Una lingua a venire (sui “Paesaggi asemici” di Enzo Patti)
by Vito Bianco

 

Si propone nel segno, giocosamente asemantico, del paradosso questa mostra di Enzo Patti accolta nel nuovo spazio dedicato ai libri – e alla memoria dei libri – di Piero Onorato, un uomo che sta dedicando la vita al più misterioso e longevo oggetto culturale che l’umanità abbia inventato.

  L’esposizione si intitola infatti Non ho parole; lo scrigno che Piero ha sapientemente costruito si chiama La stanza di carta, ossia “di libri”: un cortocircuito, una provocazione cercata? È possibile. Ma è anche possibile che il caso abbia prodotto, come talvolta accade, un senso, un’illuminazione. Intanto:  vuol dire che le parole non ci sono adesso, in questo  ulteriore passo della sua ricerca sui segni della scrittura, sulla quasi naturale bellezza del segno? Che sono scomparse? Certo che no.

  Allora forse l’arguto titolo che Enzo ha voluto dare a questa meditata selezione allude non a un’assenza, ma a una mancanza, a una insufficienza. (E poi, certo, al fatto che quelle che vediamo non sono parole, bensì grafemi allo “stato puro” che stanno lì a significare la scrittura, il gesto della mano che scrive).

  Insomma, possiamo dire che non ci  sono mai abbastanza parole per dirlo, e anche quando pensiamo di aver detto tutto, e di averlo detto bene, sentiamo, un momento dopo, che si poteva dire meglio: con più precisione, con più esattezza. Che la parola giusta ci è venuta meno proprio quando ci serviva. 

  La pittura visionaria di Enzo Patti, che da molti anni mette in scena l’antica magia della scrittura, torna ogni volta a ricordarci quanta potenza inespressa sia contenuta nella lingua, sempre sul punto di farsi atto e quindi nuova parola, spostando  in avanti il mondo e la sua comprensione, poiché continua a essere vero che, come scriveva Wittgenstein più di un secolo fa, l’ampiezza del nostro mondo equivale a quella della lingua che parliamo e scriviamo.

  Segni enigmatici, pareti di carta fitte di scrittura futura o antichissima; uomini piccoli e lontani che passeggiano sulle righe come passeggeranno dopo di noi il giorno della redenzione compiuta; segni-impronte in mostra che attraversano le pareti di una reale e ideale “stanza di carta” che contiene oggetti dotati di senso; l’incanto e il piacere raro di “scendere nell’intraducibile, provarne la scossa senza mai attutirla” (R. Barthes), accanto alla familiare solidità di una lingua chiara che articola il pensiero e l’emozione: in questa vicinanza, in questo silenzio  in cui si sente il “brusio” di una lingua a venire (quella sempre in potenza della poesia) è possibile – guardando e poi chiudendo gli occhi – immaginare che i minuscoli segni neri sulla carta e sul legno che la simula, prendano vita sonora e diventino per noi le parole che non c’erano e che ci mancavano; e che senza nemmeno saperlo stavamo cercando.

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