La luna elettrica di Giulia Niccolai:  natura e artificio nella poesia verbo-visiva
by Alessia Bruno

 

Un’analisi della poesia Le quattro fasi della luna di Giulia Niccolai consente di individuare i diversi livelli di una fusione fra elemento naturale ed elemento artificiale: dall’artificio al naturale, dalla donna all’artificiale, dall’uomo all’innaturale, che, in realtà, si rivela parte della natura stessa. Così si amplia la categoria di natura, poiché solo la compresenza dei poli di volta in volta individuati porta l’uomo a un equilibrio. L’autrice di queste pagine, Alessia Bruno, si è laureata a Bari in Filologia moderna, con una tesi sulla poesia visiva e concreta, un ambito di ricerca estetica nel quale va ormai riconosciuto il ruolo giocato da Giulia Niccolai (1934-2021).

Parole chiave: luna elettrica, poesia verbo-visiva.

 

La poesia verbo-visiva può essere considerata tanto naturale quanto innaturale per la sua composizione grafica e verbale, che regala al lettore un’esperienza poetica del tutto differente rispetto alla poesia che potremmo definire classica. Terzine, quartine, versi liberi, versicoli e molto altro hanno accompagnato la poesia italiana nel corso dei secoli, fino ad arrivare alle sperimentazioni grafiche della poesia visiva e concreta, che si sviluppa in Italia a partire dagli anni Sessanta. Questi filoni della poesia contemporanea differiscono da quella precedente poiché si avvalgono di materiali tangibili, concreti, provenienti dalla comunicazione di massa, al fine di mettere in luce le criticità del modo in cui le informazioni vengono trasmesse. I poeti verbo-visivi, infatti, utilizzano la tecnica del collage per creare una «poesia-oggetto», ritagliando pezzi di giornali, di rotocalchi e altro per formare una poesia rivoluzionaria, che appare, però, innaturale ai nostri occhi, dove parole e immagini s’intrecciano[1]. Differendo dalla poesia tradizionale, la poesia visiva viene percepita quasi come una non-poesia, e nella sua forma più radicale, la poesia concreta, trasforma, isola, ripete, taglia e combina la forma fisica della singola lettera o di una o più parole, cosicché il grafema sia il vero protagonista dell’opera[2]. In tal modo le modalità proprie del linguaggio di massa vengono utilizzate come rimprovero nei confronti di questa stessa cultura e la poesia verbo-visiva mostra la banalità della parola immessa nel flusso della comunicazione ordinaria[3]. Che siano immagini, frasi o lettere ritagliate, incollate, realizzate appositamente e non, la poesia visiva quanto quella concreta sembrerebbe operare uno ‘snaturamento’ poetico, perché tradisce la presunta naturalità e spontaneità del linguaggio, accentuando la sua dipendenza dalle dinamiche più artificiali e intenzionali, come le forme della comunicazione mediatico-pubblicitaria e gli effetti grafici. Si passa, così, da una poesia autografa o scritta a macchina a una poesia costruita tramite gli oggetti, così da evidenziare ancor di più la migrazione degli uomini verso di essi, quindi verso l’innaturale, verso una poesia «oggettofila» e «oggettotropica»[4]. Dunque non è più la sfera artificiale (né quella industriale, né quella artistica) a imitare la natura, ma è quest’ultima a vivere nell’aspettativa di «artificializzarsi»[5]; pertanto non possiamo far a meno di notare quanto ci stiamo avvicinando all’«identificazione uomo-oggetto», anche in conseguenza di molteplici dispositivi utilizzati per migliorare la qualità della nostra vita (parrucche, dentiere, apparecchi medicali, protesi ortopediche, bypass cardiaci e molto altro)[6], ma soprattutto per la progressiva e inarrestabile alterazione del paesaggio con materiali di origine industriale; ciò conduce ad avvertire come più desiderabile il fenomeno naturale che emula quello artificiale[7], perché è questo il mondo che conosciamo e stiamo costruendo e decostruendo allo stesso tempo[8]. Sembra che il destino della natura sia quello di un’integrazione con l’artificiale e per questo l’«oggettualizzazione» (come Gillo Dorfles definisce il rapporto uomo-natura) è il processo intorno al quale costruire una possibile critica del mondo contemporaneo. Occorre non cessare di domandarsi cosa possa essere considerato naturale e cosa artificiale, poiché viviamo in una società in cui questi due elementi tendono a identificarsi in uno solo; ed è esattamente quello che fa la poesia verbo-visiva, che intreccia la naturalità della poesia, cioè ciò che nasce dalla mente dell’autore, con i prodotti della società di massa, prodotti artificiali dunque, ma con un intento di denuncia e di sollecitazione della coscienza critica del pubblico.

Queste brevissime premesse sulla poesia verbo-visiva e sul concetto di naturale e artificiale non ambiscono certo a esaurire una tematica di grande complessità filosofica e scientifica, ma vogliono solo offrirsi come un punto di partenza per seguire il lavoro poetico che su questo argomento ha condotto Giulia Niccolai (1934-2021), fotografa, ancor prima che poetessa visiva, accostatasi alle posizioni della Neoavanguardia e in particolare al Gruppo 63, sebbene in modo non ufficiale. Esordì col romanzo intitolato Il grande angolo (1966), per poi dedicarsi insieme ad Adriano Spatola alla rivista poetica «Tam Tam» e alle Edizioni Geiger, create da Spatola e dai suoi fratelli nel 1967. Per le Edizioni Geiger Giulia Niccolai scriverà le sue prime opere verbo-visive: Humpty Dumpty (1969)[9], il libro illustrato Greenwich (1971, contenente sei disegni di Giosetta Fioroni e una prefazione di Giorgio Manganelli) e Poema & Oggetto (1974)[10]. Quest’ultimo libro contiene un’opera visiva di estrema importanza per il tema di queste pagine: ne Le quattro fasi della luna l’artificio è il modello da imitare, non la natura, l’uomo insegue gli oggetti che lui stesso ha prodotto, a discapito degli elementi naturali. L’uomo, infatti, ha ‘artificializzato’ ogni processo naturale, partendo dalla fecondazione assistita per le donne, passando per gli interventi botanici ai fini di creare nuovi alimenti e nuove piante, fino ad arrivare a trasformare i raggi solari e il vento in energia. Ciò fa sentire l’essere umano padrone inarrestabile di ogni elemento naturale subordinato al suo sfruttamento, eliminando progressivamente la capacità di distinguere fra naturale e innaturale. Attraverso un opposto e paradossale processo di naturalizzazione dell’artificiale, si può arrivare alla consapevolezza che la natura incontaminata e selvaggia (anteriore alla civilizzazione) è perduta per sempre[11], dato che il nostro environment è stato già ampiamento modificato dall’avvento della macchina, degli oggetti industriali, della globalizzazione e dalla stessa scienza, come effetto collaterale e inevitabile del progresso finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita[12].

Tutta la raccolta Poema & Oggetto vede una contaminazione fra parola e oggetti che trasformano la superficie ‘naturale’ (cioè tradizionale) della pagina in uno spazio tridimensionale, poiché vi si innestano ‘artificiosamente’ aghi, spilli, bottoni e altri materiali, con tecniche di incastro, incollaggio e cucitura[13]. Inoltre, non possiamo escludere una possibile provocazione da parte della Niccolai verso l’universo femminile di quegli anni, in quanto associa poesie visive che riprendono lavori prettamente femminili, come l’arte del cucito e del ricamo, a poesie visive che trattano, invece, la scrittura di un’opera letteraria, rimandando inevitabilmente al lavoro dello scrittore, considerato ancora un lavoro prevalentemente maschile. La Niccolai in Poema & Oggetto ha voluto creare una rete di pagine collegate l’una a all’altra in una sorta di racconto ricco di allusioni[14] che portano ad analizzare non la frase compiuta, ma l’atto creativo del pensiero[15], determinando così il rapporto tra l’elemento materiale e la parola che illumina il momento in cui la mente si svincola dai significati e dimostra l’indipendenza da essi, lasciandosi trascinare nell’immediatezza dell’immagine che allo stesso tempo porta a significati complessi e profondi[16], differenti per ogni lettore. La capacità di raccontare tramite la poesia verbo-visiva si concretizza maggiormente proprio nella su ricordata poesia intitolata Le quattro fasi della luna, in cui vediamo il disegno di una lampadina che rappresenta la luna snodarsi in ben quattro pagine, quante sono le sue fasi principali: si sviluppa per quarti, s’illumina e si oscura[17]. L’atto stesso di girare la pagina mentre cerchiamo di decifrare la poesia è il fattore materiale e concreto essenziale per quest’opera. L’immagine, inoltre, ci fa comprendere come la lampadina è la luna, l’oggetto è la natura, non è una sua riproduzione. L’uomo vedrà una lampadina che assomiglia alla luna o una luna trasformata in lampadina? Sarà l’artificio a tendere verso la natura o il contrario? È curioso che la Niccolai impieghi solo per quest’opera più pagine, probabilmente per sottolineare sia la narratività della sua poesia, sia l’artificio che ormai domina l’uomo. Di certo, la lampadina è un oggetto industriale, artificiale, che come tutti gli altri ha un rapido consumo, cambia forma e colori in base alle mode e ai fattori concorrenziali che caratterizzano il mercato[18], in contrasto con la luna che, invece, è un elemento naturale, mutabile e raggiungibile, sì (con lo sbarco sulla luna del 21 luglio 1969), ma ancora non completamente assoggettato all’intervento dell’uomo. Tramite l’allusione alle fasi lunari, Niccolai suggerisce il rinnovarsi della marginalizzazione della donna anche all’interno della società industriale avanzata e, più in generale, la fine del mito di una natura inattingibile: la luna, al contrario, diventa un punto dello spazio di cui si conoscono le coordinate e non è più oggetto di sogni, fantasie, immaginazioni fiabesche, come per duemila anni la letteratura di tutto il mondo aveva saputo raccontare; anche la luna viene mercificata e sottomessa alla volontà dell’uomo.

Sul fronte del rapporto luna-donna, va ricordato che in letteratura, nelle arti e nelle credenze popolari esso rappresentava di fatto la ciclicità della donna e della natura stessa; ma nella luna che si limita a riflettere la luce solare si insinuava il valore minoritario della donna che può solo dipendere dall’uomo, il quale la ‘illumina’ e la sostiene. Si credeva, inoltre, che le maghe e le streghe (dunque rappresentazioni femminili, e non maschili, del maligno) compissero i loro rituali alla luce della luna per unirsi al diavolo; anche il carattere ‘lunatico’, volubile, incostante e misterioso delle donne è stato per secoli spiegato in relazione ai movimenti del satellite[19]. E così come la luna riflette la luce del sole, la natura diventa riflesso dell’artificiale ne Le quattro fasi della luna, poiché la luna rappresenta non solo la donna che viene fagocitata e assoggettata alla volontà dell’uomo, ma anche la natura che viene oscurata, uccisa dagli oggetti industriali. Nell’opera abbiamo la sensazione che il rapporto sia invertito, che la luna sia l’artefatto e la lampadina sia l’elemento naturale. La lampadina, infatti, viene disegnata attentamente e vi si può riconoscere l’immagine lunare solo tramite un gioco di linee e di colori, che rappresentano le fasi lunari[20]. In questo contesto possiamo ben spendere la figura retorica teorizzata da Oldani, Langella e i loro sodali del ‘Realismo terminale’, ovvero la «similitudine rovesciata»[21], in quanto qualcuno guardando quest’opera penserà che la luna brilli come una lampadina, non il contrario; la natura non è più il termine di paragone per descrivere una realtà tecnologica e meccanica, in quanto il minimo comune denominatore è il mondo «oggettotropico», creato dall’uomo. Pertanto, il paradigma della conoscenza cambia totalmente e la natura viene messa da parte[22]. Nella nostra società, come in quella di Giulia Niccolai, l’elemento naturale viene fagocitato da quello artificiale e l’uomo stesso tende a esso nella sua quotidianità. Come? Chiedendo alla natura di assomigliare all’artificiale, così come Niccolai chiede provocatoriamente alla luna di assumere le fattezze di una lampadina, perché è l’unica lingua che l’uomo postmoderno conosce e accoglie. Identificando la luna con un oggetto prodotto dall’uomo, non fa altro che ripetere (variandola sapientemente) la richiesta con cui uno dei primi (anti)eroi del romanzo decadente inaugura la postmodernità: Des Esseintes, il protagonista di A ritroso di Joris-Karl Huysmans, durante la sua vita aveva amato l’artificio che tendeva alla natura e ammirava gli artigiani che sapevano ricreare l’elemento naturale partendo da prodotti artificiali, così un giorno chiese dei fiori finti che somigliassero a dei fiori veri. Tuttavia, stanco dei fiori fittizi che imitavano la realtà, decise di procurarsi dei fiori naturali che imitassero i falsi[23], perché, come lui stesso sottolineava, la natura esiste, ma l’uomo la modella e la dipinge come gli pare[24]. Si conferma ciò che Achille Campanile scriveva nel Trattato delle barzellette: «i fiori veri» sono «così belli che sembrano finti»[25], dunque nell’immaginario collettivo pensiamo che qualcosa è ben riuscito se sembra finto, se rientra nel mondo artificiale[26]. Ed è questo che Niccolai ci rammenta con tale poesia: la natura deve seguire l’evoluzione umana, deve accompagnarla e piegarsi a essa. La luna dev’essere la lampadina, l’oggetto, e deve tendere all’artificio per la stessa tendenza che abbiamo a volere del mascara effetto ciglia finte, una pelliccia vera che sembri sintetica o un nuovo naso, seno o labbra, grazie alla chirurgia estetica, che corregge la natura in base ai nostri canoni di bellezza[27]. Se quella di Niccolai è un’opera che vuole anche criticare il ruolo che la società attribuisce alle donne, allora non sarà azzardato affermare che la luna rappresenta il corpo femminile tout court, o meglio la funzione che il corpo della donna ci si aspetta che abbia in questa società. Un corpo che dev’essere corretto delle imperfezioni per diventare un corpo impeccabile secondo i canoni della moda, un corpo alla mercè degli standard maschilisti che il mercato impone, un corpo che deve dare la vita, ma non può provare piacere, un corpo sempre più snaturato e sempre più artificiale. La donna deve inevitabilmente essere o diventare come la luna: volubile (deve cambiare aspetto, abiti, capelli, non solo per le copertine dei giornali, ma anche nella sua quotidianità), perfetta (ma solo se osservata da lontano o sui giornali o nelle pubblicità televisive, perché come la luna anche la donna ha i crateri, le imperfezioni, che rendono la sua superficie imperfetta), luminosa (ma solo se illuminata dall’uomo: è lui a decide di accenderla o di oscurarla in un cono d’ombra), fatale (se non controllata può ottenere le stesse cose degli uomini e in una società in cui la cultura è ancora prettamente maschilista questo non può accadere) e irraggiungibile (i canoni che la bellezza femminile deve rispettare non sono naturali, donati quindi dalla natura, ma devono essere decisi e controllati dall’uomo). La bellezza femminile fissata nell’immaginario collettivo contemporaneo è piuttosto una merce acquistabile e consumabile e Giulia Niccolai, prosaicizzando l’irraggiungibilità della luna nella sua fruibilità tecnologica, mostra l’altro volto della società di massa: la faccia nascosta della luna, sarebbe il caso di dire.

Della mercificazione e della ‘tecnificazione’ del corpo femminile si sono occupate anche altre autrici verbo-visive che hanno voluto sottolineare come i corpi proposti nelle pubblicità non fossero altro che un ideale imposto dalla società, soprattutto attraverso l’iconografia pubblicitaria. In realtà, nei contesti pubblicitari non si manca di ricordare alle donne a quali fatiche quotidiane esse sono destinate (soprattutto fino a una decina di anni fa)[28]. Non a caso la prima rassegna retrospettiva dedicata a una delle più importanti artiste visive, Mirella Bentivoglio, è stata intitolata L’altra faccia della luna; grazie a tale mostra, infatti, è stato possibile conoscere il punto di vista dell’artista sulle questioni di genere che almeno in buona parte vedono ancora la donna come madre, disoccupata o lavoratrice sottopagata e, soprattutto, corpo fertile da sfruttare[29]. Probabilmente il titolo stesso della mostra utilizza l’analogia con la luna perché è l’astro che da sempre viene associato alla femminilità e, inoltre, la luna è costretta a mostrare alla Terra solo una sua faccia: dunque solo una parte della sua verità. Sia Giulia Niccolai che Mirella Bentivoglio, grazie alla versatilità della poesia visiva e alla sua spontanea vocazione civile, hanno lottato affinché l’immagine della donna casalinga venisse superata: non a caso abbiamo visto che in Poema & Oggetto Niccolai adoperava oggetti tipicamente rappresentativi dello stereotipo donna-casalinga.

Il messaggio che Giulia Niccolai vuole trasmettere, dunque, ne Le quattro fasi della luna si sviluppa su diversi piani, a mio avviso. Ciò che salta immediatamente all’occhio è la lampadina che rappresenta la luna, quindi il mondo artificiale che ingloba il mondo naturale (pertanto, l’uomo che segue l’artificio e non più la natura). D’altro canto, però, questa poesia si sviluppa su un piano metaforico ben più ampio, in quanto l’astro rappresenta la donna (il suo carattere, il corpo, la sua ciclicità), che vive nel riflesso dell’uomo, del resto come la natura negli ultimi decenni. Ma, se ci soffermiamo a notare l’intera opera in cui è inserita tale poesia notiamo un ulteriore piano di analisi, ossia una dichiarazione di guerra nei confronti della società di massa, non solo perché l’umanità è ormai vittima degli oggetti che hanno usurpato la natura, ma perché la donna, in particolare, è vittima del ruolo che la società decide di darle: quello di casalinga, sarta, madre, moglie, e non anche di artista, scrittrice, poetessa.

Per certi versi, però, la luna elettrica di Giulia Niccolai (possiamo chiamarla così, riferendoci a uno scritto di Marinetti, di cui si parlerà più avanti), forse è anche un inno contro la scissione natura-artificio, poiché, a ben vedere, ella decide di fondere la luna con la lampadina, non di oscurarla o ucciderla. Bisogna tener conto del fatto che la poesia verbo-visiva nasce dal conflitto dell’uomo, della sua arte, con i mezzi di comunicazione di massa, e ponendo in risalto l’artificiosità dell’arte stessa, prodotto dell’uomo che, invece, voleva imitare la natura, questi artisti non fanno altro che scontrarsi con la volontà umana di fondersi con la tecnologia, anch’essa diventata dovuta, scontata e, per questo, naturale nel nostro mondo. Ed è proprio la tecnologia, la macchina, l’artificio ad aver prima alienato l’uomo per poi indurlo a diventare esso stesso un elemento innaturale, o meglio costituito anch’esso da parti artificiali, senza le quali non saprebbe come sopravvivere. Allo stesso modo la luna di Giulia Niccolai non potrebbe accendersi se l’uomo non decidesse di premere l’interruttore: sono gli oggetti ad avere il dominio nella nostra società, noi ci illudiamo di poterli ancora controllare, quando in realtà sono loro che controllano le nostre vite, i nostri consumi, il nostro modo di rapportarci; l’uomo non può far a meno di accendere la luce della lampadina, perché non è più in grado di vivere solo con la luce naturale, che sia del sole o della luna. Se non c’è la luna a fare luce durante la notte, ci sarà una lampadina che illuminerà la via. Tuttavia, il satellite oscurato, sostituito, inglobato dalla lampadina, come nel nostro caso, a seconda delle interpretazioni, trova un antecedente in un’opera di Giacomo Balla, intitolata Lampada ad arco (1911, ma datata dall’autore 1909)[30]. Vi sono delle analogie non indifferenti fra questo quadro e l’opera di Niccolai, sebbene si tratti di due opere appartenenti a due stagioni storiche ben distinte. Nel celeberrimo quadro di Balla, infatti, troviamo al centro una lampadina sorretta da una struttura metallica che si protrae verso l’altro, mentre sulla destra in alto troviamo una falce di luna che ha lo stesso colore della lampadina, ma la lampada brilla in modo più intenso e la sua luce si dirama in una serie di colori che coprono la luna, mettendola in secondo piano, riducendola a un semplice profilo. La luce viene rappresentata tramite la scomposizione dei colori ed è proprio questo alone di colori che oscurerà la luna portando così il concetto di Balla in superficie, cioè la superiorità della luce elettrica rispetto alla luce naturale (della luna)[31]. In questo modo, nell’opera di Giulia Niccolai il chiarore della luna viene fulminato, quasi ucciso. A queste parole non possiamo fare a meno di ricordare il grido di Filippo Tommaso Marinetti «Uccidiamo il chiaro di luna!», titolo del manifesto futurista che incita ancora una volta a mettere da parte la tradizione (in questo caso la tradizione romantica e idilliaca che la luna porta con sé). Marinetti sollecita a uccidere l’ideale idilliaco del paesaggio naturale e sentimentale della natura, per lasciare ovviamente spazio all’innovazione, alla luce elettrica, che avrebbe portato nuovi sentimenti e nuovi paesaggi ricchi di macchine (intese come costruzioni dell’uomo). I futuristi, «questi pazzi», come lo stesso Marinetti li definisce all’inizio del manifesto, uccidono la luna con il bagliore di «trecento lune elettriche»[32], con aerei e mitragliatrici. L’atto che cancella la luna, però, deriva dal bagliore di ciò che può sostituirla, quindi dalle «lune elettriche», dalle lampadine, dalle torce, dagli oggetti che, se uniti, risplendono più intensamente fino ad annientarla. Allo stesso modo Balla uccide la luna, anzi la natura che da sola ormai non può più soddisfare le necessità dell’uomo, ma deve unirsi all’artificio per sopravvivere, poiché l’alternativa è scomparire sotto il bagliore dell’innovazione; così anche la Niccolai propone la sua luna elettrica, una luna che attinge dall’elettricità per prendere vita, come la lampadina. Quest’ultima è la nuova luna elettrica che mette da parte la natura, per dare spazio ai prodotti dell’uomo, così come l’uomo mette da parte la donna, chiedendolo di asservire al ruolo che la società gli impone. Marinetti, dunque, aveva utilizzato la lampadina come oggetto che non avrebbe inglobato o cercato una fusione con la luna, come sembra emergere nell’opera della Niccolai, bensì ne avrebbe preso definitivamente il posto. Fatte tali considerazioni, notiamo che l’elemento naturale necessita di un corrispettivo nell’artificialità per essere riconosciuto, poiché per l’uomo contemporaneo è doveroso avere tutto sotto controllo, tutto dev’essere tangibile, visibile e concreto per poter essere manipolato[33] (anche la poesia).

Il progressivo allontanamento dell’uomo dalla natura porta gli uomini a una duplice via: accettare la dolorosa separazione da essa, senza adoperarsi affinché ciò possa cambiare, o continuare a cercare quello stato naturale proprio dell’uomo, con la consapevolezza di non essere più in grado di vivere ‘naturalmente’, ma solo attraverso l’artificio. Così la luna di Giulia Niccolai si fagocita, si unisce al mondo artificiale, nell’aspettativa di guidare l’uomo con i nuovi mezzi, perpetuando nell’aspettativa che artificio e natura possano convivere. Ugualmente la Luna di Calvino (che gioca ancora una volta sul rapporto degli opposti) si allontana progressivamente e repentinamente dall’uomo, restando al contempo un punto di riferimento e di perdita. Infatti, troviamo delle analogie interessanti con il primo racconto dell’opera calviniana Le cosmicomiche, nel cui titolo si fondono i due aggettivi «cosmico» e «comico», cosicché l’elemento cosmico, ciò che per Calvino si avvicina di più all’elemento naturale e primordiale, possa essere addolcito dall’elemento comico, filtro necessario per l’uomo quando deve affrontare qualcosa più grande di lui[34]. Le illuminazioni poetiche di Calvino, unite al suo intellettualismo ci portano in un mondo fantascientifico alla rovescia, proiettando i suoi racconti non verso il futuro, ma in un passato primordiale[35]. Non dissimilmente per Giulia Niccolai l’artificio è il velo necessario per l’uomo affinché possa essere guidato in un mondo postmoderno dove la natura non è ancora pronta a uscire dal background umano, ma deve trovare un modo per sopravvivere nel futuro rarefatto e incerto che si prospetta. A dimostrazione di ciò, appunto, nel primo racconto delle Cosmicomiche, La distanza dalla Luna[36], si trova un punto in comune interessante con la poesia Le quattro fasi della luna di Niccolai, poiché questi esseri primordiali, materiali e immateriali allo stesso tempo[37], che Calvino ci propone come protagonisti del suo racconto, alla fine accettano, chi con rammarico e chi no, che la donna, Vhd Vhd, per amore del sordo, si fonda con la luna, con la natura (un elemento privo di anima, quindi inanimato):

 

 solo in quel momento ella mostrò fino a che punto il suo innamoramento per il sordo non era stato un frivolo capriccio ma un voto senza ritorno. Se quel che ora mio cugino amava era la Luna lontana, lei sarebbe rimasta lontana, sulla Luna[38].

 

Ma facciamo un passo indietro per capire meglio quanto detto. Nel primo racconto cosmicomico si narra che un tempo la luna fosse molto vicina alla Terra[39], per poi allontanarsi a causa delle maree che essa stessa provocava. I protagonisti di questo racconto sono: Qfwfq, il sordo (suo cugino), la signora Vhd Vhd e suo marito, il comandante; più volte gli esseri che Calvino ci presenta raggiungono la Luna per procurarsi il latte lunare, una specie di ricotta molto densa che si trova solo nelle crepe del satellite. Il più abile di tutti a recarsi sull’astro è il sordo, di cui è innamorata la signora Vhd Vhd. Tuttavia, l’unico oggetto di desiderio per il sordo è la Luna. La donna diventa, così, gelosa della Luna e Qfwfq del cugino, perché è innamorato di lei. Un giorno Vhd Vhd decide di salire sul satellite per poi non scendere, in modo da restare un mese con il suo amato (il tempo necessario per concludere l’intera orbita), non sapendo che lui fosse già andato via. Allora, Qfwfq sale sulla Luna in modo da restare con la donna, però, decide di lasciare l’astro nel momento in cui si trova di nuovo vicino alla Terra, perché star lontani da essa significava per lui perdere la propria identità[40]. Vhd Vhd, invece, resterà sulla luna per identificarsi, in un tentativo estremo, con l’oggetto del desiderio del sordo (estremo perché ci si rende conto che la Luna si sta separando definitivamente dalla Terra). In questo contesto la donna diventa la Luna e la Luna la donna. La doppia metamorfosi porta il «dolore per lei perduta, e i gli occhi che s’appuntavano sulla Luna, per sempre irraggiungibile[41]» e la consapevolezza che il satellite si antropomorfizza perché è la donna «che rende Luna la Luna»[42], donando un’anima a un corpo inanimato. Dunque, nell’ottica di quest’analisi, artificio e natura sembrano unirsi per un bene superiore: quello di guidare l’uomo verso un nuovo oggetto di desiderio che possa essere da lui seguito senza indugio. In Giulia Niccolai è la lampadina che smuove le maree e sembra, inizialmente, allontanare l’uomo dalla natura, quando in realtà raggiunge una perfetta compresenza con l’elemento artificiale, come accade ne La distanza della Luna, quando la donna si innerva con l’astro per formare un unico oggetto di cupidità. Appare evidente che i protagonisti di Calvino amano ancora qualcosa di ‘naturale’, come la donna-Luna, mentre i fruitori delle opere della Niccolai pensano che un oggetto artificiale possa sostitutore un elemento naturale; eppure, allo stesso tempo, non sono ancora in grado di abbandonare il romantico chiaro di luna. Così, la poetessa aggiunge, rispetto al racconto calviniano, un ulteriore binomio da seguire al già esistente donna-luna: quello di oggetto (lampadina)-natura (luna).

Tirando le somme, possiamo affermare che la poetessa sogni un’umanità ancora in grado di mantenere il controllo del proprio destino, gestendo con necessario senso critico la coesistenza tra natura e artificio, senza, d’altra parte, lasciarsi trasportare incondizionatamente dalle mitologie dell’innovazione a tutti i costi. La coesistenza di materialità e immaterialità nella poesia verbo-visiva, come affermava Pignatari, tematizza una volontà di costruire più essenziale rispetto alla stessa volontà di esprimersi[43]; la nuova forma di comunicazione, allora, è la costruzione materiale di oggetti che diano consistenza a figure di pensiero altrimenti evanescenti. L’opera letteraria, il poema, è una struttura in grado di rappresentare la realtà, senza perdere, nell’arte di Giulia Niccolai il senso del mistero, della leggerezza e della gratuità[44].

Siamo abituati ad associare l’oggetto a qualcosa che ci sia utile, lo pensiamo innanzitutto come strumento per raggiungere un fine e liberare l’oggetto da questa costruzione ideologica è complesso, e probabilmente Giulia Niccolai è riuscita a portare a termine questa missione solo in parte. Con Le quattro fasi della luna sicuramente abbiamo un oggetto che non è più solo strumento, perché tende al Poema: la lampadina, infatti, narra le fasi della luna, che non ha alcuna funzione, se non quella di illuminare l’oscurità, ma non ne ha il compito esclusivo, giacché, in sua assenza, rimarrebbe comunque la luna a guidare i passi dell’uomo.

In conclusione, mi sembra che Le quattro fasi della luna rappresentino, allo stesso tempo, un manifesto femminista e, più in generale, l’inno di un reciproco rispetto e di una necessaria complementarità fra di artificiale e naturale. L’oggetto artificiale qui ingloba la natura, non uccide il chiaro di luna, ma cerca costantemente una più matura condizione di convivenza. Niccolai non demonizza l’artificio in Poema & Oggetto, lo accoglie, lo usa, lo sfrutta per raggiungere il suo scopo, che è quello di criticare la comunicazione di massa e la società attraverso i suoi stessi figli, gli oggetti; solo in questo modo può raggiungere diversi piani interpretativi e donare al lettore un’esperienza critica, oltre che di leggerezza, nel senso calviniano del termine. L’artista offre diversi temi su cui riflettere: la natura mercificata, la donna-artificio, l’uomo promotore di una società perfettamente coerente con il mondo artificiale da lui creato, dove la natura deve necessariamente adattarsi all’artificio per sopravvivere e l’artificio rivendica la sua ovvietà, la sua naturale posizione nella società, accanto all’uomo e con la natura.

Cos’è naturale? La poesia-verbo visiva è naturale? La donna che si concede piccoli ‘ritocchi’ è naturale? Si trasformerà nel prodotto della natura e dell’artificio, sì, ma sarà pur sempre un essere umano, un essere naturale. La luna può essere sostituita, annientata dalle torce protese verso l’alto? Sì, l’inquinamento luminoso ci dimostra che possiamo oscurare molti fenomeni naturali, ma la luna è lì, non possiamo ucciderla. Ed è questo che Giulia Niccolai porta in Poema & Oggetto: l’inno dell’artificio che trova un equilibrio con ciò che gli ha permesso di esistere, la natura. Senza il paragone con qualcosa di naturale non avremmo l’artificio e adesso ciò che consideravamo artificiale si sta trasformando in naturale, ampliando così la categoria della natura. L’artificio ne Le quattro fasi della luna è la natura stessa e viceversa; non è la natura che imita l’artificio, né l’artificio che imita la natura. Quest’opera può essere considerata l’opinione velata di un’autrice visiva rispetto al mondo naturale e artificiale, che spinge l’uomo a interrogarsi su cosa sia naturale e cosa no.

[1] Poesia concreta, poesia visiva. L’Archivio Denza al Mart. Opere e documenti, a cura di M. Gazzotti, Silvana, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p. 82.

[2] Ivi, pp. 28-29.

[3] A. Tosatti, Nanni Balestrini: «Tutto in una volta», in Introduzione a Nanni Balestrini, Antologica. Poesie 1958-2010, Milano, Mondadori 2013, pp. VII-IX. Su questo punto, però, è doveroso fare un’osservazione. La poesia visiva e concreta, al contrario della poesia tradizionale, è in grado di comunicare, grazie alla sua «estrema economia espressiva», a persone che differiscono per lingua e cultura. Quanto detto è stato dedotto da: T. Spignoli, Arrigo Lora Totino, “architetto di parole”: dalle verbotetture ai cromofonemi, cit., pp. 83-97; importante è anche il catalogo della mostra Alfabeto in sogno, a cura di C. Parmiggiani, Modena 2002, dove si può leggere il saggio di A. L. Totino, Poesia concreta, p. 407 (saggio è messo a disposizione da Maurizio Spatola, nel suo catalogo online).

[4] G. Oldani, Il realismo terminale, Mursia, Milano 2010, p. 19. Questi termini si rifanno al padre del Realismo Terminale, Guido Oldani, che sottolinea la necessità della letteratura di cercare nuovi spazi e nuovi modi di comunicare a un uomo sempre più concentrato sugli oggetti, creati per servirlo, ma di cui successivamente è diventato servo.

[5] Ivi, p. 14.

[6] Ivi, p. 40.

[7] G. Dorfles, Artificio e natura, Torino, Einaudi 1979, p. 22.

[8] Le notizie di attualità riportano la costruzione del Metaverso, un nuovo spazio virtuale creato dall’uomo per smaterializzare ogni cosa, anche se stesso e i suoi prodotti.

[9] Un titolo inusuale per un’autrice italiana, eppure grazie a esso comprendiamo il modo in cui Niccolai vuole comunicare: utilizzando il plurilinguismo, oltre che il ‘plurimaterialismo’. Il titolo, inoltre, fa riferimento al carattere di Through the Looking Glass di Lewis Carroll, dove Humpty Dumpty è un personaggio tra il serio e il comico, portatore «della metafisica della Parola». In questo scritto la Niccolai riprende il linguaggio di Alice dandone un’interpretazione visiva, legata al solo contenuto che viene trasmesso attraverso giochi grafici. Le informazioni sono state reperite da: V. Fiume, Tra poesia e immagine. Giulia Niccolai e la parola-oggetto dell’invisibile, in «LEA», VIII, 2019, pp. 389-396:390; e da: A. Spatola, Verso una poesia totale, Paravia, Torino 1978, p. 46.

[10] Le informazioni bibliografiche su Giulia Niccolai possono essere consultate sul sito web: https://www.verbapicta.it/dati/autori/giulia-niccolai; oppure nei seguenti libri: Gruppo 63. L’Antologia-Critica e teoria, Bompiani, Milano 2013, p. 841; Poemi & Oggetti. Poesie complete, cura e con un’introduzione di Milli Graffi, Firenze, Le lettere 2012; un contributo consultabile, invece, è: V. Fiume, Tra poesia e immagine. Giulia Niccolai e la parola-oggetto dell’invisibile, cit., pp. 389-396:391. Consultabile anche su sito web: https://doi.org/10.13128/LEA-1824-484x-10994.

[11] G. Dorfles, Artificio e natura, Torino, Einaudi 1979, p. 27.

[12] Ivi, p. 18.

[13] V. Fiume, Tra poesia e immagine. Giulia Niccolai e la parola-oggetto dell’invisibile, cit., pp. 389-396:391-392.

[14] M. Graffi, Introduzione, in G. Niccolai, Poema & Oggetto, E-book, Edizioni Biagio Cepollaro 2005, p. 4. Aggiungo che tale e-book riproduce il testo che Giulia Niccolai pubblicò con Geiger nel 1974.

[15] Ivi, p. 5.

[16] Idem.

[17] Ivi, p. 7.

[18] G. Dorfles, Artificio e natura, cit., p. 53.

[19] In merito alle credenze e ai miti che la tradizione letteraria trasporta con sé sul rapporto luna-donna vorrei proporre dei testi letterari che mettano in primo piano le molteplici sfaccettature di questo legame, al fine di trovare altre analogie con le opere verbo-visive proposte non sola da Giulia Niccolai, ma anche da molti altri autori. La luna crescente presente nell’opera di Niccolai può essere rappresentata con l’opera di John Keats Endimione, dove la luna è simbolo di rigenerazione dei corpi morenti e del linguaggio dell’amore. La luna calante, invece, può raccontare l’opera Salomè di Oscar Wilde dove la donna fatale piega l’uomo verso il suo volere, distruggendo al contempo se stessa; nella poesia di Mary Shelley Luna calante, invece, la luna scompare dinanzi a una figura femminile avvolta nella malattia, nella follia e nella morte; questa luna sembra fare più ombra che luce. La luna piena quella dei sabba delle streghe e degli incantesimi la troviamo nella novella Male di luna (1913) di Pirandello, una storia di licantropia in cui il maleficio lunare è allegoria di un destino pieno di solitudine e follia; dove la luna influenza alcune situazioni con la sua presenza.

[20] È possibile consultare l’intera opera al seguente indirizzo web: http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/NiccTes.pdf.

[21] Questo termine è proprio del Realismo Terminale e per approfondirne il significato rimando a: G. Langella, Prime notizie sul realismo terminale, in «Oblio. Osservatorio Bibliografico della letteratura Italiana Otto-novecentesca», X, 38-39, autunno 2020, p. 63. Consiglio anche la lettura della rivista: Cfr., «incroci», XVIII, 36, luglio-dicembre, 2017.

[22] Idem. Inoltre, è possibile approfondire l’argomento leggendo: G. Langella, I servi padroni. La tirannia degli oggetti nella civiltà tecnologica, in «La Modernità Letteraria», VII, 7, 2014, pp. 27-52.

[23] J.K. Huysmans, A ritroso, Bur, Milano 2018, p. 117.

[24] Ivi, p. 123

[25] D. M. Pegorari, Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità, Manni, Lecce 2018, pp. 123-124. Si consiglia anche la lettura di: A. Campanile, Trattato delle barzellette, Rizzoli, Milano 1961.

[26] Ivi, p. 125.

[27] Ivi, pp. 126-127.

[28] In merito al tema del femminismo proposto nelle opere verbo-visive ricordiamo Mirella Bentivoglio, Ketty La Rocca e Lucia Marcucci che tramite le loro opere hanno voluto denunciare la società di massa in cui la donna assumeva un ruolo mercificato, quello di donna-oggetto. Per saperne di più in merito a queste artiste si possono consultare i seguenti siti web: https://mirellabentivoglio.it/mirella-bentivoglio/; https://www.treccani.it/enciclo-pedia/patrizia-vicinelli_(Dizionario-Biografico)/; https://luciamarcucci.com/biografia/. I testi di riferimento, invece, in cui trovare le informazioni sono: F. Fastelli, Lucia Marcucci, maestra verbo-visiva, «LEA», IV, 2015, pp. 359-371; Gruppo 63. L’Antologia-Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Testo&Immagine, Torino 2003; Ciotti F., Le sperimentazioni verbo-visive nella neoavanguardia italiana degli anni ’60 in «Avanguardia», VII, 21.

[29] Le seguenti informazioni sono state reperite dal sito web: https://www.raicultura.it/arte/eventi/Mirella-Bentivoglio-Laltra-faccia-della-luna-59766c53-40b1-4846-ab31-fb49842a8ea5.html. Inoltre, alcune opere fondamentali di Mirella Bentivoglio dimostrano gli stereotipi della società sulle donne: Diva/no (1971), dove con un gioco di parole e di immagini la donna viene definita come nullafacente perché resta in casa, sul divano, ma allo stesso tempo non è una diva come alcune pubblicità fanno credere; Lapide alla casalinga (1974) e La cancellata (1977-1988).

[30] L’opera in questione si trova presso New York, Museum of Modern Art. L’immagine è possibile consultarla al seguente indirizzo web: https://www.moma.org/collection/works/78382?artist_id=311&locale=it&page=1&sov_referrer=artist.

[31]Cfr., F. Benzi, Balla, in «Dossier d’art», Giunti Editore, Firenze 2002.

[32] F. T. Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna!, Edizioni Futuriste di poesia, Milano 1911, p. 16.

[33] C. Verbaro, Al confine del post-umano. Visione e poesia nel Realismo Terminale, in «Oblio. Osservatorio Bibliografico della letteratura Italiana Otto-novecentesca», cit., p.103.

[34] I. Calvino, Presentazione, in Id., Le cosmicomiche, Mondadori, Milano 2022, p. V.

[35] E. Montale, Postfazione, in I. Calvino, Le cosmicomiche, cit., pp. 143-144.

[36] I. Calvino, Le cosmicomiche, cit., pp. 3-18. Inoltre, questo primo racconto è stato composto da Calvino tra la primavera e l’estate del 1964; a novembre il testo è stato anticipato sul «Caffè politico e letterario», per poi confluire nelle Cosmicomiche del 1965. Nel «Caffè politico e letterario» sono anticipate anche altre tre cosmicomiche: Sul far del giorno, Un segno nello spazio e Tutto in un punto. Pertanto, è consigliabile consultare: I. Calvino, La distanza della Luna, «Il Caffè politico e letterario», XII, novembre 1964, pp. 3-14; L. Mazzocchi, «Occhi al cielo». Note sulla luna nel secondo Calvino, in «Letteratura e Scienze», Atti delle sessioni parallele del XXIII Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti), Pisa, 12-14 settembre 2019, a cura di A. Casadei, F. Fedi, A. Nacinovich, A. Torre, Adi editore, Roma 2021, p. 4.

[37] E. Montale, Postfazione, in I. Calvino, Le cosmicomiche, cit., p. 144. Montale definisce questi esseri materiali e immateriali in riferimento al racconto Tutto in un punto, dove tutti gli esseri viventi coincidevano in un unico punto pur essendo differenziati tra di loro.

[38] I. Calvino, Le cosmicomiche, cit., p. 17.

[39] La cosmicomica si ispira alla teoria della recessione della luna di George H. Darwin, figlio di Charles Darwin.

[40] I. Calvino, Le cosmicomiche, cit., p. 15. Vorrei evidenziare quanto questo sia paradossale, poiché a parlare di identità perduta è un essere vivente senza nome e che quindi, ai nostri occhi, ha un’identità che non si concretizza a pieno.

[41] Ivi, p. 18.

[42] Ibid.

[43] A. Spatola, Verso una poesia totale, cit., p. 77.

[44] Il tema della leggerezza ci riporta sempre a Calvino, ma questa non è la sede adatta per parlarne. È però possibile consultare alcuni volumi su questo argomento: I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2016, pp. 14-21; D. M. Pegorari, Letteratura liquida, cit., pp. 57-58. In particolare, in quest’ultimo scritto sulla base del concetto di leggerezza di Calvino vengono messi in evidenza i tre principali obiettivi che l’intellettuale del XXI secolo dove perseguire per affrontare la letteratura con leggerezza e non con frivolezza. Lo scrittore dove misurarsi con un significato che necessitava della stessa consistenza del testo scritto (dunque, un significato concreto, tangibile, come nella poesia verbo-visiva); si dove far fronte all’analisi di qualcosa di impercettibile e astratto, come i pensieri che assillano la mente; e lo scrittore dove essere in grado di proporre immagini sconvolgenti per trarne il loro significato paradigmatico (anche questo può riportarci alla poesia visiva e concreta).

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