccolta di frammenti (decontestualizzazioni operate in vari ambiti) tendo a costruire legami forti, attraverso una sintassi che a mio giudizio deve essere sempre molto rigorosa. Quando parlo di legami forti amo far riferimento ai legami chimici. Di natura elettrostatica. Tanto più forti quanto maggiore è il loro contenuto energetico. Parole, immagini, notazioni vengono composte, tessute, seguendo i criteri della circolarità sinestetica di cui si accennava prima. Si hanno legami forti in strutture di tipo intermediale. Legami deboli in sovrapposizioni multimediali. Tornando alla chimica, c’è la stessa differenza che intercorre tra un composto e una soluzione. Perfino l’elemento casuale, quando interviene, è subito imbrigliato nell’organizzazione della struttura dell’opera, che, tuttavia, è sempre aperta a fasi di trasformazione, con il medesimo rigore. È così che le mie partiture vengono rilette sulla base di precedenti esperienze di lettura, ponendosi come tableaux offerti alla percezione ottica. È così che le mie tavole verbo-visive si trasformano in opere video-poetiche, passando dalla staticità della superficie bidimensionale (dove le relazioni dinamiche sono tutte interne alla logica della composizione, tutte implicite) alla dinamicità del mezzo videografico (dove le relazioni tra gli elementi sono poste in successioni temporali offerte all’occhio e all’orecchio). È così che i video-poemi si aprono alla dimensione performativa, trasformandosi in sfondi avvolgenti con i quali interagire (così che il tempo percorra la memoria del tempo in poliritmiche figurazioni tra reale e virtuale). È così che le mie performance subiscono di volta in volta processi metamorfici o epimutazioni, tanto per riferirsi al concetto di poesia epigenetica già espresso.
Il mio lavoro poetico, specialmente oggi, in questo mondo globalizzato e pervaso da una debordante quantità di eventi e di messaggi, in questa caotica “infosfera”, si basa necessariamente sulla raccolta di frammenti. Ma, così come l’operazione di assemblaggio, la raccolta viene fatta seguendo un progetto (che ovviamente è specchio della Weltanschauung): quello che definirei tout court pensiero poetico.
Lascia un commento