Note su Osanna, Pholas Dactylus, John De Leo, Massimo Volume, Offlaga Disco Pax
by Francesco Aprile
Osanna / Pholas Dactylus
Quella di Osanna e Pholas Dactylus è la storia seminale di chi, agli inizi degli anni Settanta, ha posto le basi per certe sperimentazioni musicali capaci di tenere insieme musica, teatro e poesia. Il periodo è un momento di grande fermento per la cultura italiana dalla musica al teatro, dalla poesia all’arte alla performance, fino ai movimenti studenteschi e politici, tutto è in fibrillazione. A Napoli, sul finire del Settanta, si formano gli Osanna che l’anno successivo esordiscono con l’album “L’uomo”, un mix già importante di rock progressive, folk e teatro. Dalla scelta delle ambientazioni, che anticipano quelle di Jesus Christ Superstar e sembrano richiamarsi, anche, al cinema pasoliniano, all’introduzione del trucco, fino alla personale fusione tra folk e progressive con brani dai testi interessanti e impegnati, a tratti distopici, ancorati alla storia e allo spiritualismo della religione descrivono e bene rendono la dimensione di una società ammorbata dal capitalismo che già poneva le basi per l’attuale situazione, gli Osanna hanno teso una corda fra la cultura angloamericana (Led Zeppelin, Hendrix, Jethro Tull, Genesis) – senza risultare derivativi, al contrario, mantenendo autonomia e originalità (come l’impatto non indifferente avuto sui Genesis in occasione del loro tour italiano nel 1971) – e la tradizione napoletana attualizzando il popolare, innestando nella loro contemporaneità un seme straniante e dirompente in quell’arco di tempo che da “L’uomo” (1971) porta a “Palepoli” (1973), la cui intro è la perfetta summa dello stile Osanna.
I Pholas Dactylus sono una band formatasi in provincia di Milano nel 1972 e scioltasi l’anno successivo. Ma il 1973 non è solo l’anno dello scioglimento, ma anche e soprattutto quello dell’uscita dell’unico lavoro discografico reso possibile dall’etichetta Magma di Vittorio De Scalzi dei New Trolls. Un solo album, intitolato “Concerto delle menti” composto da una lunga suite – quasi un’ora – suddivisa in due tracce, senza interruzioni, pubblicate sui due lati del vinile, in cui primeggia la voce. Se l’elemento vocale rappresenta allora quello dominante, non va confusa questa attitudine con i virtuosismi tipici del progressive. D’altro canto neppure l’approccio materico all’uso della voce, nei termini di manipolazione dei suoni ecc., tanto praticato da Stratos, appare centrato per descrivere l’esperienza dei Pholas Dactylus, la quale su un tappeto sonoro che intreccia progressive, suite jazz, free jazz, avanguardia e psichedelia distende le parole del frontman-poeta Paolo Carelli che affida al recitato la veicolazione del testo. Quasi un’ora di recitato che, appunto, colloca la band, attraverso l’espressività e l’impostazione vocale di Carelli, sul territorio teatrale, il tutto condito da un’esperienza sonora che già nella scelta stilistica si colloca al di qua e al di là del progressive comunemente inteso, toccando punte d’avanguardia e intellettualismo smontato solo dall’atteggiamento surreale delle parole di Carelli, il quale, travalicando e colorando la realtà attraverso una scrittura fiume che strizza l’occhio ora al Surrealismo ora alla Beat Generation, scopre, per mezzo dei continui riferimenti religiosi e metaforici l’esigenza di un impegno che, similmente agli Osanna, racconta di un mondo sul punto di esplodere, di generare conflittualità e accecare l’uomo.
Massimo volume
Dagli inizi degli anni Novanta i Massimo Volume rappresentano una delle realtà più interessanti in Italia per la combinazione di musica e letteratura. Dove finisce la prima e inizia la seconda? La forma canzone è riletta, se non abbandonata, nell’ottica di un progetto che ha nella narrazione l’elemento cardine. Il cantato, allora, è sostituito dal recitato e i testi la fanno da padrone. Certe stilettate noise, che dagli inizi caratterizzano a tratti il suono, concorrono alla creazione di un tappeto sonoro che con le parole ha un dialogo particolare. Il narrato è accompagnato ora dalla ciclicità armonica, ora dal riverbero noise, come un racconto che si svolge nel tessuto urbano, nel pieno dei rumori della città. In questo caso la scelta di procedere da piccole storie permette di raggiungere scenari più ampi. I testi, concentrati attorno a nuclei di brevi e fulminee suggestioni personali, sembrerebbero, in un primo momento, cozzare con la prospettiva urbana della narrazione musicale, ma è proprio nella messa in opera di questi bozzetti esistenziali che l’operazione musicale dei Massimo Volume diventa soggetta ad un interazionismo che dallo sconfinamento fra interno ed esterno, fra pubblico e privato, intimo e urbano ha tratto la cifra stilistica che li caratterizza. I testi, allora, possono sembrare all’apparenza più narrativi che poetici, in realtà aprono in modo importante a certa narratività della poesia americana, più che al lirismo nostrano. Più Carver e Carnevali – il quale non si era mai sentito un autore italiano – che non sentimento lirico e l’esistenza finisce per essere raccontata in una quotidianità essenziale, scarnificata e assemblata con la precisione dello sguardo fotografico.
https://youtu.be/wc1HEh862mo
Offlaga disco pax
Agli inizi del terzo millennio nascevano gli Offlaga Disco Pax capaci di affrontare un percorso musicale e autorale forte di una autonomia e di un coraggio tali da raccontare, con la descrizione di un mondo ormai disperso, l’essenza di un mondo ancora da trovare. L’impegno politico emerge tutto dai testi, mai scontati, al cui interno le parole innervano prospettive politiche e sociali attraverso visioni a volte esplicite, altre volte meno e forse proprio per questo ancora più interessanti. Le storie raccontate sono rapide, o forse ripide per quel loro minimalismo che va di pari passo con l’intelaiatura minima della struttura musicale. L’esperienza di queste scelte stilistiche essenziali, ci porta allora dal particolare all’universale, spiazzando, attraverso tematiche all’apparenza opposte, e costruendo una visione del mondo che ha saputo guardare alla provincia italiana facendone una narrazione di cui si sentiva il bisogno. Oggi, alla luce di un mondo impregnato di visioni autoriferite, dunque troppo ripiegate sull’ombelico del singolo, anche davanti a nuove grandi tematiche (inquinamento, riscaldamento globale) che sembrano muovere le masse, si sente il bisogno delle narrazioni degli Offlaga, ovvero di racconti capaci di incrinare il muro del socialmente accettabile mostrando il volto di piccole realtà che non per questo meritano di essere superate in favore delle nuove grandi narrazioni. Si tratta allora di un’esperienza autorale fuori schema, libera e fluida che non ha sposato gli assunti dominanti, verticali, costruendo un micromondo superato, eppure tutt’ora attuale perché ancora una volta rimandato ad un tempo successivo al nostro.
John De Leo, la voce come strumento
“Una voce senza parole è molto più di una bella sonorità, sono, secondo me, le leggi più elementari, le manifestazioni più elementari, della sensibilità umana” – Demetrio Stratos – Archivio Rai, 1970
la voce non si muove che attraverso qualche segno discontinuo di tempesta
Roland Barthes
John De Leo, ex voce dei Quintorigo, da anni impegnato come solista in un percorso che lo vede in bilico costante sui versanti della musica e della performance, ha fatto della tecnica vocale e dell’ironia i suoi marchi di fabbrica. Spesso paragonato a Demetrio Stratos e Cathy Berberian, affronta la parola col guizzo manipolatore di chi si insinua nelle maglie del canto afferrando la voce come fosse materia, oggetto plasmabile, modellabile passando dal sussurro all’acuto con facilità estrema. Con Jonh De Leo si passa dalla ricerca dadaista di Hugo Ball – che nel 1916 sfociò nella poesia “Karavane” «Jolifanto bambla o falli bambla/großiga m’pfa habla horem/egiga goramen/higo bloiko russula huju/hollaka hollala/anlogo bung/blago bung blago bung/bosso fataka/ü üü ü/schampa wulla wussa olobo/hej tatta gorem/eschige zunbada/wulubu ssubudu uluwu/ssubudu/tumba ba-umf/kusa gauma/ba – umf» composta con parole senza alcun significato – ai vocalizzi di Stratos che pure, via Artaud, inseguiva una voce senza parole, un linguaggio prima del linguaggio, allineati all’interno di uno scenario spesso performativo in cui i testi, letterari e ironici, testimoniano di come l’approccio ludico all’uso dello strumento-voce si rifletta nell’atteggiamento autorale di De Leo. Sulla scena, il ricorso ora a giocattoli, ora a strumentazioni digitali, concorre a strutturare l’armamentario dell’autore-performer che con la voce passa dall’essere violino a sezione ritmica misurandosi con lo svalutamento contemporaneo delle parole, logore, consumate, svilite erigendo barricate da cui scagliare le proprie composizioni che spaziano dal rock al jazz, dal blues al soul al funky. La voce insegue con insistenza suoni che spesso non si agglutinano in parole, al contrario il teatro di De Leo è la messa in opera moderna di un canto primitivo, ancestrale, atavico che unisce l’elettronica ai suoni primordiali cercando nel corpo la parola primigenia. Se è pur vero che Stratos e Berberian possono essere tirati in ballo come illustri antecedenti, è vero anche che le ricerche dei tre autori si muovono su direttrici diverse. Il canto primordiale della voce è solo il punto d’arrivo, ma i percorsi si danno come diversi in maniera sostanziale. Per De Leo la radice più che rock, e pur venendo da lì, è popolare. Ma è un popolare che ama la contaminazione, a cui non rinuncia mai, tessendo le trame di una vocalità impervia, impetuosa e fuori schema, inalberata su tessuti ora rock, ora jazz e ancora techno-minimal, elettro, blues, funky, senza disdegnare i feedback e il rumorismo di area novecentesca spesso per mezzo di strumentazioni giocattolo sulle cui frequenze si liberano le improvvisazioni della voce. La sensazione è quella di un rituale in cui il performer-sciamano ha consacrato sé stesso alla vocalità estrema. La funzionalità degli oggetti-strumenti utilizzati è il viatico alla conoscenza del brano stesso. The medium is the message, e allora De Leo si immerge completamente nella comprensione degli strumenti, quindi anche della voce, al fine di raggiungere la conoscenza massima del brano oggetto della composizione.
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