Colore, sincretismo e novità negli asemic haiku di Andrea Astolfi
by Antonio Francesco Perozzi

 

testo per la mostra di Andrea Astolfi, “Mai successo prima”

 

 

Al centro di questi lavori asemici di Andrea Astolfi ci sono due forze: il gesto e il dialogo con una struttura preesistente. Il titolo della serie, mai successo prima, lascia intendere del resto che l’opera dell’autore non si configura semplicemente come esercizio o accadimento, ma anche come dialettica, rapporto, temporalità, storia.

Partiamo, comunque, dagli aspetti più tecnici. Realizzate principalmente in acquerello e olio, queste produzioni di Astolfi costruiscono il proprio impatto visivo soprattutto attraverso la sinuosità del tratto e il colore. Nella maggior parte dei casi i due elementi si confrontano in un rapporto uno a uno: supporto bianco o chiaro, tratto ben evidenziato dalla monocromaticità. Negli esempi di questo genere a far da padrone è certamente l’efficacia del gesto: lo sfondo tende a neutralizzarsi, o almeno ad agire silente (bianco), come polo dialettico che rafforza proprio il dinamismo del tratto; la monocromaticità dei segni, per contro, è sfidata al suo interno, cioè non con l’introduzione di altri colori ma evidenziando i chiaroscuri che il colore scelto produce a partire proprio dalla gestualità, dal movimento.

Sono i momenti in cui più chiaramente si manifesta l’energia della scrittura asemica, che – come si intuisce dal nome – nasce dalla privazione del sema, cioè non solo del significato in sé ma anche della capacità del segno di significare, dunque e radicalmente dalla privazione del segno. Sottratta la sfera della significazione, la scrittura non può che riversarsi nella sfera dell’immagine, del di-segno, e i lavori più minimali di Astolfi hanno il ruolo di sottolineare questa caratteristica. Le sfumature del tratto, insomma, sono la testimonianza della semantizzazione della grafia, dello spostamento del focus dall’alfabeto alla linea e dunque della presenza di un gesto – elegante e mosso – che è il vero motore significante dell’operazione. Quando il tratto sembra quasi esaurirsi e ricalcare le venature del supporto che lo sostiene, tale testimonianza ed energia raggiunge il grado massimo, e la scrittura appare del tutto convertita in un’operazione effimera, volatile, scalfente.

Altri lavori, che possiamo considerare l’“evoluzione” di quelli più basici, portano invece la nuda scrittura asemica a confrontarsi con ulteriori meccanismi e a evidenziare ancor più la propria natura pre- o post-alfabetica. Anche in quest’altro gruppo possiamo fare delle suddivisioni. In alcuni casi, ancora su sfondo chiaro, il gioco è tutto innescato dal semplice accostamento o sovrapposizione di colori: se in quelli “basici” l’estetica era interna al tratto, era unica, qui si rivela la possibilità di una speciazione. Dimenticata la capacità di significazione alfabetica, acquisita quella gestuale, questa si potenzia ulteriormente attraverso la moltiplicazione del colore: anche se il significato rimane incontrovertibilmente eluso, lo spettatore intuisce dei valori tipici del tratto rosa, del tratto azzurro, del tratto verde, affascinanti e misteriosi proprio in quanto individuabili nella propria specificità ma impossibili da decifrare.

L’altro sottogruppo, in un orizzonte ancora più distante dalla scrittura “semica”, normalizza l’esorbitanza del tratto tramite uno sfondo non più neutro. In questi casi abbiamo un rapporto più complesso tra “testo” e contesto, con i (non-)segni che vanno a percorrere uno spazio già di per sé alterato (colorato), mosso e materico, oppure a sciogliersi totalmente in esso. In quest’ultima opzione la scrittura asemica, originariamente instabile per via di una condizione ibrida tra segno e di-segno, viene nuovamente assorbita e dissolta in un “complesso” che è integralmente pittorico.

Tuttavia, come detto prima, questo gioco tutto visivo del gesto, dello sfondo e del segno che non significa si intreccia con un’ulteriore e più densa istanza, che riguarda il dialogo intessuto dalle opere con dei “precedenti”, oggettuali e culturali. Già la scrittura asemica, in realtà, si definisce concettualmente in relazione a un Altro (la scrittura “semica”) senza il quale non avrebbe ragion d’essere. Ma gli effettivi precedenti con cui Astolfi si relaziona per dar vita a qualcosa di mai successo prima sono la tela, lo haiku e la scrittura corsiva cinese.

Per quanto riguarda quest’ultima, il rapporto è in verità più accidentale che strutturale. Nel senso che la scrittura senza sema di Astolfi – come del resto in molti casi di asemic contemporaneo – tende ad assomigliare visivamente alla calligrafia corsiva cinese, risalente all’epoca della dinastia Tang (VII-X secolo). Ma tale accidentalità assume tutt’altro spessore se legata a un altro dei “precedenti”, ovvero lo haiku. Astolfi, infatti, è un artista molto sensibile all’arte e al mondo orientali, e perciò si possono indubbiamente annoverare tra le sue influenze stili e approcci provenienti dall’aldilà degli Urali. Se le sue opere sono asemic haiku, dunque, ecco che – sia programmata o no la cosa, non importa – la scrittura asemica diventa ben più che accidentalmente una pseudo-calligrafia orientale: l’idea di questi lavori, in generale, si costruisce come dialogo (sabotante ed emulante insieme) con un modello già costituito, un modello, per giunta, ferreo, se consideriamo la forma altamente codificata dello haiku.

A ciò aggiungiamo poi l’ultimo precedente: la tela, ovvero l’idea di quadro. Scegliendo la tela, Astolfi dialoga stavolta con la tradizione nostrana, che sfida proprio importando sul supporto pittorico occidentale per eccellenza un modello orientale, di cui sposa – per quanto manipolati – sia le forme (calligrafia) sia il concetto (haiku). Si tratta a tutti gli effetti di un sincretismo, un contatto tra due culture: ne è figlia l’arte di una scrittura che ha l’eleganza del disegno orientale e il gioco concettuale, la tautologia, la decostruzione di una pura inquietudine occidentale. Il mai successo prima non è altro, dunque, che la possibilità di esistenza di uno haiku asemico su tela.

Non bisogna tuttavia ricondurre l’arte di Astolfi interamente alla categoria della novità, che pure – come da titolo – gli appartiene. Il mai successo prima è anche e più profondamente la rivelazione della frizione che si genera a partire dalla possibilità di uno haiku che sia asemico e che sia su tela, e cioè la frizione tra struttura poetica, eliminazione del sema e supporto “classico”, nonché tra gesto orientale e concetto occidentale. Una frizione che è possibile solo nell’ottica di una storia e di una geografia, dunque solo se i lavori di Astolfi vengono rapportati a dei meccanismi che li precedono storicamente o li chiamano da Est, e che in tal modo vengono attraversati, trasgrediti, studiati. Al fondo dell’operazione, insomma, questo big bang: l’incontro/scontro tra due opposte interpretazioni della scrittura, ossia la sinuosità del gesto e la sottile realtà di un segno che si sottrae.