Milo De Angelis, Incontri e agguati, Cles, Mondadori, 2015
by Francesco Aprile
2015/06/08

 

Lo scenario della periferia milanese appare smembrato, lacerato, ricostruito in guisa d’apparizione, di una imminenza di senso dispersa. Ci sono un vuoto, con la dimensione della morte – fatto naturale e accettato – e una disomogeneità dello scenario che è al contempo urbano, metropolitano, ma anche umano. È il “materiale” umano che detta la cadenza di questa operazione. Incontri e agguati, ultima opera di Milo De Angelis, edita da Mondadori nella collana Lo Specchio. I poeti del nostro tempo, (Cles, 2015), suddivisa in tre parti – Guerra di trincea, Incontri e agguati, Alta sorveglianza – vede la parola muoversi lungo un ciclo di smembramenti orfico-dionisiaci – propri di quel Dioniso Orfico che è al contempo ultimo degli dei eppure neos, nuovo, teso al rinnovamento – applicati alla realtà della periferia milanese. Questa è smembrata, e quasi rievoca certi scenari tipici di Sironi eppure diversi, che nello smembrarsi della tragicità proposta dal poeta, in quel luogo del tragico che è il corpo dell’attore sociale colto nella discrepanza fra il suo esserci e le sue azioni nel mondo, si mostrano nella cristallizzazione del tempo presente, però pervaso da un progressivo smagrirsi, sgretolarsi, dissolversi dell’uomo e delle componenti sociali in quel vuoto di senso che appare come la chiave di volta e fessura tragica che chiama a sé una tensione cosmica, universale, archetipica, propria dell’uomo e del suo rapporto col mondo. Luogo poetico di De Angelis è quello dell’immanenza, i luoghi e le cose già lo abitano in forma di traccia, di ombra, sono immanenti all’essere. La sua parola appare regolata, pesata, decisa, rigorosa, lontana da automatismi di sorta, eppure evocatrice. Il tempo raccontato è preciso, presente: «Vicino alla morte tutto è presente // non c’è infanzia né paradiso // tu cadi in un urlo segreto // e non parli // cerchi un arcano // e trovi solo materia, materia // che non trema e ti guarda impassibile // e avvicina muta i due estremi» (De Angelis, 2015, p. 25). La terza sezione, Alta sorveglianza, appare quasi cronachistica nel racconto crudo di un amore che diviene delitto, ambientato nel carcere di Opera, dove lo stesso De Angelis insegna. Nelle altre sezioni la morte si agita ancora come filo rosso, tiene insieme lo svolgersi dell’azione poetica, in quanto fatto propriamente naturale che afferma la vita in virtù di un inizio. Fra la morte e l’affermazione, tragica, della vita, si esplicano ombre, tracce di luoghi e/o incontri che hanno abitato il poeta. Luoghi e persone ci abitano, è questo che sembra affermare De Angelis con la sua poesia, evocatrice di un rapporto di reciprocità fra l’uomo e i luoghi, fra l’uomo e gli altri uomini: «[…] hai disegnato sull’asfalto // i minuti di un teorema ridente e ogni minuto // è un’epoca che abbraccio e tu non lasci // deserte le ore, a ognuna dai un nome // e una misura, disegni angoli, parallele // e soluzioni, dimostri che i corpi, // come un paesaggio, s’incontrano all’infinito» (Ibidem, p. 34). Se con la morte tutto è presente e avvicina i due estremi, colti dal poeta in infanzia e paradiso, e i corpi, siano questi corpi di linee, di forme, o ancora di uomini, in piena reciprocità con la natura si mostrano come un paesaggio, parte integrante di questo e non punto posto all’esterno, e s’incontrano all’infinito, allora è quel vuoto rappresentato dal senso che l’uomo, posto al mondo e in reciprocità con esso, non riesce a cogliere – a causa della discrepanza tragica fra la sua coscienza e le sue azioni nel mondo – che trasporta il presente di De Angelis in una circolarità intemporale, motivo tipicamente orfico-dionisiaco, e fonte del rinnovamento che nello smembramento si ravvisa. Si ravvisa una poetica che nel tutto parmenideo delle bordure circolari, rado e denso, luce e tenebra, registra la parola che sempre fra luce e ombra si muove, senza mai considerarle separate. Ogni oggetto, ogni azione, ogni paesaggio e perfino le persone sembrano perdere materialità, carnalità, liquefarsi nella dimensione misterica che è appunto quel senso che non riusciamo a cogliere e che l’autore trasferisce sulla pagina in un progressivo smembramento della materia oggettistica e vitale che sostanzia, alla base, il suo fare poetico. Se la materia che è alla base del discorso poetico di De Angelis appare la vita, ciò che si realizza è lo sconfinamento di questa nell’immenso che orchestra la parola, anch’essa vivificata e nutrita in un sangue pulsante, feroce nel suo aprire varchi e crepe. Da un lato il tempo presente, la periferia di Milano, dall’altro un tempo remoto ancorato al mito e tenuto insieme nello sguardo della morte e dello smembramento, dall’altro la perdita di qualcosa, di un senso, che rende tragica la vita. A ciò il poeta risponde parando il colpo, baudelairianamente, sicché scrive: «Ero divenuto ormai l’incarnazione // di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva // tutto ciò che a poco a poco viene radiato // non prendevo più nota del giorno e dell’ora // mi assentavo // dall’antico fenomeno del mondo» (Ibidem, p. 19) in un motivo di assenza, un tentativo di esenzione da quel mondo che vuole nella reciprocità una compenetrazione fra uomo e mondo e vede, invece, uno sconfinamento nella perdita. La parola, viva, è quella dei corpi in movimento, si alza dal silenzio e testimonia dello scambio: «[…] una mano // che scioglie il groviglio e riporta la dolce // voce umana dei corpi in movimento» (Ibidem, p. 36). In ultima istanza, la sostanza materiale dell’azione poetica di De Angelis, in questo Incontri e agguati, rarefatta nella perdita di senso, nell’assurdo, assumendo a consapevolezza la morte, rivolge lo sguardo all’uomo e si fa poesia densa d’umanità, mostrando come crinale della parola sia appunto la vita.

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