La storia amplificata: Enten Hitti, Sigur Rós, OVO, Heilung

by Francesco Aprile

  1. Intro

 

La “storia amplificata” è il modo in cui gli Heilung, band folk-rock nordeuropea, definiscono la loro musica. La linea che qui si vuole affrontare, però, guarda agli elementi di una serie di esperienze che sono sì musicali, ma hanno la forza e l’energia di una speculazione comune sul linguaggio musicale, e sonoro-performativo in genere, tale da rendere poco significativa la definizione di “musica” per l’inquadramento complessivo delle ricerche. In prima linea troviamo Enten Hitti, Sigur Rós, OVO e Heilung. Si tratta allora di affrontare, nelle esperienze paradigmatiche delle quattro band in questione, i percorsi di chi oggi dalla musica ha sconfinato nelle terre estreme della performance in cui parola e linguaggi inventati assumono un ruolo di primo piano così come la storia, recuperata e stravolta, diventa zona liminale di un teatro dei suoni volto a mettere in crisi l’ascolto. Influenze e zone di confine si trovano disseminate lungo il secondo Novecento e si aprono come capitale simbolico a cui tornare o da cui partire: per altri versi l’esperienza Industrial – il “crollo della modernità” dei Neubauten o la danza orgiastica del Coum transmission, lo spiritualismo e il mesmerismo dei Dead Can Dance, le visioni dell’Aguirre di Herzog, le esperienze di Death in June, Coil e Virgine Prunes, solo per citarne alcune. Ma allora di cosa si tratta? Se da un lato il primitivismo passa attraverso il recupero di strumenti e sonorità antiche, dall’altro queste sonorità si danno come ricontestualizzazione di una ricerca arcaica e viscerale: la parola, ripulita, torna al mondo nuova e priva di significati, ma carica di sensi agglutinati, tipici di un mondo in preda alle urla nel tentativo di creare un linguaggio dal nulla, di riconquistare la parola, facendola nuova, come se non fosse mai esistita. L’ansia espressiva di queste urla, di queste catene di parole ancora nulle, ma mai nullificate, è tutta nella tensione al dire, al farsi discorso del corpo e della voce in un punto zero che non vuole fondare neppure sé stesso, ma aprire con un boato il mondo. Musica, strumenti antichi, lingue inventate, preminenza del dato puramente sonoro della voce sul piano del significato, rumorismo, performance, teatro di suoni e lingue e polifonie varie. Su tutto, lo spettro di Antonin Artaud si muove indisturbato, chiamato in causa con la totalità radicale della sua ricerca. Una parola prima della parola, per dirla con Derrida, quella linea tracciata da Artaud e che passando per Demetrio Stratos giunge fino alle esperienze oggetto di questa disamina.

 

  1. Henten Hitti: Musica Humana

 

 

In accordo con la tripartizione del concetto di musica operata da Boezio, Musica Humana degli Enten Hitti, come riporta il sito internet della Lizard Records, è l’album mai pubblicato dal Consorzio Produttori Indipendenti che trova finalmente la sua ufficialità e che avrebbe dovuto rappresentare, in linea cronologica, la continuazione, il seguito al primo lavoro del gruppo e che dal 1998 vede la luce nel 2016, nella preziosa operazione portata a termine da Lizard la quale affianca al gruppo l’opera pittorica di Egidio Marullo. Si tratta allora di un lavoro composto da undici brani volti a tracciare una sorta di continuità fra rituale e dimensione estetica del concerto, della performance, fra tensione particolare e universale in un raccordo di suoni e corpi che fanno del disco un percorso di sicuro interesse nelle dinamiche musicali, performative, italiane e non solo. La ricerca di una primordialità dispersa, la quale riaffiora nei suoni e nella tensione rituale del disco, è testimoniata in primis dalla messa in opera del brano Tepatzi, traccia numero sei che è in realtà un brano di iniziazione Maori. Ma cosa trasporta il percorso degli Enten Hitti dalla primordialità alla contemporaneità? La musica, per prima cosa, è per loro Humana e, dunque, in riferimento a Boezio è traccia di una armonia fra corpo e anima, espressione di un microcosmo al quale fa da contraltare un macrocosmo che nella tripartizione operata dal filosofo romano diventa Musica mundana, dell’universo. A questo punto diventa possibile sussumere la dimensione particolare dell’album a quella condizione universale del macrocosmo in quanto, con Jung, parlare con la voce primordiale, riscoprirla, significa, sì, parlare attraverso mille voci, ma è pur sempre un lavoro di recupero che può essere possibile nella sola contestualizzazione dell’opera, restituendo a questa primordialità una contingenza che è figlia del contesto, cosa che permette alla musica di trascenderlo. Il carattere humano è quello che vede trionfare la ritualità di un raccordo che non è solo diretta filiazione di quello personale, fra anima e corpo, ma di una polifonia di voci e suoni, le prime anche asemantiche – come dire, spesso incentrate sul nudo suono più che sulla parola – che aprono ogni microcosmo alla pluralità del rituale, oggi dispersa. È una vera e propria operazione di condivisione, espressione del carattere di apertura del disco in cui il gruppo riversa la dimensione rituale in quella estetico-performativa accentuando il carattere di coinvolgimento dell’ascoltatore. Nella bagarre contemporanea del pensiero unico, figlio disonesto del mondo, Enten Hitti si colloca fra lo spiritualismo ideale dei Dead Can Dance e una più accentuata componente corporea, liberatoria, fra le atmosfere più meditative dei Popol Vuh di Aguirre e la dimensione più allucinatoria dell’Aguirre di Herzog che loro recuperano in virtù di un raccordo con l’altro che è epifania dei corpi attraverso il suono. Il tutto trova un ulteriore punto d’incontro nelle opere pittoriche di Egidio Marullo in cui al paesaggio è affidata una alterità sopravveniente, sempre imminente, di segni rapidi e affastellati che richiamano la pluralità del disco e la costante possibilità dell’altro da sé.

 

  1. Heilung

 

 

Iscrizioni su pietre runiche o armi, antichi poemi della tradizione nordeuropea, ossa, lo scrosciare dell’acqua, scudi, armi, tamburi di guerra. Gli Heilung si formano nel 2014 e la loro opera appartiene a pieno titolo alla performance. Dagli oggetti sopracitati ai costumi di scena, tutto riporta a un tempo lontano che per mezzo della musica torna presente, ma amplificato. I testi sono iscrizioni che parlano norreno, il tutto risalente all’epoca vichinga. Anche la rievocazione scenica chiama in causa l’epopea vichinga, ma il concetto chiave rimane quello della storia amplificata che significa restituire il microfono a qualcuno o qualcosa, ma soprattutto alzare il volume e introdurre, nel tempo dell’iperconnessione, la legge comunicativa del tam-tam dei tamburi, il canto di guerra come adunata pressante per corpi e volti chiamati all’azione. Nel tempo dei gesti minimi orientati sugli schermi touch, gli Heilung spostano l’attenzione su una gestualità radicale che chiama in causa implicazioni estreme. L’adozione di lingue morte e antiche si riallaccia a tutto quel processo di vivificazione delle lingue morte che attraversa le sperimentazioni poetiche dal secondo Novecento. Il canto, fra suono evocativo e parola quasi gorgogliata, è sempre sostenuto al ritmo serrato, battente, dei tamburi: una lunga guerra? Il gesto minimo della contemporaneità è eclissato nella furia dei tamburi, la voce limpida e ben scandita di chi si rivolge all’assistente vocale è bypassata dai mantra incessanti, cupi o catartici, urlati o sussurrati con insistenza. Il tribalismo techno-urbano dell’industrial è sviscerato nella forma di un ipertribalismo ritualizzato. La forma del rituale, fra Enten Hitti, OVO, Heilung e Sigur Rós, ma non solo, sembra essere motivo centrale delle ricerche contemporanee. La rappresentazione esprime l’interruzione della quotidianità, spostando il soggetto sul fronte liminale della zona espressiva degli Heilung. Lo spostamento antropologico della scrittura nelle forme contemporanee, si pensi “all’arte antropologica” dei siciliani (dalla scuola di Caltanissetta ai palermitani ecc.) – ma in arte, in un senso più ampio, anche alla land art (quella storica, ad esclusione, quindi, del manierismo contemporaneo) o all’esperienza dell’Odin di Eugenio Barba, sancisce la non subordinazione del “dramma sociale” (V. Turner) all’estetizzazione del mondo. Dunque, in questo caso la non subordinazione del gesto poietico che non diventa estetizzazione del mondo nutre le crepe del “dramma sociale” che si modula come deviazione dalla norma, dall’etichetta. Il martellamento sgarbato ora dei tamburi, ora delle voci o delle ossa o delle armi costruisce il teatro rituale di una performance che nella ripetizione, appunto ritualizzata, di certi motivi rivela le piaghe del contemporaneo annodando all’azione il surplus di vita che nella gestualità minima di oggi viene relegato in un limbo, espropriato e messo al bando riducendo allo zero il conflitto (N. Christie). Dal riscaldamento globale all’inquinamento, dalla Co2 a livelli esorbitanti al progressivo venir meno di diritti sociali e civili, la crisi del mondo, che l’establishment intende superare nelle continue modalità di estetizzazione del quotidiano per annacquarne la portata, con il venir meno della gestualità dell’azione, ridotta ai minimi termini, fa sì che si produca un minimo di pensiero. In questo caso l’aggregazione in forme di ritualità estranee al contesto produce riti di passaggio che si fanno promotori del transito da una fase culturale ad un’altra. Un surplus di gesto che risponde alla gestualità minima del touch è la messa in chiaro della necessità di un surplus di vita e pensiero che si producono in forma “liminoide” (V. Turner), ovvero nella forma del possibile che non mira necessariamente a farsi istituzione, ma mette in crisi le fondamenta dell’ormai familiare e minimo agire senza esubero.

 

  1. OvO

 

 

Formatisi nel dicembre del 2000, gli OvO sono un duo composto da Stefania Alos Pedretti e Bruno Dorella. Come per gli Heilung, la gestualità nel duo italiano prende una forma preponderante, in disaccordo col gesto minimo della contemporaneità, mette in scena addirittura un’esperienza sovrabbondante, eccessiva che rimanda nell’atto performativo alla costruzione di un rituale improvviso, il quale non chiama in causa la programmazione dello stesso, ma l’irrompere dell’evento della possessione. Adorcismo? Siamo davanti a un teatro che si fonda sulla presa in consegna del corpo autorale da parte di una forza ancestrale che trova nella terra e negli elementi del mondo lo spirito urlante che dà vita alla musica. Fra noise, metal, punk, hardcore, primitivismo la proposta degli OvO conosce solo la forte traccia della contemporaneità che non si esplica solo nella freddezza concettuale del minimalismo, ma si apre all’eccesso batailliano del Dio acefalo, della metafisica capovolta, estrema, clandestina al mondo che dal tenere a distanza ha tratto la forma estrema del controllo in questa epoca.

La dimensione del rito si perde nell’atto performativo, sostituendo al canovaccio di una ritualità reiterata la dirompente esuberanza della piena che una volta abbattutasi si dissolve, superando il pericolo di una qualsivoglia fissazione egoica. Né sacerdoti del rito, né rivelatori di alcunché, gli OvO sono l’esperienza dello sconquasso che si recupera alla catarsi e si rinnova nell’incontro di una batteria martellante e di un cantato che spesso diventa asemantico, flusso disarticolato di suoni che nulla significano, ma tutto portano con sé. Nonostante si siano definiti “Minimal Extreme Metal”, la proposta degli OvO ha del “minimal” solo nel set-up, la “mezza” batteria di Bruno Dorella e la chitarra di Stefania Pedretti, ma è una dimensione che non racchiude e non descrive l’esuberanza creatrice di chi ha costruito l’incidere della musica come quello di una scossa che si scontra col mondo. La forma del concerto è, appunto, quella di una creazione di un mondo nuovo che ridiscute il tutto e mette in moto un’etica della presenza come incontro estremo di soggetti agenti. Il grado di coinvolgimento è inversamente proporzionale al ricorso del duo alle grammatiche tradizionali. Quanto più queste diminuiscono, tanto più il coinvolgimento è al massimo. Se alle maschere si aggiungono l’esuberanza fisica della performance, l’utilizzo smodato di oggetti vari, lo sconfinamento fra matrice primitivista e avanguardia, il tutto accompagnato da una formula vocalica spesso asemantica che ha, infatti, nell’incrocio di vocalizzi che niente significano se non ritmo e radicalità del mondo, il punto forte, allora otteniamo un teatro partecipativo che invoca lo spettatore fino a farne elemento conduttore di una esperienza volta a costruire un processo edificante, un adorcismo che all’impulso smodato dei suoni cupi e incalzanti lascia il posto, attraverso la voce urlante non parole, a una visione del mondo capovolta, in cui del mondo globale resta solo la terra sotto ai piedi e i corpi respirano vivi nella produzione di una alterità irriducibile, asemantica come la voce.

 

  1. Sigur Rós

 

 

Per l’utopia artaudiana del linguaggio, “il pensiero non è sotto ma tra le parole” e forse avranno pensato a questo i Sigur Rós quando sul finire degli anni Novanta portavano all’interno della loro musica il “vonlenska” (anche conosciuto come “hopelandic”), ovvero lo “speranzese” (da “Von”, “Speranza”), una lingua inventata che vera lingua non è; coniata dalla band e utilizzata in numerosi brani, questa forma di espressione è in realtà una non lingua, non possiede una grammatica, nessuna parola, niente sintassi, ma solo un insieme di sillabe accoppiate di volta in volta nei brani, quasi per tensione ritmica, sonora. Parliamo allora di glossolalie e, in effetti, uno dei loro brani islandesi più iconici ha un nome che richiama il termine per assonanza, pur significando altro: “Glósóli”.

Il percorso della band islandese è caratterizzato dalla convergenza di aspetti post rock, ambient e psichedelici per una resa minimale e sognante che taglia, con il suono, l’orizzonte, producendosi nel tempo e nello spazio lungo una giustapposizione estrema fra esperienza umana e natura.

 

5.1 Digressioni

 

Sul finire del 1971, Robert Wyatt incideva il primo omonimo album dei Matching Mole per poi rilasciarlo nell’aprile del 1972. Il titolo, un calco tratto da una traduzione letterale di “Soft Machine”, prima creatura di Wyatt, dunque “machine molle”, richiama alla mente l’omonimo romanzo di William Burroughs, The soft machine (1961). Il tema del controllo dell’esistenza, esplicitato dalla metafora del corpo molle, accompagnato dall’uso del cut-up, è presente anche nell’opera di Wyatt che trae non poco materiale dal lavoro dello scrittore americano.

Di fatto Wyatt fa ampio ricorso a onomatopee, gorgogliate dalla voce flebile la quale diventa strumento prezioso al punto da modellare la linea melodica e fare da collante, spaziale, fra le diverse leve sonore della band. L’assetto sonoro di Wyatt, fra improvvisazione e avanguardia, pone in essere la permeabilità del corpo molle attraversato dai suoni che restituisce a sua volta suoni, finendo per condurre lui, il corpo, l’esperienza sonora. Con il successivo album solista, Rock Bottom (1974), l’operazione è portata a maturazione e dalla voce onomatopeica e orgiastica dei Matching Mole, passa ad una esperienza sonora che nell’assetto avanguardistico tiene in scacco tutta la proposta, facendosene carico come ancora nel pur ottimo Matching Mole non era riuscito a fare.

Sulle tracce di Wyatt, i Cocteau Twins, nel 1983, rilasciavano l’album “Head over Heels”. Morale della favola? Onomatopee, nonsenso, gusto per il gioco, dimensione sonora sempre più onirica. L’improvvisazione acquista un ruolo sempre più importante, i testi vengono sostituiti da sillabe, suoni emessi al momento in pura improvvisazione sull’onda sonora il cui aspetto onirico era sempre più accentuato. Prima, l’esperienza psichedelica dei Beatles, dove alla commistione fra psichedelia e avanguardia (l’unione fra alto e basso, cultura pop-rock e dissonanze avanguardistiche in “A day in the life”, ad esempio, come pure per i Pink Floyd barrettiani di “Interstellar overdrive”) faceva seguito un ruolo sempre più importante per il nonsenso, in stretto rapporto con la tradizione dei “limerick” fra i giochi linguistici di John Lennon (e anche i testi di “Niente mosche su Frank”) e Paul McCartney. Lo stesso Lennon, dopo l’uscita del “White album” dichiarava di voler scrivere canzoni “senza parole” o “con una sola parola” riferendosi a “I want you”. Ancora, le diplofonie di Demetrio Stratos, suoni multipli accompagnati dal corpo performativo in ripresa, per ricollegarci a un tema accennato in precedenza, del teatro della crudeltà artaudiano, splendida, a tal proposito, l’interpretazione che ne dà Stratos.

 

5.2 Sigur Rós

 

Della poesia fonetica del Dadaismo (le sillabe dirompenti di Hugo Ball) e dell’esperienza del mentalismo della poesia Zaum, i Sigur Rós trattengono il gusto per il gioco e l’assurdo, dove a trionfare è proprio quest’ultimo. Se il senso non è sotto, ma tra le parole, per riprendere Artaud, il legame ”epico” degli islandesi con la natura, con il mondo, chiama in causa l’assurdo camusiano che, appunto, non è nell’uomo e neppure nel mondo, ma nel rapporto fra questi due elementi. È proprio questa assurdità a conferire il carattere a tratti drammatico che caratterizza certa musica dei Sigur Rós, salvo poi superarlo nella speranza stessa della lingua “speranzese” che oltrepassa l’epica drammatica e dilaniante del rapporto uomo-mondo e lo fa nel trionfo della lingua, non più babelica e, seppur asemantica, gravida di senso. Questo è proprio nella volontà significante di una musica che prima di essere suonata è soprattutto parlata senza intenzione parlante. Io che parlo, non sono il soggetto parlante, asseriva Lacan, e lo svuotamento di ogni intenzione di senso comune ordinario, porta la lingua degli islandesi a darsi come lingua dell’alterità, nata, nel momento del venire fuori della voce, non da loro, ma da una alterità naturale sopravveniente, non percepita visivamente, eppure presente e trionfale che rompe gli indugi e si dona irrompendo, frantumando la superficie regolare che il simbolico pretende di imporre al Reale. Una connessione molto stretta, fra esperienza umana e natura, è insita nell’opera dei Sigur Ros, ma attraversa l’arte islandese dagli Settanta in poi. Se questo, però, è vero un po’ per tutto il mondo che dal secondo Novecento si confronta in maniera sempre più organizzata e strutturale con la natura e gli squilibri causati dall’uomo, va anche detto che la condizione insulare e climatica islandese, il paesaggio tipico, rigido e drammatico, ma anche onirico, mettono in scena un sentimento e una concettualità a tratti unica nel suo genere. Dichiarava Rurì, nota performer e artista concettuale islandese, intervistata da Laura Fanti, che “Nella performance trovavo interessante il fatto che non ci fossero intermediari tra l’espressività dell’artista e lo spettatore, e in più l’assenza di materiali. Il lavoro performativo si traduce direttamente durante l’atto stesso, senza alcun valore materiale, e poi rivive solo come memoria. Non dobbiamo dimenticare che la memoria può essere un potente strumento”. Proprio il venir meno delle parole nei Sigur Ros contribuisce all’abbattimento delle barriere fra autore e spettatore, eliminando il dato da intermediario che il testo con la sua ricezione-interpretazione mette in scena e portando all’attenzione una creazione immediata, senza filtri che nelle atmosfere evocative sembra parlare la lingua del mondo. Questa condizione è la stessa che ritroviamo nelle opere asemantiche di Ásgrímur Kuldaboli Þórhallsson, le quali sembrano parlare della terra e delle vibrazioni delle corde vocali umane, in un prima che non ha ancora la voce umana, ma la scansione sonora della natura. Ancora Rurì, dall’intervista di Laura Fanti, affermava: “Venendo dall’Islanda ho un rapporto molto stretto con la terra e le forze della natura: la terra è poco coltivata e si apre all’osservazione geologica. Un occhio allenato può leggere la natura come fosse un libro di storia. Si può osservare come il paesaggio sia stato modellato dai primi eventi, dalle inondazioni, dalle eruzioni e dai terremoti; come l’oceano abbia tirato con forza la costa, come i fiumi abbiano portato sedimenti accumulatisi sulle sponde e la battigia ad estendersi oltre nell’oceano creando altra terra. Il “libro” si riferisce all’intero globo, si può leggere come l’interferenza dell’uomo abbia modellato ed alterato la natura con l’agricoltura, l’irrigazione, la deforestazione, la fondazione di città e autostrade, ecc. Quando parliamo di storia, ci riferiamo spesso alla storia umana, ma gli esseri umani non possono sopravvivere senza la natura. Esistiamo in una specie di simbiosi con la terra e il nostro destino è tutt’uno con il benessere della terra. Così io considero i due temi come due facce della stessa medaglia”.