Viaggio al margine di un premio senza premio
Francesco Aprile

 

Utsanga è una realtà nata nel 2014. Il nome è da sempre un programma, significa grembo, ventre, abbraccio. L’impostazione è politica: non ci interessa tutto, ma guardiamo tutto; non portiamo una bandiera, neppure la nostra. Non ci pensiamo soldati, ma marginali briganti/sabotatori. Cerchiamo, soprattutto, lo scarto e lo accogliamo nella sua accezione plurivoca: rifiuto, ma anche rottura, superamento, differenza. Ci interessano le mappe, le storie che hanno sempre dei buchi, sempre parziali, ci interessano le crepe. Quali sono le strade rifiutate, escluse, dall’evoluzione? E, ancora, quale evoluzione? Collezioniamo incertezze, cartografie di desideri che, in quanto tali, ricercano un nuovo il quale non è definito, ma in via di definizione. Di questa “definizione” cerchiamo il processo, per stare nel flusso. L’immagine, la presentazione visiva (i contributi-muro, lo schermo-muro, illeggibili, non fruibili, spropositati), il layout, i margini che compongono le tessere sono esperienze politiche: se l’immagine prolifera (anche nella rivista) la rimuoviamo dalla home; se l’imperativo globale è quello della leggibilità, la scrittura, l’editoria, diventano strutture problematico-banalizzanti all’inseguimento del diktat, allora mettiamo insieme un premio che non sia tale, senza podio o gerarchie di sorta e cerchiamo i buchi, le mancanze, complicando (nel senso dell’aprire spazi di crisi) questo elemento che chiamiamo testo, parola, scrittura. Non il gene (testo) né l’organismo o la specie (poesia? Lirica? Romanzo?), ma mutualità di base, ibridazione, lettera-litorale, formazioni di scarsa coesione, detriti, non-permanenza, struttura multiforme, sedimentazione di singolarità antropica-liminale dove la realtà è terreno disassemblato, contiguità.
In questa rosa di non vincitori i linguaggi, i modi, sono molteplici. Se nulla si vince, cosa si rischia? Si rischia il testo, la messa in opera, il proprio lavoro sulla parola (cose non scontate). Chi ha partecipato, al di là dei nomi presenti nella rosa finale, riconoscerà se stesso in questo doppio nuovo numero di utsanga: non tutto è stato pubblicato, ovvio, ma molto, invece, ne fa parte. La rosa finale dei segnalati? Solo esempi di poetiche. Il premio? La rinuncia alla competizione e il rimettere al centro il rischio. Atto unico? Può darsi. Performance nella performance, il non-premio vuole ribadire ancora una volta l’importanza del gioco, “ultima speranza della poesia”.

In questo molteplice che è rappresentato, in minima parte, dai segnalati, diverse sono le linee, le tracce che si possono individuare: lungo le coordinate della poesia visiva americana, più orientata al lettering, al tipo, rispetto alla tradizione europea, e che dunque si accende in legami, a volte stretti, con la poesia concreta, Andrew Topel e Nico Vassilakis affrontano la parola e la lettera con uno sguardo, sicuramente memore del lettrismo (più marcato in Vassilakis), dove l’accumulo (digitale, ancora, in V.) crea stratificazioni di senso e riletture dialoganti di una poesia concreta non più, o non solo, legata al vuoto, ma, in certi aspetti tratta i pieni come fossero vuoti – riprendendo quella lezione di Franz Mon, recentemente scomparso – dove nel caso di Topel i pieni sono stratificazioni da distruggere e, in Vassilakis, strutture portanti di un discorso visivo-esegetico che dalla frase vira alla lettera e dalla lettera alla materia a-prospettica digitale. Lontana, eppure vicina al lavoro di Topel, è la ricerca proposta da Mariangela Guatteri: un libro d’artista che è libro delle vendite, o meglio, un manuale denso, densissimo, che dell’accumulo fa condizione dominante solo apparente; è un attimo, dalla stratificazione si passa al particolare, al proliferare di particolari che dominano la scena; queste pagine, al contrario del titolo, non vendono, sfidano il fruitore: entrare nel testo non è questione di leggibilità, ma di addestramento all’attraversamento. La precarietà di una lingua così stratificata è impermanenza. Jonathan Mulcahy e Emma Kearney problematizzano e attualizzano le lezioni di Emmett Williams e Arrigo Lora Totino su colore e testo; questo, fattosi campitura, apre a successioni dinamiche di frammenti poetici suscettibili di una pervertibilità della lettura: gli ordinamenti, le successioni sono multiple. Da qui, dunque, il collegamento con il lavoro di Joel Chace, i suoi poemi matematici che hanno margini di leggibilità dinamici, variegati, dove la vettorializzazione degli elementi è un pretesto per mettere ulteriormente in crisi: Joel Chace, Jonathan Mulcahy e Emma Kearney ci ricordano come, villianamente, il lavoro sugli ordinamenti testuali, sia un lavoro sulla messa in discussione della storia. Le scritture asemantiche di Alexander Limarev uniscono il gesto dello scrivere all’a-prospetticità del digitale e al concetto di “retro” che è insito nel glitch. Il movimento che è fissato sull’immagine è insieme flusso di interferenze gestuali e digitali. Alessandra Greco affronta la questione del testo da più punti di vista: la frammentazione del discorso si articola, allora, in una parola poetica spezzata nella sua linearità e, al contrario, in un sottotesto fluido che si sostituisce ai QR Code costruendo ulteriori rimandi, proprio come farebbe un QR originale, ma il testo lineare, lungi dall’essere propriamente frammentario, scopre una fluidità imprevista che è nella capacità stessa di adoperarsi per salti, per spaziature, collegamenti, quel che domina, allora, è l’ampiezza delle possibilità. Andrea Piccinelli, da questo punto di vista, complica la linearità del testo muovendosi sul concetto di allegoria, dove però la frammentarietà e discontinuità sono rilette in un muro denso di lettere che strizza l’occhio al concretismo e al concettualismo. Patrice Cazelles affianca la manomissione visiva delle partiture alla manomissione della sonorità: la voce è una intrusione, un taglio tasversale nelle immagini che si lasciano parlare. Così, per finire, si arriva alle immagini in movimento che sono anche suoni, parole: i lavori di Cibils e Miladinovic sono, pur nelle differenze, lavori nello spazio, con lo spazio, dove la parola è atto ironico del corpo che apre la scena, ma quale corpo? Quello presentato da Cibils si muove a scatti, va di pari passo con le esplosioni sonore, è parte integrante degli oggetti che vengono suonati, è suonato, è strumento, è esso stesso oggetto di scena svincolato dalla centralità del presenzialismo e ricondotto alla marginalità che in una scena musicale potrebbe avere uno qualunque degli oggetti del pianoforte preparato di John Cage. Quello di Miladinovic è un corpo ironico che è strada, oggetto, muro, casa, auto, insetto, schermo, ma, in tutto, sono collegamenti multipli che animano questo spazio; la moltiplicazione dei video, l’apparente moltiplicazione dei video, mostra un flusso, una continuità negli elementi che tornano e aprono e divaricano la scena: l’errore è capovolto?

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