Francesco Aprile, Entropia del fuoco, Corato, Eureka Edizioni, 2016
by Cristiano Caggiula
Si lascino posare gli animi, riposare le membra e respirare il cuore. Si permetta una notazione, forse inutile ma da cui muovere. ‘Entropia’, ἐν, «dentro» e -tropia, «direzione», a chi preferirà ‘caos’ o ‘disordine’ suggerisco ‘trasformazione’. Dentro la trasformazione del fuoco, coraggio di cavarne le radici che divampano, archè superno del Mediterraneo e stretto fra le mani che si consumano, mani di un bracciante, mani che porgono aiuto, mani di chi muore, lì stretto, il fuoco. L’opera poetica di Francesco Aprile è il continuum di un nuovo ritrovato, riacciuffato dalle grinfie retoriche e pedanti, restituito verace nella sua entropia: il Sud, un secondo capitolo della sua materia, un nuovo aspetto che il poeta, indisciplinato indagatore, grida ancora a questa «terra che balorda straborda di bocca in fumo di ansie in rivolta». Dalla terra orizzontale che frastaglia nella natura la sua crudeltà e la sua dolcezza, presente nel precedente lavoro di Aprile, egli in quest’opera conduce al nocciolo lucente che brucia da secoli. Una antropopoiesi di uomini nel loro esperire il Mediterraneo subdolo nel suo fuoco, frutto del suo depositarsi. Divampare irregolare e ricolmo di episodi prometeici e non a caso Prometeo, fratello di Atlante, a cui conduce il poeta. Nel Titano egli ricerca la causalità della miseria e della lotta; il disastro di un dono. Prometeo, creatore commosso del genere umano, il Sud inerme nel carro del Sole, brace ardente e motivo di vendetta di Zeus, ancora un Sud pretesto di lotta e antro di salvezza. Nei versi di Aprile la morte non tace, il fegato ricresce nei morti in mare e «L’immagine televisiva raccoglie il fatto da un punto di vista diffidente» e torna ogni giorno, avida a divorare questo maledettissimo fegato. Atlante, fratello di Prometeo, grande conoscitore di ciò che si cela negli abissi del mare corrotto, non più limpido e imbevuto di sangue. La terra del Titano prospera al di là delle colonne d’Ercole: «E fa guerra la Grecia all’Atlantide del capitalismo. Le strade occupate». Atlante è costretto a reggere il cielo sulle spalle, colpevole e più sprovveduto di Prometeo, gli spetta un destino meno infausto, quasi nobile. Ma i morti nel mare persistono, inducono a ricordare e il poeta ne avverte il richiamo, ne esprime il crepare, li quantifica con la stessa freddezza mediatica. Non in-formazioni, ma entropia del fuoco, moto interno del Sud e della materia gettata, esegesi della luce. Perché non solo fuoco mortifero è lo specchio dell’opera, l’autore ricorda il fuoco greco. Difatti, sono due i periodi in cui l’opera nel suo insieme si bilancia, il fuoco e la luce. Se il lettore chiederà quale luce, essa è la natura in cui il poeta è inabissato, un suo estendersi, un dialogare con essa: «Ma la ferita della terra, la scottatura/ della ragione, qui i rapporti umani si danno poveri / come la terra, e la foglia conserva secoli di feroce / silenzio». Non c’è rottura fra il luogo e il poeta. Il cenno all’essere nella sua presenza e la visione turbata di Aprile è un richiamo che smobilita il segno della classica lingua in un’angoscia di vita implacabile. Non è celata la ricerca di semplicità, nella riduzione al gestuale e al soverchiare del segno. Dalla scrittura di Francesco Aprile respira la terra condannata nella sua distanza dal cielo, nella sua bassezza che obbliga al martirio e all’impotenza. L’autore sputa una dichiarazione di colpa che denuncia – se si vuole definire così – la condanna storica. Quest’ultima è rispecchiata dalla struttura stessa del luogo infuocato: un Sud condannato dal Sud, da chi lo vive, da chi lo «cancra» e lo accende di una luce scura. Si staglia un grido d’amore, l’opera lo fluidifica: «Tutto il tuo movimento di note e corde d’arpa m’incanta la carne dell’amore». Un amore nuovo, un terzo movimento dichiarato non più nelle fessure e unica ragione. È un rivelare delicato e «al corpo s’accorda l’amore sulle note d’arpa delle tue braccia, sui vetri degli occhi passano i filtri grafici del giorno e della notte». Torna nell’opera quella figurazione che sembra richiamare alla natura stessa, la genitura del poeta, la sua musa. Preghiere d’amore si alternato a litanie di morte, lasciando trapelare un rantolo di salvezza di incanto. La natura è nell’entropia del fuoco ma non sua totalità, semmai ne possiede l’essenziale luce. L’amore è l’azione poetica di Aprile, una sua costante, il simbolo della lotta contro l’oppressore terraneo. Si cerca il responsabile nell’anima, la condanna non è egoica ma – si perdoni il gioco di parole – responsabile, una costellazione di colpa, o meglio, di ricerca del colpevole.
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