Intervista a Enzo Minarelli
by Frederico Fernandes

Cover em 2014Ampio stralcio di un’intervista a Enzo Minarelli che comparirà nel volume Le ragioni della voce, in corso di pubblicazione presso un noto editore italiano.

Frederico Fernandes intervista Enzo Minarelli durante il I Seminário Brasileiro de Poéticas Orais: Vozes, Performances, Sonoridades, presso l’Università di Londrina, Brasile, da lui stesso organizzato nell’ottobre del 2010. L’intervista è stata rivista nel gennaio del 2015 a Bologna durante vari incontri di lavoro.

FF: Leggendo i tuoi libri, i tuoi saggi, mi sono fatto l’idea che il concetto di sound poetry [poesia sonora] elaborato da Henri Chopin, è stato decisivo per te. Qual è stato il tuo primo contatto con la poesia sonora?

EM: Mi sono reso conto solo da adulto dell’impatto che un magnetofono a bobina Geloso, un regalo fattomi dalla mia famiglia quando ero appena undicenne, ha avuto sulla formazione della mia personalità. Udire la mia voce registrata fu un primo passo verso l’auto-consapevolezza della mia tangibile presenza in questo mondo. Presi l’abitudine di registrarvi non solo i miei pensieri, le mie emozioni di adolescente, ma anche, man mano che diventavo tecnicamente sempre più esperto, ebbi l’ardire di sperimentare bizzarre congetture fonetiche col microfono incollato alla bocca: probabilmente ero già un poeta sonoro in erba e non lo sapevo. Per la cronaca, quel Geloso, compare in una delle mie primissime videopoesie Wow Flutter Stop del 1984, e più di recente come oggetto di scena nella performance Carneade o Primo Carnera? La carne del poeta, 2011. Dal punto di vista professionale, ho incrociato la presenza reale della poesia sonora quando io stesso ho cozzato contro i limiti della parola scritta, avvertendo la sua incapacità a comunicare di più. Il passo verso l’oralità fu un atto quasi automatico, anche se sul finire degli anni Settanta, avevo pubblicato un paio di libretti di poesia che faranno la mia fortuna, Il Poeta Reticenza del 1978 e soprattutto Obscuritas Obscenitas del 1979. Nel luglio del 1979 debuttava al Teatro del Guerriero di Bologna [una cantina ora distrutta] all’interno di una rassegna da me curata Rapporti di Poesia e Teatro, Il Poema Spettacolo, performance totale, con due mimi in scena, due musicisti, oltre a me stesso, voce recitante dal vivo. Sai bene che il mio noto Poema, di cinque minuti è la riduzione degli originali venti di quel primo evento. In quegli anni ero già in stretto contatto con i protagonisti della poesia sonora internazionale, ed anche con Henri, al punto che gli dedicai un’intera facciata del numero 1 della mia serie in disco a 45, un bel pezzo dal titolo Chercher, del 1974 [3Vitre, n.1, 1983]. Chopin è sempre stato un ineludibile punto di riferimento, forse anche più di Heidsieck, perché mi ha trasmesso la netta prevalenza tecnologica del puro suono contro la morte della parola, in effetti, lui davvero ha ucciso il significato della parola così come noi la intendiamo, per sostituirla con un rumore fonetico che diviene nulla e tutto nello stesso momento, frutto di un totale sfruttamento del magnetofono, commercializzato su scala mondiale proprio negli anni Cinquanta. Il pezzo citato sintetizza alla perfezione l’approccio estetico di Henri. Anche Heidisieck si appoggiava al mezzo tecnologico ma restava in qualche modo ancorato all’integrità della parola. Se guardo indietro verso l’origine della mia produzione sonora, si evince che i miei inizi oscillano proprio tra questi due estremi simbolizzati dai due poeti francesi. Con Chopin intrapresi un fitto carteggio, ci incontrammo spesso qui in Italia o all’estero in occasione di festival, lui apprezzava il mio lavoro, scrisse anche a più riprese sui miei poemi, mi incluse nella seconda edizione di Poésie Sonore Internationale. Durante un recente festival in Inghilterra, ho conosciuto un ricercatore che ha studiato questo carteggio oggi archiviato presso la Getty Foundation di Los Angeles. Nel corso degli anni, fedele a quell’indissolubile legge che esige «l’uccisione dei padri», ho capito le incongruenze della sua posizione che ho cercato di superare introducendo la teoria e la pratica della Polipoesia, un modulo a largo raggio, che contempla la sperimentazione vocorale, la supremazia della voce su tutti gli elementi della performance.

FF: Al punto 6 del tuo Manifesto della Polipoesia, tu affermi: “La Polipoesia è concepita per lo spettacolo dal vivo…”. Quindi, se non c’è lo spettacolo, non c’è polipoesia? Perché spettacolo dal vivo?

EM: Sì, lo spettacolo dal vivo gioca un ruolo chiave, un retaggio dei Futuristi italiani che per primi ne compresero l’importanza anche se durante la performance concedevano troppo all’improvvisazione. Sia al Lettrismo che ai poeti storici della Poesia Sonora, faceva difetto un metodico approccio all’evento dal vivo. Se tu hai avuto l’occasione di assistere ad una performance di Isou, [il fondatore del Lettrismo] puoi dire tutto, tranne che fosse un buon performer. Io lo ricordo a Milano sul finire degli anni Settanta, in una performance che consisteva essenzialmente nello svestirsi e rivestirsi davanti ad una audience esterrefatta. Un’opinione simile me lo sono fatta osservando le performance dei cosiddetti poeti sonori storici, i quali, presi dalla loro smania o di distruzione o di creazione di pezzi dall’alto tasso fonetico-linguistico, dimenticavano di prendere nella dovuta considerazione tutti gli elementi caratterizzanti lo spettacolo. In parole povere, un poeta sonoro che esegue il suo poema davanti ad un pubblico, rigettando gli apporti dell’attrezzatura spettacolare, non è molto distante dal poeta lineare che legge convinto i suoi versi dal libretto stretto tra le mani. La Polipoesia è un tentativo, in primis, di sfruttare l’enorme potenziale che deriva da un lavoro totale condotto sulla parola senza porsi limite alcuno, e al tempo stesso, deve mantenere vivo, aperto, un dialogo simbiotico con tutti i tipici aspetti del live show, la musica, l’immagine, il movimento, la mimica, la danza, gli abiti, le luci, gli oggetti ecc., ponendo sempre e comunque la sperimentazione vocorale, lo sviluppo della voce, nel gradino più alto e ben in vista; questo dato fa la differenza, altrimenti il pubblico non percepirebbe una performance di Polipoesia, ma una canzone, una pièce teatrale, un happening, o una performance d’arte.

FF: “La parola senza limite alcuno” mi pare una definizione perfetta! Io penso che la poesia sia come un «buco nero» che attrae diversi media, ecco perché le arti d’avanguardia sono a proprio agio nelle performance. Ipotizzando una teoria del buco nero, il primo moto consiste nell’attrarre, il secondo nell’espandere energia. La poesia compie questo duplice movimento: nel primo il poeta deve ricercare i diversi media (una fase in cui cerca di attirare il linguaggio), nel secondo, quando invece imprime un senso al linguaggio, la poesia opera un’espansione. Ha senso per te questa mia osservazione?

EM: Certo. Soprattutto dopo McLuhan, il poeta ha il dovere di dialogare con la tecnologia, a maggior ragione il polipoeta. Quella fase che tu chiami di ricerca dei media svolge un ruolo determinante, il poeta deve studiare dettaglio su dettaglio i mezzi tecnologici, per non esserne schiavo, e diventarne il vero padrone. Non è un caso che il mio ultimo CD di poesia sonora [Fame, New York, Pogus, 2012], mi ha portato via molto più tempo nella scelta e nella conoscenza del software che nella reale composizione dei polipoemi. Questo dimostra quanto importante è l’acquisizione della tecnologia scelta in funzione dei processi creativi. Quindi la tua domanda è pertinente, prima il possesso del know-how, poi l’esplosione della creatività, la politica della formichina che d’estate lavora per mettere via il cibo, e d’inverno si scatena. Mentre il primo passo è in apparenza facile, soprattutto oggi dopo decadi di boom tecnologico, il secondo richiede un’applicazione speciale nel trovare il giusto equilibrio tra gli elementi coinvolti nella performance. Come facilmente puoi immaginare, oggi il poeta che decide di utilizzare la tecnologia, ha in pratica davanti a sé, una gamma infinita di possibilità. Se non ha alle spalle un progetto accurato, corre il rischio di incorrere in ridicole impasse, o inverosimili banalità. Inoltre, tra le righe della tua affermazione, io scorgo un altro importante concetto, in genere omesso o dimenticato perché presuppone l’elaborazione di una teoria prima di abbordare la pratica. E come ben sai, non tutti i poeti hanno una teoria a sostegno del prodotto poetico. Voglio dire che quando uno ha davanti a sé un’infinità di soluzioni, il buon polipoeta sa quale percorsi intraprendere, e quali significati imprimere alla sua ricerca. Non sto dicendo che un poema sonoro debba necessariamente contenere una sorta di messaggio universale come generalmente accade nella poesia lineare scritta. Piuttosto insisto sul fatto che la nostra ricerca sonora ha senso se riesce a comunicare «qualcosa» come era solito dire il grande Pound. Da questo deduci facilmente come io sia contrario a qualsiasi tipo di improvvisazione istintiva o non sopporti quelle tipologie di poemi sonori frutto di giochetti infantili, di trucchi nonsense, con sonorità fine a se stesse.

FF: Come componi i tuoi poemi? Hai un modello predefinito? Viene prima la poesia oppure prima lo «schema d’esecuzione» e poi la poesia stessa?

EM: Il primo input mi giunge da una parola, da un fonema, da un suono fonetico, ecco perché ancora insisto per queste ricerche sul termine «poesia», il linguaggio è il punto di partenza. Da un punto di vista razionale, mi accorgo del perché sono attratto dal richiamo linguistico; in questa fase, stendo consapevolmente un canovaccio del progetto, pianificando scopi, regole e strutture. In pratica razionalizzo ciò che voglio dal poema e quindi ciò che non devo assolutamente fare. Dopo entra in campo il lavoro intuitivo, i collegamenti irrazionali, all’interno del reticolo che ho tracciato, l’estro ha via libera, e pian piano il poema assume forma. Sperimento con la voce ad alta voce, scegliendo altezza, timbro, tonalità, coloriture dei suoni. Un lavoro certosino, frutto di innumerevoli registrazioni, e di infiniti ascolti, alla ricerca della giusta impostazione ritmica. Questo è anche il momento dell’effetto tecnologico, se la mia voce naturale non basta, la devo supportare. Prima dell’avvento del digitale e dell’informatica, fare un poema sonoro col sistema analogico comportava una procedura lunga e laboriosa. Sul finire degli anni Settanta, comprai un Revox professionale [registratore a grandi bobine], pagandolo a carissimo prezzo, ma era l’unico modo per lavorare in casa, anche se andare in uno studio specializzato era indispensabile per approdare alla soluzione finale. Oggi è tutto molto più facile, tecnicamente parlando, la produzione di un polipoema sonoro. Grazie a semplici e potenti software, posso lavorare davanti allo schermo del computer, registrando, cancellando, modificando la voce tutte le volte che voglio, in tempo reale, fin tanto che non sono soddisfatto dell’esito. Da un punto di vista professionale, l’avvento dell’era del computer dovrebbe favorire esponenzialmente la produzione di poemi sonori, ammesso e non concesso, che ci siano sempre progetti validi da realizzare. Una volta che ho raggiunto quanto mi proponevo, scelti i ritmi, i picchi di voce, la serie di effetti elettronici, le inserzioni musicali, è il momento di decidere come performarlo, quali le possibili inclusioni di immagini, quali i movimenti mimici, quali gli oggetti di scena, ecc.. Solo a questo punto, trascrivo ogni cosa nello «schema di esecuzione» che diviene il fedele story board del poema dove tutti gli atti orali sono visualizzati, ivi anche gli ingressi dei media coinvolti, nonché i movimenti scenici fino all’uso delle luci. Adesso capirai perché mi piaccia tanto controllare tutti gli aspetti, fino ai minimi particolari, del polipoema, e comprendi perché una mia esecuzione dal vivo, segue sempre la stessa traccia dello schema. Cambia il luogo, varia quella speciale miscela tra performer e pubblico, ma il poema in sé è sempre lo stesso. Lo «schema di esecuzione» non deve comparire tuttavia in scena, io preferisco memorizzare il poema nei suoi molteplici sviluppi e passaggi chiave, come fa un cantante per la sua canzone o un attore per la sua parte teatrale, sebbene io in quanto polipoeta non sia né cantante né attore.

FF: Zumthor ha dato una meravigliosa definizione di poesia, durante un’intervista concessa ad André Beaudet per Radio Canada, “poesia è la pulsione dell’essere umano nel linguaggio”. Se tu sei un essere umano, tu stai già facendo poesia, la poesia è equiparata alla vita. Zumthor era uno studioso formidabile nonché, gran ricercatore letterato. Oltre a lui, a Chopin e Philadelpho Menezes, anch’esso valido saggista, quali sono i testi critici sulla poesia sonora prodotti nell’ultimo decennio, che ti hanno stimolato di più?

EM: Concordo con la pulsione dell’essere umano nel linguaggio, il che implica uno stato d’allerta per riconoscere le giuste tensioni del linguaggio. Davvero, la poesia è così simile alla vita! Pensa ad un verso del Manfred di Byron, “le parole sono aria respirata”. Le parole hanno senza dubbio un senso. Al tempo stesso fisicamente parlando, non possono essere toccate, sono aria, non si riesce ad afferrarle, eppure comunicano, sono il nostro ossigeno, ecco il mistero della poesia, e se preferisci, il mistero della vita. Da questa prospettiva, afferro il significato della tua affermazione, fare una poesia equivale alla vita, vuol dire vivere quella poesia, fare una poesia è quindi un atto vitale, io da sempre sono fermamente convinto che prima venga il poeta, poi l’uomo. Per quanto riguarda i saggi sulla poesia sonora dal 2000 ad ora, poco o nulla ha suscitato la mia attenzione, non tutti i poeti sonori sono scaltri e preparati per scrivere dei saggi, d’altra parte, sulla scena internazionale non scorgo particolari novità. Penso in tutta franchezza che alcuni lavori di critica come quelli di Zumthor, di Chopin, (alludo alla sua opera Poésie Sonore Internationaledel 1979), molti scritti di Dick Higgins, come alcune ricerche di Nicholas Zurbrugg, siano ancora attuali e assolutamente non da accantonare. Anche un volume come quello di Philadelpho, Poesia Sonora (a proposito lo aiutai parecchio ad organizzare l’edizione, quando per un anno intero visse in Italia nella mia stessa città) rappresenta un punto focale, soprattutto per il Brasile dove, nulla del genere, era apparso prima. Per un pubblico europeo ed americano quel libro era un déjà-vu, in quanto tutti i saggi erano già stati editi, credo che solo il mio fosse inedito! Io mi auguro che tu e il tuo gruppo possiate rappresentare una bella garanzia per il futuro di queste ricerche, tu stesso hai già dato prova di intelligente preparazione e fattiva capacità organizzativa. Altri segnali molto incoraggianti di nuove generazioni sul piede di guerra, vengono da Lima, da Barcellona, dal Paese Basco, da Lisbona, dal Messico e da Tokyo. Luoghi che frequento e che conosco molto bene, dove ho verificato la crescita di novelle e fresche energie che presto raccoglieranno il nostro testimone per portarlo il più avanti possibile.

FF: Ti stai riferendo senz’altro a Cartografia della Poesia Orale, un gruppo di ricerca composto da studiosi di diverse aeree del Brasile. Insieme abbiamo pubblicato la trilogia Oralidade e Literatura, e di recente con lo storico Eudes Leite, Transitos da Voz; tutti e quattro i volumi sono stati editi da Eduel una casa editrice brasiliana. Abbiamo creato in rete il Portal de Poéticas Orais, e la rivista Boitatá. La maggior parte di questi ricercatori sono realmente interessati nella tradizione orale della poesia intesa come mito, racconto e leggende di parecchie comunità brasiliane, comprese quelle aborigene. Dall’inizio del nuovo secolo, e dietro mia iniziativa, abbiamo preso in considerazione lo studio dei mezzi elettronici applicati alla poesia orale. Ci siamo anche focalizzati sui poemi d’avanguardia, in particolare, come ben sai, sulla polipoesia. In questo senso ho organizzato il primo simposio di Oral Poetry, all’Università Statale di Londrina, dove tu sei stato l’invitato speciale per la conferenza di chiusura, nel 2010. Prima di incontrarti nel 2009, frequentando il seminario che conducevi, avevo letto il tuo saggio História da Poesia Sonora no Século XX, nel libro già citato di Phila, Poesia Sonora, (1992), ebbene quel testo mi ha letteralmente aperto gli occhi su un mondo intero di nuova poesia! Ora, per concludere, so che hai pubblicato il tuo ultimo CD Fame, me ne vuoi parlare?

EM: Fame (Pogus, New York, 2012), il titolo tradotto significa Fama, ispirato dalla figura mitologica descritta da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Oltre ad essere uno dei pochi, davvero sempre più rari, prodotti di poesia sonora ad apparire sulla scena internazionale, questo CD segna una tappa molto significativa nella mia carriera polipoetica. Avresti dovuto vedere la corrispondente performance Polipoesia 10, [Polipoesia 1 è datato 1982], che ho presentato al MACBA di Barcellona nell’ottobre del 2012. Non ho mai avvertito così potente, così frastornante la presenza della mia voce in scena, aumentata paradossalmente, dalla mia fisicità performativa e dalla sequenza delle videoimmagini. Sicuramente ciò è frutto del sofisticato approccio tecnologico cui ho sottoposto la mia voce. Uno dei punti del mio Manifesto sottolinea giustamente come il progredire della tecnica consenta anche un miglioramento del polipoema. Come già detto, mi piace tenere sotto controllo tutti gli aspetti del mezzo utilizzato, perché non mi sfugga di mano. Una questione questa del dominio tecnologico, di cui sono consapevole fin dagli inizi, pensa ad pezzo come Oscibil, del 1984. Ho sempre considerato la presenza dell’hardware molto ingombrante, capace di schiacciare la creatività poetica, per cui, mi son sempre detto, prima di essere un buon polipoeta, dovevo essere un esperto tecnico. Ricordo molto bene le mie prime esperienze nel campo dei computer, a metà degli anni Ottanta, presso il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, dove mi sentivo un vero e proprio schiavo in balia di questi enormi e spropositati macchinari che richiedevano la continua, assillante presenza degli ingegnieri e che richiedevano, per farli funzionare, l’acquisizione di calcoli matematici estremamente complicati e difficili, almeno per me che non ho mai brillato nelle materie scientifiche. Sono arrivato alla conclusione, molto presto, che la tecnologia è utile quando non la si percepisce durante l’atto creativo. E questa sensazione l’ho raggiunta a pieno con Fame, tutti i suoni del CD provengono nella loro base originale dalla mia bocca, anche se la maggior parte di loro ha subito profonde alterazioni, trasformandosi in qualcosa di diverso dal punto di partenza, perché il compito principale di una sperimentazione poetica consiste “nel liberare il linguaggio dall’automatismo degli atti della parola quotidiana” come usava dire un critico acuto qual è stato Guido Guglielmi. Il sottotitolo del CD, recita, ciò che voglio dire, e si richiama a due posizioni antitetiche. La prima riguarda il poeta italiano Giambattista Marino [1569-1625], il cui famoso verso “è del poeta il fin la meraviglia”, calza alla perfezione con Fame, che consapevolmente mirava ad impressionare acusticamente l’orecchio dell’ascoltatore, quasi a blandirlo, non necessariamente attraverso la cacofonia, anzi ricorrendo spesso a trame eufoniche. Dall’altro lato, onde evitare il rischio di affogare dentro un vuoto poetico o, peggio, in un eccesso di accumulo barocco, ho puntato direttamente a traghettare i polipoemi nel territorio della letteratura. Spero di essere riuscito, questa era la mia ambizione, a sviluppare attraverso la poesia sonora delle dirette, anche se personali, suggestioni acustiche relative alla religione, al potere politico [Genghis Khan, Gilgamesh], alla filosofia, al sapere in generale, all’architettura [si ascolti il polipoema come sentito omaggio all’architetto brasiliano Oscar Niemeyer], alla debolezza umana, alla violenza della vita, al successo senza chiedere aiuto a nessuno; si tratta di grandi temi legati alla nostra esistenza, tuttavia, sebbene io abbia lavorato essenzialmente con i suoni delle parole, conto di essere stato capace di trasmettere la mia propria Weltanschauung. Quando tu mi hai scritto, dopo aver ascoltato il CD, “La tua voce si espande come l’impero di Khan, ma Rimbaud è il motore che fa muovere il tutto”, penso che hai detto la cosa giusta. In Fame a differenza dei miei precedenti lavori Coralmente me stesso del 1997 o 1999 Millennium Poem del 2003, mi sono esclusivamente concentrato sul corpo delle singole parole, fino ad addentrami in ogni singolo fonema. Ho cercato di andare oltre le posizioni di un mio vecchio lavoro preparato e realizzato presso lo Studio di Musica Elettronica di Radio Beograd, Poesie in Parola, del 1983, dove consideravo ogni singola parola come un intero e totale poema. In Fame ho estremizzato questa tecnica, così scavando dentro i vocaboli, ricercando e ripetendo i fonemi, le sillabe, le varie sonorità foniche, ho a poco a poco allargato a dismisura la mia voce modificandola fintanto che “l’inespresso, il non detto, lo sconosciuto appare per essere espresso in nuove forme poetiche” Rimbaud.

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