A 130 anni dalla nascita di Osvaldo Licini: tra epistole, poesie inedite e romanzi
by Riccardo Renzi

 

Il 22 marzo 2024 sono ricorsi i 130 anni dalla nascita del pittore Osvaldo Licini e per celebrarlo voglio raccontare il “Licini scrittore” sino ad oggi poco studiato, infatti il presente lavoro non si occuperà, tranne poche eccezioni, di Osvaldo Licini artista, che poco ci compete, ma del Licini scrittore e letterato. Licini, al momento, è considerato uno dei maggiori esponenti italiani dell’astrattismo artistico della prima metà del Novecento. Il giudizio sull’artista, però, non fu sempre questo, per un lungo periodo cadde nel dimenticatoio e solo negli ultimi trent’anni lo si è andato riscoprendo e valorizzando. Motivo questo, che bene spiegherebbe l’aumento vertiginoso delle quotazioni delle sue opere[1].

Licini nacque il 22 marzo 1894 da Vincenzo e da Amedea Corazza a Monte Vidon Corrado, nelle Marche, dove trascorse l’infanzia con il nonno Filippo, essendosi la sua famiglia trasferita a Parigi già dal 1885. Presso la capitale francese il padre, abile disegnatore e cromolitografo, iniziò a lavorare come cartellonista. La madre invece diresse un atelier di moda e la sorella, Esmé, fu ballerina all’Opéra. A soli quattordici anni il il pittore marchigiano si iscrisse all’Accademia di belle arti di Bologna, che frequentò fino al 1914, quando conseguì il diploma[2]. Frequentò l’Accademia assieme a Morandi, Vespignani, Bacchelli, Pozzati e Tozzi. In quel periodo Licini partecipava a circoli intellettuali animati da discussioni di poesia e arte, da Soffici a la Voce, passando per Cézanne e gli Impressionisti[3]. Con Morandi aderì al futurismo partecipando ad alcune serate del movimento a Modena nel 1913 e, successivamente, a Bologna e a Firenze[4]. Licini si autodefinì sempre “pittore”, ma si interessò anche di letteratura e si cimentò sia nella poesia che nella narrativa. Durante l’estate del 1913 a Monte Vidon Corrado il Licini scrisse i Racconti di Bruto[5], sulle quali torneremo in seguito.  Nel marzo del 1914 partecipò per la prima volta a una esposizione – mostra dei “secessionisti” fu chiamata all’epoca – con Morandi, Pozzati, Vespignani e Bacchelli nei sotterranei dell’hotel Baglioni di Bologna, presenziata da Marinetti, Carrà, Boccioni e Russolo. La partecipazione del pubblico, incuriosito dalla novità, fu molto ampia tanto che i giovani artisti poterono usufruire degli inaspettati guadagni derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso[6]. Scarse risultano le tracce della produzione liciniana di questo periodo. L’Autoritratto (1913: Livorno, collezione Licini) e il ritratto di Giacomo Vespignani (1913), che con alcuni piccoli paesaggi “arabeschi” – come li definì l’artista – furono esposti a Bologna, sembrano, comunque, suggerire una consonanza formale con il coevo goticismo dei ritratti di Derain nell’impianto verticale dell’opera, nel ritmo segmentato dell’immagine, nel colore scabro, asciutto, al limite del monocromo. Nel 1915 si trasferì per un breve periodo a Parigi e presso il Café de la Rotonde conobbe e frequentò Pablo Picasso, Jean Cocteau, Blaise Cendrars, Ortiz de Zarate, Moïse Kisling[7]. Tra il 1922 e il 1925, ritornato al suo paese natio, intraprese uno stimolante dialogo culturale con gli amici marchigiani Felice ed Ermenegildo Catalini, Gino Nibbi, Acruto Vitali.

Acruto Vitali, artista e poeta per Licini fu un mentore, in particolar modo per quanto concerne la poesia. Fu Vitali che gli fece conoscere Sandro Penna, fu sempre lui che lo avvicinò alla poesia francese, facendogli apprezzare la poetica di Rimbaud. Insieme coltivarono l’amore per Leopardi e la sua poesia. Per il pittore di Monte Vidone, Leopardi fu un’ossessione. Spesso si recava a casa dell’amico sangiorgese per farsi recitare qualche verso del poeta recanatese e puntualmente al termine di ogni recitazione, affermava che prima o poi avrebbe dedicato al poeta una serie di quadri. Un giorno Licini si recò da Vitali con un piccolo quadro sotto braccio e gli disse: «Ecco qua il mio Leopardi», era un’Amalassunta luna[8].

L’Amalassunta è il soggetto più noto della pittura liciniana. Per il pittore essa è «la luna nostra bella, la mia luna», dunque la luna marchigiana, osservabile solo dalle nostre colline. Il nome deriverebbe dalla regina Amalassunta, figlia del re degli Ostrogoti, Teodorico. Ella, durante il suo regno (526-535), spostò la capitale da Ravenna a Fermo, facendo vivere alla città un periodo di grande splendore.

Licini ebbe un rapporto del tutto particolare con il paesaggio marchigiano, amava profondamente la sua terra e i borghi che in essa sorgono come punte di diamante. Straordinario fu il suo legame con Grottazzolina, per l’assiduità con cui frequentava la famiglia Catalini, originaria proprio del piccolo borgo marchigiano. Numerose lettere ai fratelli Felice ed Ermenegildo Catalini ne testimoniano la profonda amicizia[9]. Ermenegildo avvocato e professore di letteratura fornì all’amico tutti i libri di cui necessitava. Usando la ferrovia Adriatico-Appennino, Licini, con i due fratelli e l’amico sangiorgese Acruto Vitali, amava fare gite nei borghi situati lungo la tratta e spesso il gruppetto si fermava proprio a Grottazzolina, dove Licini amava dipingere. Il rapporto straordinario che ebbe con il territorio lo differenziò da tutti gli altri artisti, come Leopardi con la poesia, Licini con la pittura riuscì a mitizzare le nostre colline e i nostri borghi, rendendoli un unicum[10].

Dopo questa breve introduzione al “personaggio”, ritenuta quasi obbligatoria, si andrà ad esaminare il Licini letterato, rispettivamente narratore, critico letterario e poeta.

La stesura dei Racconti di Bruto avvenne nell’estate del 1913, mentre si trovava presso la sua terra natia. L’opera si compone di cinque brevi storie che hanno come protagonisti, oltre al cinico Bruto-Licini, Giorgio e Giacomo, suoi compagni di studi[11]. Archetipo autobiografico della ribellione, se non personificazione vera e propria del concetto di ribellione, il Bruto liciniano è una figura sospesa tra la provocazione avanguardistica e la perdita di senso del reale surrealista. Allo stesso tempo però rappresenta la prima apparizione del tema dell’erranza e del flâneur, che, «attraversando come topos della condizione poetica moderna la cultura europea tra Otto e Novecento, avrà una rilevanza centrale nella poetica dell’artista»[12].Licini non fu immediatamente soddisfatto della stesura dei Racconti, perciò per averne un parere più oggettivo inviò al musicista F. Balilla Pratella il primo racconto, intitolato La passeggiata sentimentale, chiedendogli anche di intercedere per la sua pubblicazione nella rivista del futurismo fiorentino, Lacerba, diretta da Papini e Soffici[13]. La richiesta non ebbe esito positivo, probabilmente perché il gusto coprofilo, l’intonazione scurrile e l’eccessiva e gratuita crudeltà del testo dovettero apparire troppo dirompenti per un periodico che cercava comunque un ampio consenso. Licini narratore forse si era presentato troppo estremista anche per i futuristi. Andiamo però ora a esaminare alcuni tratti salienti dell’opera.  Nel “Bruto” liciniano l’erotismo è elemento fondante del personaggio stesso. Un erotismo sguaiato e coprofilo, cortometraggio surreale di una virilità esplosa, di una sensualità cieca e senza vera aspettazione dell’altra metà. In Licini si può parlare di assenza della donna. “Dodò” la bellissima donna che si accompagna con “Bruto” sembra assistere, più che partecipare alle performances dell’amico: «afferrò Dodò, la rovesciò, la morsicò, la leccò, la baciò; dopo questi e altri maltrattamenti a lei e alle sue cose, ecco la sua reazione. Dodò si sollevò curiosa e lesse, poi si mise a ridere forte: “sei matto!?”»[14]. La donna qui è poco più che un oggetto di “giuoco”. Nei racconti esplode tutto il cagnesco cinismo presente nell’autore: «Bruto saltò dalla finestra di casa, saltò il cancello dell’orto, scavalcò la fratta e cadde sull’erba. Poi morsicò l’erba. Quando Bruto fu stanco alzò gli occhi e vide sulla testa i rami di un gran fico montò su e mangiò fichi a crepapelle»[15]. Bruto, alter ego del giovane Licini, è un ragazzo iperattivo e a tratti quasi animalesco. Il protagonista dei Racconti continuerà a vivere nel pittore anche in età adulta. Licini è personaggio ben vivo nei racconti dei compaesani: il suo linguaggio naturale e colorito, le sue stravaganze d’uomo maturo che conserva atteggiamenti adolescenziali, i suoi gesti assurdi e surreali colpivano la gente di Monte Vidon Corrado. Tali testimonianze sono state raccolte nel catalogo di una mostra che il paese dedicò all’artista nel ventesimo anniversario della morte: «Sentiamo una voce pronunciare frasi, per noi sconnesse, ci avvicinammo ad una grossa quercia, la in cima vedemmo Osvaldo Licini che distribuiva sproloqui a tutto e a tutti»[16]. Un’ulteriore testimonianza ci giunge da Alfredo Memo: «L’ho visto più di una volta seduto sopra al tetto di casa dove improvvisamente scoppiava in fragorose risate»[17]. Il Pittore era dunque rimasto un fanciullo che adorava arrampicarsi e amava i giochi rischiosi, come testimoniato da Giulio Tosi: «Amava i giochi rischiosi, e per poco non ci rimise la vita cadendo da una colonna che si trovava all’ingresso del paese alta più di cinque metri»[18].

Licini fu anche un abile critico letterario, faceva parte infatti di varie redazioni di riviste letterarie e un episodio significativo che lo riguarda lo lega ad un altro personaggio del Fermano, Franco Matacotta. Matacotta su suggerimento della poetessa Sibilla Aleramo nel 1942 inviò una copia dei Poemetti[19] alla redazione della rivista Valori Primordiali, l’allora direttore, Franco Ciliberti, girò la richiesta a Licini, che era membro della redazione e conterraneo di Matacotta, ma egli con tre lettere bollò l’opera e non la recensì, definendola ricolma di leopardismo e «scolpita di un rettorico bolso»[20]. Probabilmente Matacotta non venne mai a sapere di tale giudizio, poiché Licini concluse la terza lettera con la raccomandazione a Ciliberti «resti tra noi»[21]. Tale comportamento da parte del pittore fu veramente strano, poiché egli è sempre stato con i giovani aperto e amicale[22]. Le testimonianze di tale comportamento sono numerose, le prime risalgono addirittura ai mesi di insegnamento di disegno tecnico tra il 1921 e il 23’ presso la Scuola tecnica di Fermo. Licini fu però molto deciso nella stroncatura della raccolta matacottiana: «Ho riletto i Poemetti con la speranza di potermi ricredere, di salvarlo in qualche modo. Niente da fare. Qualche briciola, qualche immagine discreta si perde nel gran mare magno della pseudo poesia leopardiana rettorica bolsa. Matacotta primordiale! Ma siamo matti! Tutti quegli angeli azzurri e cherubini e candide colombe…sono più temibili dell’ultimo Severini neoclassico»[23]. Il sospetto è che il pittore abbia attaccato il giovane poeta poiché ha visto la sua opera come un’intromissione nel suo campo di studio e d’indagine, infatti immediatamente si nota come i temi trattati dai due, uno nella pittura, l’altro nella poesia, siano sostanzialmente gli stessi, si va da un forte leopardismo al tema degli angeli caduti[24]. A questo va aggiunto ciò che si è detto in precedenza, cioè che Licini non era semplicemente uno studioso di Leopardi, ma un cultore, da parte sua c’era una vera e propria venerazione per il poeta recanatese, perciò un utilizzo improprio delle sue forme poetiche e concettuali non sarebbe mai stato bene accetto.

Licini collaborò come redattore alla rivista Valori Primordiali per circa quattro anni, ma dagli scambi epistolari con Vitali sappiamo che collaborò saltuariamente anche con altre riviste[25]. Tra queste ricordiamo quelle con il Corriere Padano e con Il Milione Bollettino della Galleria di Milano[26]. Uno dei pezzi più interessanti che andò a pubblicare fu quello nel numero 1 del 1934 della rivista L’Orto, intitolato Ricordo di Modigliani[27]. «Una sera al Caffè del Petit Napolitain a una tavolata di pittori, Modigliani disegnò il mio ritratto. La sua faccia era tutta un raggrinzimento. Le famose smorfie di Modigliani, quando disegnava, non furono mai una posa. “Disegnare è possedere” gridava “un atto di conoscenza e di possesso più profondo r concreto del coito, che solo il sogno o la morte possono dare”. Si poneva di fronte all’uomo, questo enigma-miracolo delle forme, tutto il suo istinto carnale e mistico proteso al congiungimento magico per cui ogni distanza e limite tra sé e quel mondo annullava. Di queste fusioni armoniche del suo “angiolo”, con le forme, testimoniano i disegni, che sono la prova più convincente di come egli abbia saputo trascendere la realtà: ritmi brevi, pure essenzialità, virgulti di forza per fulminei concentrati umani»[28]. Ciò che salta immediatamente all’occhio della scrittura saggistica liciniana è l’essenzialità, è una scrittura minimalista che in poche righe riesce a dare il concetto del tutto, ma che in parte ancora risente dell’influenza futurista, non dimentichiamo che siamo nel 34’.

Dell’anno successivo sono i suoi interventi sul Bollettino della Galleria del Milione. Interessante è la sua Lettera aperta al Milione[29]: «Noi non ci conosciamo, amici del Milione. Per caso ci siamo trovati in quella nona saletta della Quadriennale, dove la gente passa allegra, indignata o indifferente. E ci siamo riconosciuti fratelli in spirito. E mi avete invitato ad esporre a Milano. Vi confesso che lo faccio un poco malvolentieri. Alle vostre insistenze mi sono piegato per quella disciplina che impone la nostra regola. E poi vi avverto che i miei capolavori sono ancora tutti da fare. Ne tengo più d’uno in cantiere. Ma non sono ancora pronti per scendere in mare. Dunque fino a quattro anni fa ho fatto tutto quello che ho potuto per fare della buona pittura dipingendo dal vero. Poi ho cominciato a dubitare. Dubitare non è una debolezza, ma è un lavoro di forza, come forgiare, ha detto Cartesio»[30]. In questo articoletto, che poi continua nella descrizione della propria pittura, ciò che balza all’occhio è l’uso della punteggiatura, un uso persistente, impetuoso, quasi sovrabbondante, che va continuamente ad interrompere la fluidità del discorso, come a far inciampare il lettore.

Particolare è lo pseudo-saggio che pubblicò in Corriere Padano nel 1937 dal titolo Natura di un discorso[31]: «Lo Scorpione credeva d’essere lui il più bello e voleva proclamare regina e venere la Scorpiona. Ma l’uomo disse che era lui il più bello e proclamò sé stesso re del mondo. Poi sono venuti Ojetti, Waldemar George, e tutti i Marani della terra, e l’uomo fu incoronato di nuovo Re del mondo. Si tornò a ripetere che l’uomo era il microcosmo dell’universo, che l’uomo era il metro, la misura di tutte le cose, che tutto era nel tutto, e che col metro estratto dalle viscere dell’uomo si poteva ricavare la chiave del cosmo. Vecchie più del cocco queste frasi dovevano servire ad estrarre il ragno dal baco: l’arte. E furono dette per la salvezza dell’Arte Mediterranea»[32]. Il saggio, con un incipit che molto ricorda i Racconti di Bruto, cerca di smontare le teorie antropocentriche e ancor di più quelle eurocentriche nella concezione dell’arte.

Sino ad ora si è trattato il Licini narratore e saggista, vorremo ora in questa sede affrontare la poetica liciniana, ove emerge il Licini più intimo e autentico. Nei componimenti liciniani emerge tutto il suo amore per Leopardi e per la luna leopardiana, queste alcune sue righe ad essa dedicate:

 

Ecco la luna bella

Mi vedi là su mi vedi volare là su

Sulla luna

Eccomi

Come volo per tutto il mondo tutto l’universo

L’infinito è mio[33].

 

Il componimento si trovava all’interno di una lettera indirizzata all’amico Vitali e poi pubblicata nel volume Acruto Vitali, poeta e pittore (1903-1990)[34]. L’intellettuale sangiorgese[35] fu una sorta di maestro poetico per Lici, fu proprio lui infatti che gli fece conoscere Sandro Penna e che lo iniziò alla poesia maledettista francese, inoltre i due condividevano l’amore per Leopardi[36]. Uno dei suoi testi poetici più noti è quello che compose dopo aver trascorso una giornata sul Monte Sibilla assieme all’amico Vitali:

 

Grande sole impennato al risveglio,

lancia, esplodi, il buio mio cuore frantuma.

Io sono quel tuo figlio ultimo nato,

danzante figlio d’armonia rapace,

con la carogna d’anima alla bocca,

da tue furenti lance trapassato.

Ho messo la strada sotto ai piedi

Che il mio bastone scandisce da finto pellegrino

A migrare a godere soffrendo.

Condannato (l’ora del riscatto non è suonata).

Oh dirupata, impervia,

sulla fatalità di questa marcia,

stella, sempre più mancabile e lontana[37].

 

Anche questo componimento è stato pubblicato postumo, si trovava in un’epistola inoltrata al solito Vitali. Qui Licini, da una parte rimane legato al leopardismo delle Operette Morali, proprio sul concetto dell’uomo-natura, ma dall’altra si allontana da questo assumendo un linguaggio poetico derivante dalle esperienze futuriste e avanguardiste, linguaggio che si discosta totalmente dal primo componimento riportato dedicato alla luna e che molto richiama il linguaggio narrativo sviluppato in Racconti di Bruto. Un linguaggio aggressivo, violento e pieno di suono.

Per comprendere a fondo Licini, il suo vero intimo, non si può prescindere dall’esaminare gli scambi epistolari, almeno quelli più significativi. Tra questi uno dei più celebri fu quello che ebbe con il critico Giuseppe Marchiori. Un lungo rapporto di stima, di amicizia, di scambio sul piano emotivo ed intellettuale ha sempre legato i due. Molte parole si sono spese sul loro sodalizio poetico e artistico[38]. Molto è stato detto anche su Marchiori come unico vero critico in grado di interpretare Licini. Nello scambio epistolare, la cifra che caratterizza il dialogo tra il critico e Licini è del tutto particolare. I due pur dandosi sempre del “Voi” dimostrano di avere una grande confidenza, una assoluta complicità, legati dalla passione per la poesia, come medium una prosa incisiva, dionisiaca e al tempo stesso leggera, quasi ascensionale[39]. Nella lettera dell’11 maggio 1948 Licini auspica una visita a Venezia in estate: «Porterò con me Mallarmé, l’ultimo Mallarmé, quello di Un coup de dés ed anche qualche mia povera poesia»[40]. Andando a leggere lo scambio epistolare con Marchiori, come con quello con Vitali, ciò che salta di più all’occhio è che Licini parla e dimostra molto più amore per la poesia, piuttosto che per la pittura. Questa condivisione dei propri versi è assai intima, infatti Licini li condivide solo con Marchiori e con l’amico sangiorgese[41], poiché entrambi avevano già pubblicato poesie. I loro sono duelli verbali fatti di metafore e allusioni cariche di ironia e tensione emotiva. Il carteggio riguarda accese dissertazioni polemiche sulla strumentalizzazione dell’arte contemporanea. Alternate ad amarissime riflessioni sul deterioramento della cultura durante il ventennio fascista. Una lunga riflessione è riservata allo sdegno per la tragedia della seconda guerra mondiale, a tal proposito scrive Licini: «Abbasso l’uomo! Dichiaro che comincio a vergognarmi di essere uomo, di recitare ancora questa commedia»[42]. Tante poi sono le pagine poetiche degli anni Cinquanta, tra queste quella in cui Licini diede la definizione di Amalassunta, datata 21 maggio 1950: «l’avvento di una mai veduta, perenne, strepitosa, frenetica, scintillante nostra dolcissima irrealtà; agli angioli di Apollinare che vengono ad incrociare le spade con l’anima nostra, nel vostro studio, a due passi dalla Basilica d’Oro di San Marco»[43]. Proprio sul fondo di una di queste lettere del 50’, per la precisione quella del 12 luglio, è appuntato un suo componimento, che molto richiama quello dedicato alla luna di cui si è parlato in precedenza:

 

Oh luna,

che l’Amalassunta bella mi ricordi,

lo sguardo tuo

su noi ignobili uomini

ai poggiato

come una tenera carezza[44].

 

Il componimento oltre ad essere intriso di leopardismo, contiene tutta l’amarezza del Licini uomo degli anni della guerra. Gli uomini sono definiti «ignobili» e ci si ricollega direttamente a quello che il pittore diceva a Marchiori negli anni 40’.

Questo carteggio risulta preziosissimo, poiché proprio per la sua intimità ci permette di tratteggiare i due profili, di cogliere il clima culturale dell’epoca, nonostante sia quasi completamente a senso unico, in quanto il pittore di Monte Vidone, come solitamente faceva, ha buttato via tutti i fogli, oggi infatti ci rimangono solo delle copie conservate presso il Centro Studi Osvaldo Licini e la Biblioteca di Lendinara. Una di queste lettere che rivela la profonda amicizia tra i due è quella del 31 marzo del 1935: «Caro Marchiori, avrei voluto scriverle a lungo, ma non ci sono riuscito. Sono troppo nervoso. Sto approntando una mostra che farò al Milione verso la metà di aprile. Dopo il suo Cesetti tocca a me. Per lei nutro una profonda amicizia e stima, ma la mostra non la volevo fare…»[45]. Marchiori, assieme agli “amici milanesi”, fu uno dei maggiori promoter di Licini, fu quasi sempre lui a spronarlo a scrivere e fare mostre. È infatti risaputo quanto Licini fosse chiuso ed introverso[46]. Licini segue Marchiori in tutte le sue pubblicazioni e lo legge con stima onesta: «Ho seguito con molta attenzione tutto quello che Lei ha scritto in questi ultimi giorni su KN, e mi ha fatto molto piacere di vedere con quale spirito di comprensione e di simpatia Lei segua il nostro movimento»[47]. L’amicizia tra i due emerge ancor più nella lettera che Licini indirizza a Marchiori il 10 dicembre 1935: «Caro Marchiori, da tre mesi tutte le mattine e tutte le sere io penso all’amico Marchiori e nello stesso tempo sono così vigliacco da rimettere ogni giorno questa lettera a domani»[48].

Marchiori, assieme a Vitali, fu uno degli amici più intimi che Licini ebbe e uno di quelli con cui non parlava solo di arte, ma anche di letteratura, proprio come con Vitali. Nel loro epistolario si passa dalla poesia futurista a quella maledettista francese, senza mai negare spazio a Leopardi e ai leopardismi liciniani.

Altro capitolo è quello dell’epistolario con Morandi. Quella con Morandi fu un’amicizia di vecchia data, però i due si allontanarono negli anni della guerra per ritrovarsi a conflitto concluso[49]. I due si scambiavano doni durante il periodo natalizio, a tal proposito è interessante l’epistola di Licini del 18 dicembre 1946: «Carissimo Morandi, abbiamo avuto la bella sorpresa del tuo bellissimo regalo. La cioccolata non potrebbe essere più squisita e noi te ne ringraziamo infinitamente. (Immagina la gioia di Caterina!). Io stavo pensando a come mandarti le solite salsiccie. Quest’anno non ammazzeremo maiale a casa nostra, e, per averle, saremmo costretti a rivolgerci agli amici. Presto te ne manderò un pacchetto di varia sorta. E tu, la mamma, e tutti di casa tua?»[50]. Il grado di confidenza e amicizia che lega i due è lo stesso che lega Licini con Marchiori, anche se dalle lettere non si evince immediatamente. Non lo si evince, poiché la prosa che Licini tiene con Morandi è apparentemente più libera ed amicale rispetto a quella impostata e formale tenuta con Marchiori. Ma questo è uno stratagemma furbesco liciniano, poiché, essendo Marchiori il maggiore critico e promoter delle sue opere, a Licini sicuramente non sarebbe convenuto far capire che i due fossero legati da profonda amicizia.

Dal punto di vista letterario sono significative alcune annotazioni di un altro intellettuale fermano che ci parla di Licini e Morandi: Luigi Dania[51]. Dania annota: «28 giugno 1947. Conosciuto Licini da Acruto Vitali. Parlato di Picasso e Modigliani e ricordato Giorgio Morandi. 1° settembre 1947. A M. V. Corrado. Licini parla di Apollinare e di Max Jacob. Pacrette rispettato da tutti»[52]. Ecco che emerge nuovamente la peculiarità letteraria di Licini, legata al fatto che amasse più parlare di poesia che di arte. Dagli scambi epistolari emerge vividamente come Licini stando tra amici raramente discutesse d’arte, amando piuttosto conversare di poesie e letteratura più in generale. L’amore per la poesia è testimoniato dalle tante lettere con Acruto Vitali, con i fratelli grottesi[53] Catalini, con Marchiori, ma anche con tanti intellettuali del Fermano. Le lettere testimoniano anche quella temperie culturale che nel Fermano si stava creando attorno a personaggi come Licini: «14 gennaio 1949. Caro Luigi, molto facilmente sarò a Fermo domenica alle ore 15, circa, per la rappresentazione diurna di “Duello al Sole” e spero di vederLa. Tanti saluti per lei da Morandi, che ha perso il suo indirizzo. Grazie, arrivederci, Licini»[54]. Licini, un po’ come stavano facendo in quegli anni Vitali e Matacotta, metteva in contatto gli intellettuali fermani più giovani con i grandi artisti e poeti nazionali ed internazionali, era stato lui, infatti, a far conoscere Dania e Morandi[55]. La corrispondenza di Licini con Morandi nel decennio immediatamente successivo alla Guerra è fittissima: «17 maggio 1949. Carissimo Morandi, grazie tante per le gentilissime informazioni e per la premura che ti sei preso. Spero presto di rivederti. Forse ai primi di luglio passeremo per Bologna (anche Caterina) diretti in Svezia. Arrivederci dunque. Tanti saluti cordiali a te e a tutti di casa anche da mia moglie. Con affetto tuo Licini. Scusa del ritardo»[56].

Naturalmente negli scambi epistolari tra Licini e Morandi si parla anche d’arte e di mostre: «16 dicembre 1949. Carissimo Morandi, grazie per la tua gentilissima e, grazie pure tanto, per l’invito a Venezia. Ieri ne ho avuto comunicazione ufficiale da parte della Biennale. Sono due mesi che siamo ritornati dalla Svezia. Siamo stati anche a Parigi a trovare mia madre. In tutto siamo stati fuori tre mesi. Oggi abbiamo ucciso il maiale, e fra pochi giorni, ti manderemo le solite salsicce. Intanto ti auguro Buon Natale e Buon Anno insieme a tutti di casa tua. Di nuovo ti ringrazio con la speranza di rivederti presto, (quando andremo a Venezia) non prima credo, e con tanti affettuosi saluti da me, da Nanny e da Caterina, credimi tuo Licini»[57]. Nella lettera si percepisce quanto Licini per amicizie e tipo di vita condotta fosse un intellettuale di levatura internazionale, nonostante ciò egli rimase sempre legato a certe tradizioni popolari come il maiale ucciso in famiglia durante le festività natalizie o gli scherzi di carnevale[58]. In un altro scambio epistolare tra i due, di quasi un decennio più tardo rispetto a quelli esaminati sino ad ora: «17 agosto 1957. Ebbene, non verrai a trovarci questo anno? Quando ti pare, sarai sempre benvenuto. Con tanti affettuosi saluti a te e a tutti di casa Osv. Licini»[59]. Questa lettera è particolare poiché reca anche le firme di Luigi Dania e Acruto Vitali, infatti Licini in tutta la lettera utilizza il plurale. Restando su Acruto Vitali, una lettera inviata da Licini al sangiorgese si rivela particolarmente interessante: «19 luglio 1951. Gentilissimo Vitali, grazie tante per il graditissimo dono della raccolta completa di quest’anno del nostro Mallarmé. Tanti saluti cordiali e con aff. to tuo Licini»[60]. Facendo una ricerca sull’OPAC SBN[61] e considerando che i due parlavano la lingua francese, l’edizione a cui si fa riferimento nella lettera dovrebbe essere S. Mallarme, Poesies. Edition complete contenant plusieurs poemes inedits, Paris, Gallimard, 1951, pubblicata poco più di un mese prima dell’invio della lettera. È risaputo che i due spesso si scambiavano regali di questo tipo, erano in cerca di edizioni rare e particolari, quasi sempre in lingua[62]. Licini riportava tali pegni all’amico da Parigi, mentre Vitali da Milano, poiché presso questa Città mitteleuropea spesso si rinvenivano edizioni introvabili nel resto d’Italia[63].

Licini, come si è detto in precedenza, per un decennio abbondante fu l’asse del circolo di intellettuali del territorio fermano e spesso lo troviamo nominato in alcune lettere, come nel caso di quella indirizzata da Luigi Lombardi a Luigi Dania: «7 luglio 1957. Caro Dania, a furia di rinvii siamo arrivati ad oggi e non vedo come fare a trovare il tempo per una gita nelle Marche. A settembre abbiamo la mostra e domani mattina è qui Carluccio per la scelta delle opere. Io non ho qui il quadro di Licini però so, con certezza, che Carluccio si accontenterà di avere una fotografia di tale quadro non appena avrò io il dipinto. Occorre dunque avere il dipinto al più presto. Ho scritto a Licini per pregarlo di spedirmi il quadro e di scusarmi di non aver mantenuto la parola di una visita personale a Monte Vidon Corrado da parte mia…»[64]. Anche da tale breve estratto si comprende come Licini fosse divenuto il ponte di collegamento tra gli intellettuali fermani e quelli a livello nazionale.

Tornando a Vitali, un’altra lettera ci da la misura di quanto i due parlassero di letteratura, questa è datata 23 marzo del 1957: «Caro Vitali, in queste settimane ho riletto Dialogo della Terra e della Luna, quella di Leopardi è proprio la nostra luna, quella con cui spesso parlo anche io. Manderò due disegni in Ascoli per la mostra Grafica Internazionale Contemporanea, sai, ci saranno anche Morandi, Picasso e De Chirico…»[65].

Il ruolo giocato da Licini nel sud delle Marche nella prima metà del Novecento fu fondamentale per lo sviluppo di quella temperie culturale che animò il Fermano sino agli anni Settanta del Novecento, con la seconda generazione di intellettuali che era stata allieva/apprendista della prima. Egli riuscì a formare un circolo di intellettuali del luogo (Vitali, Dania, i fratelli Catalini e indirettamente anche Matacotta, Valentini e Brunamontini) che intratteneva fitti rapporti con intellettuali di caratura nazionale, come Marchiori, Morandi, Carluccio, Lombardi, Penna, Apollonio, ecc.

Licini fu un intellettuale completo, che fece molteplici esperienze e visse attivamente l’arte nella sua accezione più amplia, dalla prosa alla pittura, passando per la critica letteraria e artistica, e la poesia.

 

 

[1] R. Milani, Forme del silenzio e della contemplazione. I paesaggi di Morandi e Licini, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, pp. 65-72.

[2] F. Pirani, Osvaldo Licini, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 65 (2005), https://www.treccani.it/enciclopedia/osvaldo-licini_%28Dizionario-Biografico%29/

[3] M. Patti, Verso la modernità: Licini, Morandi e la mostra dell’Hotel Baglioni, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 77.

[4] Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011.

[5] O. Licini, Racconti di Bruto, in G. Baratta, F. Bartoli, Z. Brilli, Errante, erotico, eretico, Milano, Feltrinelli, 1974.

[6] M. Patti, Verso la modernità: Licini, Morandi e la mostra dell’Hotel Baglioni, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 79.

[7] D. Pupilli, Carte fermane. Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, p. 43.

[8] L. Trapè, Licini Leopardi e il paesaggio sublime, Macerata, Ephemeria edizioni, 2019, p. 23.

[9] D. Pupilli, Carte fermane, cit., p. 82.

[10] Sul rapporto tra Licini e Vitali e la concezione dell’Amalassunta si veda: R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, in Letteratura e pensiero, n. 16, aprile-giugno 2023, pp. 231-236.

[11] O. Licini, Racconti, cit., introduzione.

[12] F. Pirani, Osvaldo Licini, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 65 (2005), https://www.treccani.it/enciclopedia/osvaldo-licini_%28Dizionario-Biografico%29/

[13] D. Pupilli, Carte fermane, cit., p. 82.

[14] O. Licini, Racconti, cit., p. 34.

[15] O. Licini, Racconti, cit., p. 52.

[16] A. Delle Rose, Osvaldo Licini, Chiaravalle, Comune di Chiaravalle, 1989, p. 22.

[17] A. Delle Rose, Osvaldo, cit., p. 23.

[18] M. De Micheli, Osvaldo Licini, Pisa, Giardini, 1974, p. 51. Tale testimonianza è riportata anche in D. Pupilli, Carte fermane, cit., p. 82.

[19] F. Matacotta, Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941. Sui suoi primi poemetti si veda G. Manacorda, I due modi della parola di Matacotta, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 11. Per tutto ciò che riguarda Matacotta durante la guerra e nel periodo post bellico sino agli inizi degli anni Cinquanta, si veda C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, pp. 7-15.

[20] Le tre lettere sono nell’Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettere 1°, 8 e 30 aprile 1942; Ringrazio i colleghi della Biblioteca di Como che mi hanno inoltrato le digitalizzazioni.

[21] Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettera del 30 aprile 1942.

[22] Riporto tale episodio anche in R. Renzi, Ritratto di Franco Matacotta tra poesia, amicizie e inediti, in Letteratura e pensiero, n. 19, gennaio-marzo 2024, pp. 120-142.

[23] Lettera dell’8 maggio 1942, nell’Archivio Ciliberti. Si trova pubblicata anche in S. Bracalente, La scienza di Ciliberti, Licini e gli orientamenti astratti dell’arte italiana tra le due guerre, Cernobbio, Archivio Cattaneo, 2006, pp. 57-71.

[24] D. Pupilli, Licini e Matacotta. Cronaca di uno stroncamento, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, a cura di C. Verducci, Fermo, Andrea Livi Editore, 2018, p. 38.

[25] E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Acruto Vitali, poeta e pittore (1903-1990), Fermo, A. Livi, 2017, p. 23.

[26] Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, pp. 248-249.

[27] O. Licini, Ricordo di Modigliani, in L’Orto, anno IV, n. 1, 1934, p. 11.

[28] Ibidem.

[29] O. Licini, Lettera aperta al Milione, in Bollettino della Galleria del Milione, n. 39, 1935.

[30] Ibidem.

[31] O. Licini, Natura di un discorso, in Corriere Padano, 9 ottobre 1937.

[32] O. Licini, Natura di un discorso, in Corriere Padano, 9 ottobre 1937; si veda anche Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 248.

[33] E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Acruto Vitali, cit., p. 27; L. Trapè, Licini Leopardi, cit., p. 48.

[34] Ibidem.

[35] Porto San Giorgio, Provincia di Fermo, Marche.

[36] R. Renzi, Ritratto di Franco Matacotta tra poesia, amicizie e inediti, in Letteratura e pensiero, n. 19, gennaio-marzo 2024, pp. 120-142; E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Acruto Vitali, poeta e pittore (1903-1990), Fermo, A. Livi, 2017, p. 15.

[37] L. Trapè, Licini Leopardi, cit., p. 51.

[38] Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 254; si veda anche G. Baratta, F. Bartoli, Z. Brilli, Errante, erotico, eretico, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 203-207.

[39] Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 255.

[40] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera dell’11 maggio 1948.

[41] Acruto Vitali.

[42] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 24 aprile 1940.

[43] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 21 maggio 1950.

[44] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 12 luglio 1950.

[45] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 31 marzo 1935.

[46] L. Trapè, Licini Leopardi, cit., introduzione; Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 255; si veda anche G. Baratta, F. Bartoli, Z. Brilli, Errante, erotico, eretico, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 208-212.

[47] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 31 marzo 1935.

[48] Monte Vidon Corrado (FM), Centro Studi Osvaldo Licini, Archivio Licini, Lettera del 10 dicembre del 1935.

[49] Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 269.

[50] Bologna, Centro Studio Giorgio Morandi, Archivio epistolare, lettera in copia 18 dicembre 1946.

[51] Per Luigi Dania, introduzione Amedeo Grilli; ricordo Nino Ricci; fotografie Romano Folicaldi, Fermo, Fondazione Cassa di risparmio di Fermo, 2013.

[52] Porto San Giorgio, Archivio Luigi Dania, Annotazioni Varie, 28 giugno 1947/1° settembre 1947.

[53] Originari di Grottazzolina, un piccolo comune nel cuore della Provincia di Fermo, a metà strada tra il Mare Adriatico e i Monti Sibillini, su una dolce collina a 222 metri s.l.m., sorge Grottazzolina (3218 ab.), paese a storica vocazione artigianale ed imprenditoriale.

[54] Porto San Giorgio, Archivio Luigi Dania, Cartolina postale manoscritta, 14 gennaio 1949.

[55] Dieci artisti d’oggi: Alessandrini Franco, Angelini Claudio, Bertoni Fabio, Dania Luigi, Iommi Raffaele, Luzi Fausto, Mori Sandro, Pazzi Sandro, Pierleoni Ottorino, Sanchini Athos, Civitanova Marche, Fioroni, 1989, p. 21.

[56] Bologna, Centro Studi Giorgio Morandi, Archivio, Lettera manoscritta del 17 maggio 1949.

[57] Grizzana, Biblioteca Comunale Morandi, Fondo epistolare, Lettera del 16 dicembre 1949.

[58] Molti compaesani ricordano Licini come un goliardico che durante le festività carnevalesche dava il meglio di sé: A. Delle Rose, Osvaldo Licini, Chiaravalle, Comune di Chiaravalle, 1989, introduzione.

[59] Grizzana, Biblioteca Comunale Morandi, Fondo epistolare, Lettera del 17 agosto 1957.

[60] Monte Vidon Corrado, Centro Studi Osvaldo Licini, Fondo epistolare, copia della lettera del 19 luglio 1951 ad Acruto Vitali.

[61] Portale del sistema bibliotecario nazionale On-line public access catalog.

[62] E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Acruto Vitali, cit., p. 26.

[63] Ibidem.

[64] Porto San Giorgio, Archivio Luigi Dania, Fondo epistolare, Lettera del 7 luglio 1957.

[65] Porto San Giorgio, Archivio famiglia Vitali, Lettera del 23 marzo 1957.

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