POETA NON FACIT SALTUS
by Vittore Baroni
per Adriano Accattino (settembre 2013)
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Il tentativo di forzare la gabbia del linguaggio, di andare oltre la parola, di comunicare in nuove forme letterarie o para-letterarie svincolate dagli “ostacoli” costituiti da vizi lessicali incancreniti e sfibrate assuefazioni, conta parecchi precedenti illustri. Restando nell’ambito della letteratura occidentale, casi celebri quali la “coda del topo” nell’Alice di Lewis Carroll o le pagine marmorizzate e sbiancate nel Tristram Shandy di Thomas Laurence Sterne precedono le fertili ricerche e sperimentazioni verbo-visuali che negli anni Sessanta e Settanta hanno aperto una porta su inesplorati universi poetici e narrativi inter/mixed/multi-media. Nella consapevolezza che – come sosteneva il romanziere William S. Burroughs – “la scrittura si trova vent’anni in ritardo rispetto alle arti visive”.
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Con l’amico Brion Gysin, Burroughs invitava a “cancellare la parola”, a tagliarla e piegarla su se stessa, ad usare il magnetofono per compiere con collage verbali/sonori veri e propri riti magici in chiave tecnologica, sondando come forme legittime d’ispirazione i sogni e il “volo lucido” delle esperienze extra-corporee (O.B.E.). Pochi si sono spinti oltre, ed anzi quella porta aperta su nuovi approcci linguistici oltre mezzo secolo fa si è col tempo quasi del tutto richiusa. La letteratura in bilico tra diversi media non smuove, oggi come ieri, grossi capitali. L’uomo contemporaneo, del resto, non si è evoluto molto dallo stato barbarico e guerrafondaio dei secoli trascorsi, è comprensibile quindi che anche le sue capacità di decodifica non vadano oltre i “misteri” banalizzati del Don Brown di turno. La versione accreditata dai libri di testo e dagli stessi addetti ai lavori è che le ricerche di scrittura sperimentale siano da ascrivere ad un passato recente che ha in larga misura fallito nell’obiettivo di rinnovarsi. Di conseguenza, tutto gira (soprattutto sul web) e tutto è fermo, dal tempo dei cut-up e dei zeroglifici. La convenzionalità e la norma prevalgono ancora, poeta non facit saltus.
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Con Lucrezio occorre convenire che la (natura della) scrittura lineare non pare in grado di compiere il grande balzo oltre la barriera della parola, senza divenire totalmente altro (fumetto, fotoromanzo, graffito, design, illustrazione, ecc.), o senza trasformarsi in crittografia “asemica” del tutto indecifrabile, in lingua immaginaria opaca e orfana di grammatica. Il Lettrismo, come l’Esperanto, rimane una desueta curiosità d’altri tempi. Nel cinema, lo scavalcamento della parola avveniva a monte, nell’epoca eroica del muto, quando giochi di ombre e neri occhi sgranati raccontavano più storie di un denso copione di Oliveira o Tarkowskij. I Friedrich W. Murnau e gli Josef von Sternberg del grande schermo codificavano un puro linguaggio visuale rimasto insuperato, al cui paragone pare debole artificio perfino la “poetica” camera a mano di un Lars Von Trier o di un Terrence Malick. Non sempre una specifica forma espressiva progredisce nel tempo. A volte raggiunge un vertice per poi subire uno stallo, un’involuzione.
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Le lettere dell’alfabeto usate come colori di una tavolozza per dipingere astratte visioni tradiscono, negli effetti speciali tutti diversi e tutti uguali (complice Photoshop) della nuova VisPo (Visual Poetry), la mancanza di un’anima realmente contemporanea. Meglio fare riferimento allora alle “sacre scritture”, immergersi ancora nelle acque rigeneranti del fiume Finnegans Wake, nelle romantiche tortuosità di A Humument, nelle intuizioni tipografiche fresche di stampa dell’Anthology of Concrete Poetry di Emmett Williams, nei tanti granelli di sale seminati dalle Avanguardie storiche. In una società satura di dati e informazioni come quella attuale, dove tutti sono allo stesso tempo autori e fruitori (per ben più di 15 minuti), dove ogni possibile linguaggio e meta-linguaggio viene quotidianamente logorato su milioni di nuove pagine internet, pensare oltre la parola vuol dire poi anche recuperare rigeneranti zone di silenzio, quiete pagine bianche per nuovi equi/libr(i) verbo-sostenibili.
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Altrimenti, le stringhe di parole con cui comunque a tutti noi piace giocare, potremmo negarle al consumo sottraendole ad una mera lettura cosciente. Situazioni emergenziali richiedono soluzioni inusitate e inafferrabili. Ad esempio, micro-poemi visuali non più grandi di un’unghia applicati per ogni dove, su muri e scaffali di supermercato e vecchie banconote, sul vetro delle auto e degli uffici comunali. Opere indossate su occhiali e orecchini, tatuate dietro il collo, lasciate sotto un sasso e dietro la copertina di un libro. E poi versi sussurrati a volume infinitesimale all’orecchio di sconosciuti alla fermate dell’autobus, diffusi via etere ad un livello semi-percepibile, messi in streaming occulto per un detournement virale dei social network. Incidere sull’asta dell’ostacolo la segreta formula che l’esperto saltatore potrà intravedere per una frazione di secondo. Da subliminale a sublime, il passo è breve.
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