Tre libri: Di Spigno, Liuzzi, Galatà
by Francesco Aprile

 

“Minimo umano” (Marcos y Marcos, 2020) è l’ultimo lavoro del poeta Stelvio Di Spigno. Si tratta di un testo in cui l’autore mette sin da subito l’accento su di una umanità da ritrovare, forse ancora da costruire, in profondità, senza lasciare nessuno nello sprofondo dell’esistenza. Il testo che apre il volume appare programmatico. Dedicato al compositore Alfred Schnittke che, dopo l’esperienza serialista, aveva fatto suo il sentiero del “polistilismo” nel tentativo di unire alto e basso, abbattendo le barriere e dialogando con l’essere umano in maniera trasversale, si presenta, dunque, come un testo-manifesto che esemplifica quanto la poetica di Di Spigno si moduli lungo le pieghe dell’esistenza:

Tu che facesti la riforma tonale, / a partire dai tuoi sensori remoti, / sapevi e nascondevi che solo andando indietro, / con un diluvio di archi e applausi campionati, / c’era salvezza, se non totale, di una voce / che prenda ancora vicenda con l’umano.

Come un concerto per coro di Schnittke, il libro ci mette davanti ad una poetica in cui l’umano e il non umano riposano indistinti e l’uomo ha abbandonato ogni nome per sposare la vita:

Riposeranno a lungo, uomini e laghi, / oppure lotteranno a distanza, / nessun nome verrà estorto o estratto / in quiete e sorte di verdissimo lichene, / e solo a nuoto saprà della felicità, / sapendo impedito da folate e piovaschi / l’ormeggio discordante dalla riva.

La presenza della felicità, nelle parole di Di Spigno, lungi dal presentarsi nella forma di un lieto fine, si attesta, invece, come orizzonte di una terza navigazione agostiniana nella quale all’uomo non resta che affrontare il mondo “che non ci cerca e non fa simpatia” nella prospettiva di un amore, mai idilliaco, ma intesto come forma ultima di sapere:

Avrei voluto amarti, perché la notte / sei sveglia come me, metti pareti divisorie / tra la pillola che lotta per dormire e la mente / che cerca una meta, proprio qui dove non / ci sono più vette né obiettivi, né lenti bifocali / per vivere senza ferirsi, nella nuova / e totale convivenza con un mondo / che non ci cerca e non fa simpatia.

Ma l’umano che si confonde con il non umano è anche attraversamento e travaso della storia della letteratura, della lirica, nella progettualità di una quotidianità famigliare all’autore e dell’autore. Tutto si confonde nella rinuncia al nome che è sottratto e negoziato con la scorza nuda di una pelle in perenne contatto con i destini altrui e in cerca di ascolto: fatemi / esistere, oppure ascoltatemi, datemi / una qualsiasi gioia.


Oronzo Liuzzi, che vive e opera a Corato (Ba), è poeta, scrittore, poeta visivo, performer prolifico. Il suo ultimo libro, “Eccomi. Il sacrificio di Isacco” (Oèdipus, 2020) va a rimarcare con forza la tendenza tragica in cui la poetica dell’autore rivela l’esigenza di un piano letterario costruito, prima di tutto, sui territori dell’ascolto. L’autore, infatti, tende a dare corpo e voce, nei suoi testi, a una galleria di personaggi che si stratificano e amplificano a vicenda. Non c’è io, ma un noi anche quando il testo è incentrato, almeno nel titolo, su di una figura che reclama il suo spazio dicendo “Eccomi”. Proprio come nel suo precedente lavoro, “Lettera dal mare”, edito sempre dall’infaticabile Oèdipus – uno dei centri nevralgici della poesia italiana contemporanea – il testo poetico è spartito plurale incentrato sul suono, sul divenire fluido di parole musicali che filtrano, nella cadenza del canto, il cammino dell’uomo come movimento d’amore. Che sia una agostiniana tendenza verso la fede – e qui Agostino torna già in esergo – o una laicizzata speranza nell’amore dell’uomo, Liuzzi guarda al testo e alla successione delle parole con meraviglia, così come cerca di affrontare con il suo sguardo il mondo che sarà quello di Isacco, almeno in partenza, ma è soprattutto il nostro:

l’uomo che smuove il fango dai fondali per trovare la fede / la perla delle promesse spirituali / contemplava il mio corpo nella veglia del sonno mio padre / il mio corpo mite sensibile innocente vivo / che ama gli animali e la luce della vita / festoso quel corpo contempla i villaggi dignitosi dei pastori / sogna con gli occhi di un bambino la meraviglia.

Indossare “la luce del mondo” è viaggio iniziatico sembra dirci il poeta, è condizione necessaria per rifondarlo, il mondo, custodendo in noi uno spazio necessario per “apprendere il vivere”:

la mia anima abbracciava tutto svaniva nel rifugio dei sogni e nel creato / nelle illusioni parlava con i misteri dei sogni confusamente percepiva / una voce interiore che non / capiva e la turbava / l’anima la mia fragile a volte giocosa sorrideva / indossava la luce del mondo / nobile apprendeva il vivere

La poesia, per Liuzzi, è viaggio di e nella conoscenza, opera che setaccia e filtra il tragico del nostro rapporto con il mondo, avvilito da meccanismi di forza e sopraffazione, dove “la nostra vita dominata dal tempo avvolta dalle forze cieche del destino / ascolta le ferite della umana condizione / ci domina / ci custodisce / svela all’uomo i segreti e gli incastri dell’amore”.


Maria Grazia Galatà, nata a Palermo, vive e opera a Mestre. Il suo percorso, tra parola poetica e fotografia, fa dell’immagine un segno marcato di ricerca esperienziale. Di fatti, anche quando non presente, l’immagine connota la condizione dei versi. Il suo ultimo libro è “L’allarme del crepuscolo”, Marco Saya Edizioni, 2020. Introducendo la raccolta, Francesca Ruth Brandes nota come il testo muova da una assenza fondamentale, ovvero la mancanza di un qualsivoglia centro narrante. Ancora, sempre in introduzione, Brandes rileva che la struttura della raccolta porta i singoli testi a procedere per flash improvvisi. Tutto si muove a partire da una messa a fuoco, da uno sguardo che centra obiettivi catturandoli attraverso parole nette, precise, e con cui setacciare le profondità dell’esistenza umana in un tempo che disegna l’essere umano come fragile, ma anche esposto a una condizione che nella struttura stessa del mondo mediale non affronta e non articola la profondità e la complessità, proprie del relazionarsi, a vantaggio dello sfolgorìo del superficiale.

“Negli anni dalle misure larghe / lo sguardo arrischiato e l’inquietudine di chi / non ha confini”, dove lo sguardo arrischiato si fa traccia di una esistenza che è sempre messa in discussione, esperienza del rischio che mette in gioco per prima cosa noi stessi “cavalcando tessuti d’anima”. L’esistenza, che precede l’essenza e il mondo e dove, anzi, questo è fondato dall’esistenza stessa è questo viaggio rizomatico, antigerarchico che procede per salti e abbozzi e costruisce una trama, infine, intricata attraverso cui guardare per tenere traccia di una smodata mole di frammenti:

l’amore ha bisogno di silenzi incrociati / fragile amara sospensione – senti il detto / del vento orfano – adesso quando il volo / potrebbe essere un miracolo nostalgico / lontano nel viaggio cade tra fili delle / nostre paure e tutto cambia / ‘immobilità.

Il plurilinguismo, dall’arabo al francese, amplifica nel testo la portata di una tensione verso quei frammenti di mondo che ci sono altri e irriducibili ma che proviamo a fermare nella “parola” come segno che porta con sé memoria di un corpo sconfinato.

Il coraggio ha l’assedio diacronico / improvviso – la costruzione / della convinzione che tutto vada bene / è pura illusione in questo spazio/tempo / curvo – forse un treno che sfiamma lungo / costa e mare ha memoria di questa notte / di strana saggezza.

Nell’entità di questi frammenti resiste la cognizione dell’accedere, del darsi come evento di ciò che appare, si presentifica nello spazio che apre all’esserci nella lacuna stessa che anima la raccolta. Dove il centro della narrazione si perde, si animano incessanti i fremiti di voce e fuoco.

Poi accadiamo l’eterno nell’incontro / e se ripetessi che esisti quanto il caos? / Dillo che la peste nera è inferno o v’è / salvezza alcuna parlare di fuoco?