Insularità della parola. Appunti per un discorso mai “dato”
by Francesco Aprile
07/06/2018
Come declinare il tema dell’insularità? L’isola nutre da sempre un rapporto privilegiato con l’orizzonte, ma è anche crocevia di lingue e culture. L’esperienza dell’incontro o, al contrario, del micro-clima linguistico contaminano la parola poetica, ma cosa sono le isole? Per prima cosa è la definizione del campo che necessita di essere messa a fuoco: isole, arcipelaghi, isole linguistiche, ma anche esistenziali, foriere di traumi o esaltazioni. Un chiarimento semantico, dunque, pone in essere la condizione plurima delle ipotesi di ricerca. Da qui sarà possibile instaurare un confronto altrificato, non più egemonico, ma laterale lungo l’ossatura dell’insularità piuttosto che sulla centralità della terra o del mare. Girare attorno, attorno all’isola e al tema: per Blanchot il centro è sempre mancato e non potrebbe essere altrimenti. Per questo motivo l’isola è declinata nelle sfumature di cui sopra, sottratta all’immaginario comune da enciclopedia e restituita a una pluralità prospettica che bene tiene conto del mondo, dei micromondi e della loro sfuggevolezza. Ma allora di quali isole parlare? Con quale insularità sarà necessario avere a che fare? Di seguito alcune ipotesi di lavoro:
– Nel 1976 il poeta e teorico dell’arte e della letteratura Francesco Saverio Dòdaro fondava il movimento di Arte Genetica individuando il linguaggio “primo” nel battito materno ascoltato in età fetale e suggerendo, con un suggestivo manifesto nel 1979, di inclinare l’orizzonte perché all’uomo sono sempre necessari il riparo e l’ombra, come nel ventre materno, come per il bambino che corre a cercare riparo sotto un tavolo. L’esperienza primaria per la formazione del linguaggio sarebbe nell’input materno del battito fetale, nel ventre-isola che porta al mondo.
– Hervé Fisher, ancora, pone l’attenzione sulla fase intrauterina considerandola un corrispettivo dell’insularità. Da questo punto di vista ampi sono i riferimenti storici e culturali, stratificati nei secoli e oltre: il Neumann, nella sua “Storia delle origini della coscienza”, ne traccia una interessante e dettagliata panoramica, dalla Grande madre alle riformulazioni Cristiane (la simbologia del pesce) ecc.
– L’acqua che avvolge l’isola, come il liquido amniotico, culla le profondità dell’animo umano tessendo il rapporto con l’orizzonte e allattando la condizione poetica. L’acqua, liquido amniotico dell’insularità, allora diventa un corrispettivo di quei media che Thomas Macho individua nel sangue placentare, ancora nel periodo fetale, caratterizzandoli come i primi media di cui farebbe esperienza l’uomo.
– L’insularità diventa allora un motivo determinante nella formazione e sviluppo dei bambini, un momento cruciale alla base della società. Peter Sloterdijk indica la via dell’insularizzazione (insulizzazione, cfr Sloterdijk), affondando il suo pensiero nelle teorie di Macho, come base per la formazione sociale e culturale dell’essere umano: gli adulti andrebbero a sospendere, a creare dunque eterotopie, i meccanismi sociali per tutelare i bambini e permetterne un adeguato sviluppo. Inoltre, in ogni rapporto con l’altro si celerebbe la riformulazione dello spazio placentare.
Questi sono solo alcuni dei motivi teorici che consentono di affrontare in maniera dilatata il concetto di insularità, mostrando la radicale polivalenza del termine che assurge a motivo d’esistenza, connotando l’esperienza umana fin dai primi passi. Alla luce di quanto espresso finora è possibile avventurarsi in un ulteriore percorso di ricerca volto a mostrare la dimensione insulare della “parola”. Se il linguaggio, scriveva Dòdaro, “è una congiunzione, il linguaggio è una ‘e’”, allora la parola va a rappresentare quell’elemento placentare che congiunge, modulando connessioni mediali. La parola, in quanto media, diventa un’isola che nel Novecento risponde a tutti quei motivi di insularizzazione del linguaggio quali possono essere il concetto di “Spaziatura” in Derrida, dove gli spazi bianchi fra parola e parola isolano il linguaggio mostrando il carattere distruttivo ed energico del respiro del testo, condizione che viene espressa bene dal Colpo di dadi di Mallarmè e, in maniera ancor più radicale, dalla poesia concreta dagli anni Quaranta in poi. Ma non è tutto: Antonin Artaud isola il linguaggio ricorrendo alle glossolalie e recuperando la capacità creativa del momento fondativo dell’esperienza linguistica, poetica, ovvero la condizione intrauterina. Per Albert Camus, ogni parola è un’isola.
Tutto questo ci porta alle isole linguistiche, ad esempio gli “arbëreshë” in Calabria o l’isola linguistica che in Puglia cade sotto il nome di Griko. Tutte esperienze che mostrano al contempo la poeticità dell’isola linguistica e il carattere di antilanguage (crf. Halliday) che di volta in volta tali esperienze possono assumere. La parola diventa oggetto-insulare (Derrida/Spaziatura, poesia concreta, Mallarmé, Antonin Artaud ecc.), ma anche isola linguistica, nei casi già citati degli arbëreshë o del griko, ma anche nella dimensione di lingue creole, il caso del Madagascar per il poeta André Ròber, o, ancora, la condizione particolare della lingua poetica maltese, che come la precedente, si dà come crocevia di culture e linguaggi che espone doppiamente la condizione dell’insularità, da quella del linguaggio a quella del territorio. La poesia insulare, nella più ampia accezione come visto sin qui, diventa insularità esistenziale che nella doppiezza della lingua, ad esempio un parlante/scrivente che si ritrovi ad abbandonare la propria lingua per un’altra, apre anche al dramma personale (qui l’isola linguistica diventa esistenziale, personale): emblematico è il caso di Emil Cioran e del suo rapporto con la lingua d’origine e la lingua francese espressione della sua opera.