Testi
by Ilaria Seclì
La somma del tempo (Pozzis, val d’Arzino)
Quel posto che pochi vivi vedono. Tizzoni fermi, valli, estinta civiltà. 7 oblique lapidi rotte dalla neve, bianchi intatti ripetuti e ripetuti su occhi inesistenti, inesistente mano o impronta che li macchi, li corrompa.
Su nomi e lettere cadute, cadute date, resiste un petalo d’argento nero. La somma del tempo non consuma. Non consuma il tempo delle cose, della neve, vento gelido padrone, impero vuoto. La botola che narrano in città, voci e colori ingoia. Un grigio resta, un marrone incenerito, cinghiali e mufloni hanno versi, ma lontani. Uno sparo coi suoi cerchi. Il gallo è vicinissimo. Forche, ruote, zappe. Materia senza nome fatta roccia, basto che il gelo mima fioritura. All’improvviso un uomo.
Giura l’impossibile, alto bastone grezzo, polenta nel paiolo, suo capriolo a legna e fuoco. Sole avaro spento nel caffè dietro la montagna.
22 fotogrammi, passaggi umani, aperte cose oblique e il dubbio di essere appartenuti, stati vivi. Passate cose fra le cose.
(da L’impero che si tace)
LETTERA DAL BOSCO
Lo ricordo bene il silenzio del primo bosco, così profondo che vedevo le impronte del pettirosso e la direzione che il vento snodato e mite dava alle formiche.
L’occhio si accorgeva di movimenti impercettibili e suoni precisi o lontani, visioni su una tela nivea. C’erano attrezzi spaventosi e fissi, forse per la legna. Qualcuno da queste parti si fa chiamare boscaiolo e abita qui vicino, mi dicevo. Faceva la paura che il bosco fa nelle pagine delle favole scure, guardare più in là metteva i brividi, trama fitta di tronchi, abbagli improvvisi di luce e voci di creature nuove. Sapevo di starci dentro, sono nata per questo momento pensavo, quindi non mi voltavo per assicurarmi della tua presenza.
Per quanto l’aria si facesse nera andavo, il picchio mi stordiva e incoraggiava fino a quando ho capito che ero sola, e ho cominciato a trasformarmi in corteccia insetto muschio foglia tana becco.
Una di quelle cose che il bosco non può temere e fa addormentare lì, ai suoi piedi.
(L’impero che si tace, Ladolfi, 2019)
***
La polvere sull’asse della sedia
nel conservatorio di sant’Anna.
Sottile immobile tronco di palma
che la porta intravede dal cortile.
Gli sguardi lisci delle cose, senza
crepe, senza distrazioni. Così
la pelle di certi visi boreali
trattiene l’infanzia della neve.
Un silenzio mai stanco transita,
trova eredi, sa dove far riposare
il suo cespo vivo
***
Santa Barbara
Santa Barbara è una fila di case
di uguale altezza, una accanto all’altra
senza piani sopra, solo cielo.
Una lenta sequenza di film muto
su crolli di masserie feudali, ovili, stalle
strati e strati, belati, storie, stemmi
fissati nella trama del pictor optimus
mossa appena da una nonna
che spinge l’altalena. Tu guardi
e non vedi più il senso di tanta strada
altrove, quanto è piccolo ciò che conta
e quanto poco conta il resto.
Nel buio silenzioso della piazza
e filari di muri e uomini senza sorprese
integra resiste una parola estinta altrove
***
Neve
Non viene, si ostina a non cadere
alzo piano la tendina
far durare lo spasimo
o speranza come la chiamate.
Ma cade la verità del luogo
lo sciamare vuoto, le ciance, il clima,
niente che somigli a questa disciplina.
*
Io sogno, sto sognando
ho messo l’anello più bello
un po’ per ricordare un po’ per essere felice.
Come fosse vivo il silenzio, anche qui
chiaro trasparente aria ghiaccia
un gennaio russo di armi arti fuoco
di futuri accesi bagliori battesimo
eternato. Lotte cammini infiorescenze
ostinato farsi di stagione,
schiudersi di fiore, ostinato darsi,
fa sera e fa mattino.
*
Nessuno muore, non sono mai morto
ripete la carcassa sull’asfalto di questi calendari,
ripete la carcassa sulla strada
che continuano a schiacciare.
Non sono mai morto.
***
È il melograno che ora ti è padre
non sentono i tuoi lamenti
non vedono il tuo pianto.
Onomastiche conseguenze
in affollati spazi, nei parcheggi sociali.
Gioirai però, te lo prometto
quando avrai per inverno un gatto
e un cappotto verde. Anche coi gradi
di questo finto autunno ti giuro
noi lo indosseremo.
***
Tutto questo amore male amato
lunga bava di lumaca senza casa
dopo la pioggia. Tutta questa inutile
richiesta al mondo, vuoto mondo
urna scoperchiata. Solo tu
non addizioni niente al niente
ma lo infrangi, quando assorto
in poco fiato dici: mi sembri un’ombra.
***
Arcano
La terra che il nostro silenzio germoglia
gonfia pance di madri lune pozzanghere
laghi canestri di vulcani. Palmo a palmo
abitato vuoto, palmo a palmo misurato
lodato cantato. Svelato l’arcano
è la bocca di bocca vuota a intonare l’inno
incendia di stoppie celesti la campagna
cumuli di alloro ulivi mirti lo abitano
legano con incensi e braccia di infanti
questa distanza e l’altra questo silenzio
e l’altro. Morte intenzioni abbigliate
tutto come se nessuna fine mai.
È stato detto, infatti: venite dalle rose.
***
a Paul Celan
Tieni, prendi. Tabacco da fiuto
fata verde, fino a che sarà buona
l’acqua della Senna. Licenzia
la bestia, andiamo oltre.
Tienila stretta questa tregua,
dai pace al respiro, ferma le foglie
impazzite, la ressa, il getto nero.
Ammutolisci i numeri le sottrazioni
l’infamia. Taci. Uno due tre.
Taci. Dimentica il sonno indotto,
l’insulina, la vita cancellata e non
dalla gomma dei bambini. Vieni,
accucciati, fatti accarezzare.
Resta.
***
Milano
La sirena del treno prima dell’alba
addensa tepore e luci di interni.
Quella del Nord odora di pane
chiamato alle finestre a cominciare
il giorno. Prepararsi al freddo, ai fatti
nascosti del bosco, alla pianura.
Senza sporgerci vedevamo le anime
di tutte le stanze, la già alta
nostalgia dell’uscio, di una fiamma,
di letti ancora caldi.
Milano d’inverno ha albe inviolate
come mensole nelle case di montagna
fioriere tazze tendine legna
ogni cosa composta nel suo dover
stare lì in posa per chi non c’è
lì ad aspettare più vivi giorni.
Anche gli oggetti hanno doveri
intenti alla loro opera.
Al passaggio di occhi stranieri
sanno che da lì al per sempre
anche nel muto intervallo di stagione
un passo una mano uno sguardo
li farà vibrare come legno calpestato
la vigilia di Natale, come una nevicata
***
La finestra non ha casa. La finestra
è verde. Hai detto: lascio polvere
e ruggine, anche loro hanno chiesto di te.
Verde veleno, inchiostro e miniature
mortai boccali medicamenti alambicchi.
Oh onesto speziale, il tuo veleno è rapido
come Ofelia prepara la sua culla
quel colore minerale dentro cui resterà
nel sempre di un Principio senza tregua
povero angelo, povera bambina.
Mani di uomo che fuma, donna acqua
e oro. La finestra non ha casa,
la finestra è verde, il legno mangiato.
Chissà cosa vedranno gli ospiti
quando apriranno il suo gancio
gli ospiti che apriranno la finestra.
Se vedranno la luce di tremenda maestà
trasparente come ambra. La finestra
non ha casa. La finestra è verde.
La casa splende.