The refuse in on the table.
by Vincenzo Cuomo
Interattivo, come ogni altro libro, ma non per forza alfabetico-sequenziale – come ogni altro libro che si rispetti o, forse, che si legga non rispettandolo –, multimediale – come tanti libri –, oggetto da collezione o da esposizione – come forse tutti i libri –, il libro d’artista non è definibile in quanto “genere”, ma è indefinitamente moltiplicabile come idea. La creatività dell’artista è in questo caso innanzitutto mediale; consiste in una indefinita variazione del medium espressivo. Per tale ragione i libri d’artista non sono mai dei pezzi unici, anche se appaiono a volte tali, ma sono sempre (e solo) il possibile primo volume di una serie composta da un unico elemento. Tuttavia, il libro d’artista ha una storia relativamente recente. Le sue prime prove sono degli inizi degli anni Sessanta (Ed Ruscha, Daniele Spoerri, Dieter Roth, Ben Vautier) e coincidono, non a caso, con l’inizio del declino (forse inesorabile) del libro alfabetico, fatto per un pubblico (che è sempre stato abbastanza ristretto) capace di concentrazione, di tempo libero e di competenze culturali complesse. Nel giro di quarant’anni, tra i Sessanta e i Novanta dello scorso secolo, tutto si trasforma: i media di massa (innanzitutto la televisione), poi la rivoluzione informatica degli anni Ottanta-Novanta, la conseguente globalizzazione dei mercati e delle culture, l’avvento del turbo-capitalismo, producono cambiamenti radicali nelle società e quindi anche nel mercato del libro, che si scardina ed esplode secondo eterogenee linee di fuga. Ad un certo punto, ciò che appare non reggere più non è solo la logora opposizione tra cultura di massa e cultura d’élite, ma anche la presunta differenziazione tra creatività “artistica” e creatività commerciale (e non solo nei settori del design e della moda). Il libro d’artista è uno dei sintomi di tutto ciò. Ma non perché attesti, come a volte si è scritto, il rifiuto del libro-oggetto-di-consumo da parte degli artisti – per quanto, in certi casi, questa sia stata la motivazione esplicita di alcuni di loro – ma perché rivela come essi abbiano imparato a star dentro ai processi di creazione del valore (economico): ogni libro d’artista appare infatti come una start up, quindi come una nuova creazione di valore: una nuova forma da lanciare sul mercato. Ciò che è importante non è creare uno stile, ma creare stili sempre nuovi.
Ma, dicevo, ogni libro d’artista è come una start up. Tutto sta a comprendere questo “come”, perché in esso passa, forse, la linea di confine tra la creatività economica e quella forma di creatività che continua caparbiamente a non volersi far assorbire del tutto nella contemporanea generalizzazione dei processi di produzione del valore. Ecco che, per tali artisti, si apre un campo di sperimentazione formale, solo apparentemente ristretto: quello della de-creazione, della sottrazione del valore, della nota a margine, della citazione, del refuso, della amorevole raccolta degli scarti di produzione, del collage di ciò che cade al margine. Tutta l’attività sperimentale di Angelo Ricciardi, che trova forse nella moltitudine dei suoi libri d’artista la sua espressione più alta, va in questa direzione. Assumendo un atteggiamento che ricorda quello, zen, di John Cage, Ricciardi apre al “rumore”, vale a dire a ciò che cade fuori dai processi semantici, fuori da quelli comunicativi, fuori da quelli economici. Non per valorizzarli, ma per farne vedere l’inutile e a volte struggente bellezza.
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