Non vincere e non vinceremo
Antonio Francesco Perozzi

 

Cosa si vince quando si vince? L’obiettivo del (non-)premio ustanga – alla sua prima, sperimentale, messa in scena – è anzitutto quello di destrutturare l’idea stessa di premio: proprio nel momento in cui l’Italia prolifera di premi e premini, utsanga opta per la creazione di una cosa che ne ricalca i modi e allo stesso tempo ne tradisce scopi e presupposti. Infatti, il (non-)premio utsanga coincide, sì, con la costruzione di un rapporto giudicante-giudicato, ma allo stesso tempo depista sui modi tramite cui si partecipa (il diktat fondamentale: fate casino e poi vediamo) e, nel finale, non si risolve nell’elezione di un podio strettamente inteso.

Questa la politica. Il risultato in sé del (non-)premio, poi, segnala quelli che, tra i partecipanti, hanno osato spingersi dentro i mezzi di produzione del senso, hanno fatto interagire concretamente linguaggi diversi senza per questo raffazzonare, ingarbugliare in maniera fine a se stessa. Per quanto mi riguarda – ma credo sia d’accordo con me anche il resto della giuria – i lavori più impressionanti in senso positivo sono stati quelli che hanno accettato di abitare la liminalità, di spingerla all’estremo ma mantenendo, contemporaneamente, una saldezza di visione, un chiaro controllo dei mezzi di rappresentazione scelti e manipolati.

Per questo motivo il lavoro di Osvaldo Cibils, dal mio punto di vista, risulta il più convincente: la schizofrenia del montaggio, la combustione sonora, la disfunzionalizzazione e abbondanza degli oggetti abradono il soggetto ma non per questo sacrificano l’uomo, che anzi ci viene restituito – non senza una squisita dose di ironia – letteralmente invischiato nell’essere-per-gli-oggetti, ma anche nella sua capacità immaginativa e creativa che sorge proprio a partire dagli oggetti. Un tipo di estetica differente ma compatibile con quella di Miladinovic, anche, che sceglie a sua volta il video: a metà tra Cronenberg e il dank, il gioco di Miladinovic consiste nella giustapposizione che crea significato, anche stridente, anche comico, comunque direzionato dall’impero acquisito dall’immagine all’interno della nostra società.

Ma non di soli video vive il (non-)premio; anzi. Andrew Topel e Alexander Limarev, ad esempio, hanno optato per la scrittura asemica: la parola viene così depauperata della sua stabilità/riconoscibilità grafica e dunque della sua capacità significante. Ciò viene ottenuto dalla sovrapposizione di strati di parole (come nel caso di Topel) o dalla rifondazione di un alfabeto di cui si intuisce lo sforzo semantizzante ma, contestualmente, l’incompiutezza (ed è il caso dei notevoli lavori di Limarev, a metà tra circuiti elettronici e strutture subcellulari).

Altri autori hanno invece conservato una certa integralità del testo, conducendola – ma senza sabotarla –a confrontarsi con altre possibilità significanti. Chace, ad esempio, fa interferire versi lineari con formule matematiche e parole in libertà; Greco lavora sull’idea del QR Code come testo-immagine che buca il supporto, apre a un «altrove privo di peso»; Vassilakis costruisce un’opera-manifesto in cui gli oggetti visivi (dei tondi in cui il carattere alfabetico diventa un’unità cromatica) sono messi in relazione con una lunga auto-esegesi, dichiarazione d’intenti o esplorazione testuale parallela. In ultimo l’Hyperion di Jonathan Mulcahy e Emma Kearney ottiene risultati sorprendenti costringendo lo strumento testo e lo strumento immagine ad abitare la zona cupa della malattia mentale, l’inesplorato del pensiero.

Ulteriori orizzonti schiudono i restanti tre segnalati. Andrea Piccinelli porta avanti una rivoluzione “interna”: mantiene fiducia nel testo – che non è messo in dialogo con altre forme espressive – e tuttavia lo sfida nelle sue componenti essenziali. L’autore parla infatti di «allegorie», di per sé già sdoppianti, non rassicuranti, ma soprattutto sciorina un discorso che si annuncia argomentativo (tra considerazioni, note e appendice) e al contempo si auto-sabota per via di una sintassi accumulatoria, un’ossessione verso la matrioska testuale. Cazelles, ancora, lavora sul suono, tanto quello fattuale quanto quello virtuale: il suo lavoro prevede infatti una parte audio, euforica e percussiva, e una parte visuale in cui degli spartiti sono messi a soqquadro da appunti e segni vari. Infine l’opera di Guatteri, senza dubbio tra le più interessanti pervenute, consiste in un Manuale di vendita, un libro d’artista in cui le parole appaiono sulla superficie trasparente delle foderine, e cioè inevitabilmente scompaiono, evocano una sottrazione e lasciano talvolta penetrare immagini violente e disturbanti.

Il gruppo di segnalati, insomma, appare eterogeneo se guardiamo alla scelta di percorsi e media; ma diviene omogeneo, o comunque somma di compatibilità, nel momento in cui lo interroghiamo ponendo l’accento su approcci e obiettivi: ritorna un’idea di intervento sugli strumenti e sui processi, la loro destabilizzazione, senza che ciò elimini interamente, tuttavia, una certa identità del risultato, il suo peso specifico. E questo riguarda spesso un’assenza, la spinta verso il marginale (psichico, politico, semantico…), confermando così la riuscita del (non-)premio: artisti diversi (e di diversi Paesi, per giunta) che convergono nella possibilità di uno studio della traccia, più che del segno. Forti di un “premio” che non li ricatta secondo la regola della visibilità, della consumabilità o del riconoscimento, ma li solamente ospita, invita, ascolta.