Domenico Maggiore detto “MIMINO”: Cosmo e movimenti
Egidio Marullo
foto di Egidio Marullo e Mauro Chirenti
1. Il Cosmo di Mimino (2010)
Domenico Maggiore detto Mimino più che un artista si può definire un argonauta della comunicazione. Ha un corpo minuto e mani che muovendosi continuamente terminano i discorsi che la sua voce misteriosa ha iniziato. Già, le sue mani che parlano la lingua dello spazio e nello spazio, nel cosmo appunto lanciano messaggi astrali, totali, astratti eppure organici, viventi.
Mimino realizza le opere che ha già visto, fotografate nei suoi occhi, tra le pietre dei muretti a secco, tra mille fili d’erba, tra distese di papaveri ed altri fiori selvatici di un Salento luminoso, sovraesposto, per certi versi terribile, che ormai, per chi lo conosce, sembra di sua proprietà. Queste immagini sono poi catturate, trasfigurate e riportate in scultura, colorata, riflettente, fatta di colori smaltati di mattonelle e luce. I suoi mosaici possiedono una grazia ed una finezza che ha a che fare con l’arte musiva paleocristiana e bizantina, ma contemporaneamente appaiono massicci, rudi, veementi come giochi dadaisti. Nelle opere di Mimino, la Grazia, la bellezza e la cura dei particolari sono complementari alla forza dell’impianto strutturale delle forme che violentano lo spazio per portare allo spettatore la delicatezza delle cromature.
Mimino ha tutti i crismi dell’artista navigato e schivo. Concepisce le sue creature spaziali con cura, e maniacale precisione. Pochissime volte, a pochissimi amici mostra il frutto del suo lavoro, del suo fare notturno eppure così luminescente. Mimino potrebbe essere definito un designer tra i più avanzati, tra i più innovativi, sicuramente tra i più moderni. I suoi specchi, i suoi lavandini, le sue lampade, infatti, non vivono solo della loro indubbia capacità funzionale ma esistono per volere estetico e soprattutto “estatico”. I mille frammenti colorati esplodono in un’estasi cromatica che invade lo spazio in ogni direzione, proprio come luce, come luce a volte abbagliano, più spesso però incantano, illuminando i luoghi oscuri dell’anima di chi sa vedere senza osservare. Le opere di Mimino, a mio parere, si godono, non si osservano, si bevono con gli occhi e per gli occhi sono tra le “cose” più salutari e dissetanti che l’arte contemporanea ha prodotto.
Mimino viaggia come Argonauta alla ricerca della perfezione formale e nei suoi viaggi frammentati e frammentari talvolta comunica al mondo la scoperta di nuove forme, nuove creature, fiori acidi e animali sconosciuti, altre volte urla messaggi, lanciandoli in un vuoto cosmico che riempie con la voce timida, le mani basculanti e soprattutto con i suoi colori.
2. Movimenti
Questa breve riflessione presentava una mostra-performance che Mimino realizzò presso “Teatro dei Contrari” in via Ostilia a Roma, nell’autunno del 2010. Una serata memorabile poco distante dal Colosseo e vivida nella mia memoria perché densa di stimoli, eccitazioni che gravitavano attorno alla “coda di lupo” di un artista impossibile da catalogare, difficile da definire. Una serata piovigginosa di settembre che mostrava una Roma luccicante e frenetica di traffico e di amici vecchi e nuovi ritrovatisi a celebrare i mosaici altrettanto luccicanti fatti di piastrelle rotte e stucco nero. Una serata di musica, poesia; tenaglie tenaci in bella vista raccontavano il processo creativo di un artista artigiano che con il suo lavoro e con il suo carisma riusciva a raccogliere attorno a sé, indistintamente intellettuali navigati e giovani alla deriva. Le sue pochissime sillabe arrivavano come lunghi eloqui senza sbavature alle orecchie di tossici, sbandati d’ogni leva e folli solitari. Erano i suoi occhi sottili, simili a ferite antiche mai rimarginate a parlare una lingua arcaica ma chiarissima, dal lessico aulico ma comprensibile a tutti. Una serata che avevamo sognato da sempre e preparato in brevissimo tempo. Alla fine di agosto di quell’anno avevamo fatto un sopralluogo tecnico presso il piccolissimo spazio del Teatro dei Contrari (nome che da subito ci parve centrato sulle nostre intenzioni). Durante le cinque ore di viaggio in auto che da Castri di Lecce ci portò nella capitale, Mimino non pronunciò più di dieci parole. Era concentrato e assorto, Roma per lui era una rinascita, rappresentava un’opportunità di rinascita esistenziale, come tante volte era accaduto in passato. A volte spariva per settimane o mesi, chiuso, ibernato nella sua casa di Castri o lontano, in Francia, Germania o chissà dove, ospite di amici (forse mai esistiti). In quel viaggio mi colpii la fierezza con cui portava a spasso la sua figura di essere umano, i suoi lunghi capelli grigi sempre legati in una coda che gli scendeva sulle spalle. Un animale selvatico che di tanto in tanto scendeva in paese a farsi vedere, a testare la sua fisicità e a ricordare a se stesso la sua stessa esistenza. Qualche settimana dopo portò i suoi pesantissimi lavori a Roma accatastati in un furgone che un amico piastrellista gli aveva prestato. Specchi, lampade, lavabi, pile e altri grevi alambicchi di pietra assemblati con l’aggiunta di terracotta, tubi di rame, fiori e terra delle “Cote”[1], arrivarono nella città eterna e iniziò così l’allestimento della mostra che volle intitolare “Movimenti”.
Il titolo era una delle parole che tornavano spesso nel suo parlare, sinonimo di vita e di interazione vera e profonda, i movimenti erano il suo obiettivo primario, lo scopo del suo fare. Lui si definiva un artigiano più che un artista, ma da ciò che mi è stato dato di comprendere del suo animo profondo, le due parole spesso si confondevano e si fondevano in una dimensione di complementarietà in cui non può esserci arte senza la sapienza e l’amore dell’artigiano, senza il suo contatto elettivo e diretto con i materiali e con gli strumenti; altresì un artigianato che non tenda all’arte, intesa come elevazione spirituale insita nell’atto del creare, risulta essere monco della parte più nobile del fare, rischiando di rimanere soltanto una sterile pratica, avida e disumana.
Ciò che è vivo si muove, si incontra e scontra con altri corpi, si ritira e si propone, comunica esistendo, respira. In tal senso lo slancio vitale che Mimino imprimeva alle sue creazioni era uno strumento di contatto con il mondo, una specie di messaggio universale lanciato oltre i confini fisici del corpo. Così intendeva, ad esempio il suo “Messaggio Cosmico”, un dittico composto da un lavamani dalla forma sinuosa, sospesa dal suolo che si stacca dolcemente dalla verticalità della parete e si aggetta nello spazio verso lo spettatore e uno specchio incorniciato da un mosaico policromo le cui tessere altro non sono che frammenti di piastrelle in ceramica, rotte e rifilate abilmente attraverso l’uso della tenaglia. Una cornice in metamorfosi, in evoluzione, in movimento appunto, corpo riflettente colto nell’atto di dilatarsi. Ed a dilatarsi è anche il mondo riflesso nello specchio, il mondo di chi guarda se stesso ed il proprio ambiente sottomettersi e dilatarsi verso l’esterno, in ogni direzione trascinato da quelle schegge di ceramica multiforme. Frammenti di ceramica dalle fattezze floreali si inerpicano, quasi barocchi, su linee tese verso l’alto, Una selva discinta da cui talvolta sembrano sbucare occhi, mani, lacci e frutti lussureggianti. Un messaggio interstellare che pare volerci convincere che le distanze siderali che spesso sembrano sussistere tra gli animi, in verità sono nulle, sono superabili se solo si riuscisse a vivere veramente e a pieno in sintonia con gli elementi naturali. Il creato come ambiente d’incontro ed il dinamismo biologico come volano propulsivo di questa ricerca di contatto. Nell’opera tutto è condizionato dai riflessi caldi di un onda che sembra fuoriuscire dalla parete, sormontata da una sventagliata di sei punte che circondano lo specchio a guisa di goccia, corrono in alto e verso destra.
A tenere insieme le tessere uno stucco nero descrive e delimita in modo feroce le forme ricordando molto da vicino il segno espressionista di Kirchner, nella sua dimensione più spigolosa e tagliente, talvolta invece sfiorando le linee più morbide di Matisse. Ma i riferimenti al contemporaneo non sono maggiori di quelli che riconducono l’osservatore al mosaicismo romano o bizantino. Più ancora forse potremmo accostare alcune delle opere di Minino all’artigianato artistico dei Goti ed in generale all’arte barbarica tra V e VIII secolo dove le cosiddette “arti minori”, proprio perché tali favoriscono l’incontro e lo scambio diretto e divengono più vicine al vissuto dei popoli. Alcuni dettagli dell’opera di Mimino ricordano da vicino l’antica tecnica tipica dell’oreficeria gota del Cloisonné, propria di molte fibule , spille e monili decorati a smalto colorato.
Il concetto di “Arte Minore” credo sia centrale quando si affronta l’analisi di autori come quello in questione. Le arti minori sono quelle legate all’artigianato, talvolta di altissima qualità ed in ogni caso di altrettanto alte qualità estetiche ed espressive rispetto alle “arti maggiori” ma che a differenza di queste, tendono ad essere sbilanciate verso la funzionalità o hanno il compito di favorire i legami tra persone, gruppi sociali, popoli. L’autore è un soggetto con un bisogno impellente di esprimere, di comunicare ad un livello profondo ma preferisce la semplicità di un fare basato sulla manualità e sull’esperienza diretta delle tecniche e dei materiali. Esperienza lavorativa che per Mimino Maggiore è stata quasi sempre dura, talvolta durissima, a tal proposito si tratta di un elenco lunghissimo di mestieri che hanno condotto il Nostro ad accumulare una mole tale di competenze che hanno fatto del suo “saper fare” l’espressione di un uomo dalla possente cultura tattile. Piastrellista, idraulico, carpentiere, muratore ma anche imprenditore, commerciante e tanto altro. Una spiccata “intelligenza delle mani” faceva di lui un sorta di filosofo tattile che amava esprimere ed esporre le sue tesi quasi esclusivamente attraverso la manualità del lavoro e pochissimo attraverso la parola parlata, e aggiungo, avendo condiviso con lui molti momenti di fatica fisica e creativa che il suo approccio formale e direi anche estetico non cambiava mai, sia che il lavoro fosse inerente all’idraulica, l’edilizia o la carpenteria, sia che si trattasse di scultura o mosaico. La conduzione metodica, logica al principio dell’opera si faceva via via più eterea e raffinata quanto più si avvicinava al termine del processo che comunque era stato ampiamente interiorizzato e fissato nei minimi dettagli, anche quando il risultato poteva indurre a pensare invece ad un atto veloce ed improvvisativo.
Le opere di Mimino, partendo da strutture solide quanto massicce, messi in opera con il compito strutturale di sorreggere il peso talvolta considerevole delle tessere, arrivano a concepire composizioni, che per forma e colori appaiono lievi, leggere, quasi volatili. Sembrano a volte avere la stessa natura eterea del riflesso di luce, come il già citato “Messaggio Cosmico”. In altri casi, come ne “Il Vento Seduto[2]” un meraviglioso albero-lavabo chiuso in alto da uno specchio triangolare la cui cornice mosaicata e tema floreale e vagamente “Art nouveau” sembra formare una sorta di arcana capanna Sioux. Maggiore attinge spesso a quella che si potrebbe definire la sua storia parallela. Una storia legata alla musica, ai “Movimenti” giovanili, a partire da quelli Hippie del Flower Power di fine anni sessanta a quelli legati alle correnti musicali, dal Beat al Rock Progressivo italiano del decennio successivo. In un sud particolarmente aspro quanto vitale, Mimino ha militato nelle frange più attive dei gruppi della sinistra extraparlamentare, spesso in opposizione anche con il Partito Comunista e contemporaneamente ha anche avuto esperienze in ambito musicale come organizzatore di festival, come procuratore e talent scout. Sempre alla ricerca di una “comunicazione” vera e profonda, come amava ripetere, che riuscisse ad oltrepassare le scorze delle appartenenze di genere, delle differenze interpersonali e arrivasse a creare rapporti elettivi unici. Questo, infatti, era il suo obiettivo principale: stabilire relazioni, anche e soprattutto intergenerazionali, che potessero far crescere ed evolvere il suo spirito in cambio di esperienza e bellezza. In definitiva Maggiore è sicuramente tra coloro che, come scrive Kandinsky ne “Lo Spirituale nell’arte” sono “cercatori dell’interiorità nell’esteriorità”. Attraverso un codice linguistico fatto di forme arboree e floreali riconoscibili Mimino dilata gli spazi della vista utilizzando il frammento e lo scarto, il ready-made (rotto) e l’assemblaggio, per costruire una proposta estetica cromaticamente forte, a volte violenta ma ineccepibile e stilisticamente ricercata e matura a tal punto da ricordare, oltre ai già citati Ernst Ludwig Kirchner e Henri Matisse anche il grande protagonista della stagione britannica “Art and Craft”, William Morris. In ultima istanza non si possono non notare le affinità con l’artista spagnolo Antoni Gaudì, soprattutto quello del celeberrimo Park Guell. Analogie non solo formali ma anche sostanziali sia nel processo costruttivo, sia nel tipo di approccio esistenziale con la questione ambientale.
Mimino Maggiore, Bergsoniano senza mai aver letto Bergson, è una delle tante figure d’artista legato a doppio filo alla sua terra, al suo ambiente, che abita e conosce profondamente, a tal punto da poter indagare la profondità di ogni superficie, ogni altro possibile significato delle cose attorno a lui, senza mai cadere nella rappresentazione impressionistica del reale ma proponendosi allo spettatore come una sorta di driver, di guida al’interno di un Milieu i cui elementi naturali penetrano e colorano le pareti del suo animo. Un Milieu privo di profondità prospettiche ma ugualmente ampio tanto da contenere una moltitudine di piante, fiori, pietre, occhi, foglie, ghirlande, mani nodose, e una gamma infinita di tinte accese e cangianti.
3. Una Vita
Domenico Maggiore detto Mimino nasce a Castri di Lecce il 22 agosto 1949 da genitori contadini, è quinto di 6 fratelli. La sua infanzia trascorre tra il piccolo villaggio a dieci chilometri dal capoluogo e Le Cote, un piccolo appezzamento di terreno di famiglia nei pressi dell’oasi faunistica WWF delle Cesine in territorio di Acquarica di Vernole. Le ristrettezze economiche lo conducono a cimentarsi, sin da giovanissimo, in diversi lavori ed arriverà poi a specializzarsi in attività legate al mondo dell’idraulica e dell’impiantistica e dell’edilizia in genere ma anche con mestieri altra natura come i cuoco.
A partire dagli ultimi anni sessanta inizia ad appassionarsi di politica ed a frequentare gli ambienti della sinistra extraparlamentare di Lecce e provincia. Contestualmente si appassiona alle correnti musicali del tempo entrando in contatto diretto con gruppi e musicisti del Salento. In particolare alla metà degli anni settanta diventa procacciatore di concerti per la band Rock salentina più rappresentativa del periodo, i “Catrame e Cemento”. Il finire degli anni sessanta lo vedono lontano dal salento attivo in diversi contesti lavorativi, imprenditoriali e culturali, in Francia. In questo frangente inizia a creare i primi mosaici, realizzati sempre per committenti privati. Produce soprattutto mosaici pavimentali. Al termine di questa esperienza torna nel paese natio dove, spinto da una malattia della pelle delle mani che non gli consente il contatto prolungato con l’acqua, si reinventa quindi commerciante di sanitari e mattonelle in ceramica.
Tornato in Salento alla metà degli anni settanta gestisce una delle tante discoteche e sale concerto semi clandestine presenti in Salento: “La Sfinge”, sempre a Castri, dove si occupa dell’organizzazione dei concerti ed è in questo contesto che matura una spiccata sensibilità per la dimensione performativa come momento di comunione spirituale e di prassi artistiche.
Tra la fine dei settanta e l’inizio degli ottanta, spinto da una malattia della pelle che lo colpisce soprattutto alle mani che non gli consente il contatto prolungato con con alcuni materiali edili, si reinventa quindi commerciante di sanitari e mattonelle in ceramica.
Nei primissimi anni novanta fonda il Rock Fans Club, un circolo informale che dà vita ad una stagione di iniziative, rassegne musicali e concerti nella provincia salentina.
Sempre nello stesso periodo, utilizzando gli scarti in ceramica a disposizione del suo negozio ricomincia a cimentarsi con la tecnica musiva, partecipando ad iniziative legate al mondo del design e all’artigianato artistico.
Negli anni dieci del duemila, sulla scia delle precedenti esperienze fonda a Castrì di Lecce il circolo culturale e politico reAzione, baluardo libertario e semiclandestino dove per un decennio si divide tra attivismo politico, con una forte connotazione ambientalista, e l’organizzazione iniziative artistiche di diversa natura.
Nei primi anni venti del XXI secolo, si ritira sempre più spesso nella sua casa-laboratorio, condividendo con pochissimi amici le sue creazioni sempre più intime e trascendenti.
All’inizio del 2024 lo sorprende un male incurabile che lo conduce alla morte il 10 giugno dello stesso anno.
Egidio Marullo
14 settembre 2024
[1] Nome del piccolo appezzamento di terra di proprietà della sua famiglia, nei pressi del parco naturalistico delle Cesine in cui Mimino da bambino si recava a raccogliere canne e giunchi per la fabbricazione dei tradizionali cesti salentini.
[2] Il titolo è un chiaro riferimento al brano R.I.P. del Banco del Mutuo Soccorso del 1972, inno dell’anti militarismo giovanile tra fine anni sessanta e inizio settanta.
[..] Ora si è seduto il vento / il tuo sguardo è rimasto appeso al cielo / sugli occhi c’è il sole / nel petto ti resta un pugnale / e tu no, non scaglierai mai più / la tua lancia per ferire l’orizzonte / per spingerti al di là / per scoprire ciò che solo Iddio sa / ma di te resterà soltanto / il dolore, il pianto che tu hai regalato / per spingerti al di là / per scoprire ciò che solo Iddio sa.