Contro l’auctus
by Antonio F. Perozzi

 

Il Manifesto del liminalismo è un libro illeggibile. E lo è su due livelli: il livello dell’ottenuto e il livello dell’ottenimento.

L’illeggibilità dell’ottenuto – cioè del risultato effettivo, del fenomeno del libro – è quella più esteriore, quella con cui più concretamente si viene a misurare chi incontra questo lavoro. Se il testo è – etimologicamente – tessuto, trama, intreccio, il lettore trova qui non semplicemente un’eterogeneità di scritture che sfida il tessuto, ma un’incompatibilità assoluta di quelle fra loro che lo scioglie e nega radicalmente. La spinta detonante e anarchica che è alla base dell’intera operazione attacca infatti ogni forma possibile di struttura: seguendo un ordine dal micro al macro, possiamo individuare il sabotaggio del referente (metapoesia: «autoreferenziale? autoreferenziale.»), dell’unità di lingua (si alternano italiano, inglese, giapponese…), del significato (puro accostamento di lettere: «per qunal mlhui.gGjoalnbèqkg. bbnmkt85,a.»), del significante (puro accostamento di segni tipografici: «———-»), del grafema (scrittura asemica, testi barrati), della testualità (presenza di immagini, gif, link, QR code ecc.), dell’organicità artistica (generalmente, assenza di linearità e coerenza dell’opera).

La somma di queste azioni terroristiche contro il linguaggio porta alla decostruzione della pratica della lettura stessa – costantemente impedita dall’innesto di materiali eterogenei, dal ricorso al nonsense, dall’assenza di una direzione univoca di significato – e dunque della funzione del lettore. Almeno, nella sua codificazione tradizionale di utente; letteralmente, cioè, colui che usa il testo (ne scioglie il tessuto, lo digerisce) e che, prima ancora, lo presuppone come unitario (in virtù almeno del proprio orizzonte d’attesa e della presentazione dell’oggetto-libro). Dal momento che presupporlo unitario vuol dire presupporlo autoriale (intenzionale), autorevole (portatore di verità) e autoritario (se la verità che porta non è tematica è per lo meno una verità di auto-posizione), l’indigeribilità del Manifesto, allora, sarà precisamente nel disattendere il proprio compito autoriale/autorevole/autoritario di intenzione, verità e unità. Da ciò, la dissoluzione del paradigma della lettura e l’eclissi del lettore-utente.

Questo disfunzionamento, tuttavia, riguarda ancora l’ottenuto dell’operazione liminalista, sfera che deve necessariamente essere messa in dialogo con quella dell’ottenimento. Il Manifesto è infatti il risultato di una sessione di scrittura collettiva a dieci mani, operata su foglio Dropbox condiviso, a partire da un minimo e generico orizzonte di senso concordato – il concetto di desiderio. I partecipanti avevano la facoltà non solo di introdurre sul foglio elementi di qualsiasi natura, ma anche di intervenire con la propria scrittura su quella altrui, modificarla, eliminarla. Fare ciò, per giunta, implicava – secondo il meccanismo tramite cui Dropbox assegna ogni contributo a un autore, menzionandolo a lato – un’effettiva rapina, l’auto-attribuzione degli scritti altrui.

Va da sé che l’ottenuto del Manifesto si realizza come ente (para-)testuale solo grazie al cimitero di senso su cui si erge: nel rovescio di ogni parola o immagine che compare si concentra una sparizione, uno stato non più essente, uno scritto non più raggiungibile. È qui che si colloca il secondo grado di illeggibilità: il Manifesto non si può leggere perché è un evento, e il libro, a questo punto, ne è non semplicemente il fenomeno, bensì l’epi-fenomeno, un fatto accessorio, l’istantanea di uno dei suoi (virtualmente infiniti) stadi possibili. L’opera è così nell’ottenimento di un risultato, nel processo più che nel prodotto, e il significato del Manifesto viene dalla relazione squilibrata che si genera tra uno spazio del senso instabile (il file condiviso) e un tempo d’opera reversibile (la scrittura di ogni partecipante passibile di metamorfosi e cassazione incontrollate).

È evidente dunque che al superamento della funzione del lettore-utente fa eco la rinuncia all’autore-sorgente. La negazione della realtà autoriale/autorevole/autoritaria del testo impedisce all’autore di porsi come tale; l’impossibilità di controllare l’opera mette in dubbio l’autore in quanto fonte (la sua autorità), dunque la sua attendibilità o dignità (la sua autorevolezza), infine, concretamente, la sua firma (la sua autorialità). Il “tema” del desiderio (ma forse è meglio parlare di “traccia”, nel senso scolastico di mero punto di partenza e insieme nel senso derridiano di segno che è ma – rimandando ad altro – contemporaneamente non è) non fa altro che rafforzare questo meccanismo di affogamento dell’auctus, ovvero dell’accrescimento ultra-testuale che garantisce (garantirebbe) l’ipostatizzazione di un autore in quanto autorità. Il desiderio è infatti incompletezza, obbligato rivolgimento verso l’Altro e rottura del soggetto-monade.

Preso nella sua globalità – ottenimento + ottenuto + sparizioni – quello liminalista è, del resto e prima di tutto, un lavoro sull’identità. La virtualizzazione della realtà cui assistiamo negli ultimi anni – e ancora di più a seguito degli eventi pandemici – non può non toccare (travolgere) anche la monumentalità dell’autore oltre il testo, la relazione unidirezionale opera-utente e soprattutto il connubio illusionistico tra identità e autorità. “Porre” l’opera, “porre” l’atto significa oggi farlo in un sistema di relazioni significanti extra-soggettive che ne direzionano la natura, la possibilità, l’evidenza, al punto da coinvolgere nel meccanismo di significazione plurale ed effimera il “ponente” stesso, l’autore.

Attraverso la multimedialità (rottura del prodotto), la simultaneità (rottura della produzione) e l’interscambiabilità degli account (rottura del produttore), il Manifesto espone senza sconti l’opera al proprio smagamento, all’epoca degli attraversamenti e della natura statistica del significato.

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