Il giornale “parlato”: da Moreno a Miccini
by Francesco Aprile
È sentimento diffuso, nel clima degli anni Venti del Novecento, quello di una accentuata attenzione verso le problematiche e dinamiche psichiche dell’attore sociale. Sulla scia degli studi freudiani, ma non solo, e dall’Ottocento, arrivando fino al Novecento, si diffondono a macchia d’olio teorie e opere pronte a decretare il rinnovamento delle pratiche artistiche e letterarie. I giochi linguistici, le ripetizioni, le parole “baule” in Carroll, i flussi di coscienza da William James a Dujardin fino a Joyce, gli esperimenti sonori dei Futuristi e dei Dadaisti – in ripresa delle esperienze di Vielé-Griffin, Verlaine, Nodier, Gautier, Rimbaud fra gli altri – sono tutti elementi che concorrono all’ingresso del principio di piacere nel mondo letterario, sancendo il primato del gioco e dello spreco sulla sopraffazione e sul controllo della tecnica come organismo di produzione ora di beni, ora di soggetti plasmati dalle nascenti direttive di mercato. Da un lato, lo sviluppo della tecnica improntato al controllo – si pensi a metà dell’Ottocento alla rivoluzione urbanistica di Parigi sotto la guida di Haussmann e volta, più che a modernizzare il cuore medievale della città, a organizzare la vita della capitale francese all’insegna di un più facile controllo da parte delle autorità – dall’altro, il crescente senso di inadeguatezza dell’attore sociale, schiacciato dalla tecnica, capace sempre di adattamento, ma ugualmente inadeguato al suo mondo, per dirla con Ortega, che andava reclamando nuove forme e modi di esistenza che trovavano agio in pratiche letterarie anti-produttive e aperte all’eccesso. In questo contesto Paul Nizan teorizzava una prassi politica, comunista, in grado di farsi carico degli aspetti dell’esistenza umana, di scendere, anzi, proprio nella vita, sporcandovisi le mani, senza lasciare ogni discorso sull’amore ad uso esclusivo dei poeti. I Surrealisti, nel doppio vincolo marxista-freudiano della loro pratica, sognavano di cambiare il mondo e la vita. Proprio in questo intreccio di vita e rivoluzione, il movimento parigino gettava le basi per quella pratica che si sarebbe poi evoluta nell’Analisi istituzionale:
L’analisi istituzionale deriva dalla “Psicoterapia Istituzionale” un movimento nato nel manicomio di Saint Albain durante la resistenza. In quel luogo ed in quel tempo gli attivisti politici, le avanguardie artistiche e scientifiche come P. Eluard, A. Artaud e Tosquelles, cominciarono a pensare che l’intervento sull’istituzione come tale poteva avere valore terapeutico. Per loro l’istituzione era anche il colore dei muri, l’arredamento dei locali, il ritmo dei pasti, l’organizzazione dei turni del personale infermieristico ecc. Tutte queste cose viste nel loro insieme potevano costituire l’istituzione. La stessa idea venne applicata da Lapassade alla pedagogia. Per cui fare Pedagogia Istituzionale significa pensare a come intervenire sulle condizioni che solitamente costituiscono lo sfondo del processo educativo[1].
La modificazione dell’istituzione, allora, appare come motivo centrale nelle pratiche di rottura della “gabbia”, in quel processo di liberazione dalla ragione, in favore del pensiero – via Heidegger, o del sogno – via Freud, come già avvenuto nell’esperienza del Merzbau di Schwitters. In questo clima si sviluppa il pensiero di Moreno.
Jacob Levy Moreno, nato a Bucarest nel 1889, si forma a Vienna, nel pieno dell’attività del circolo viennese, proponendo un modello della personalità basato sulla relazione. Pedagogista, filosofo, psicologo, sociologo, fonda nel 1921 il “Teatro della Spontaneità” proponendo, per gli attori, il raggiungimento di una catarsi di abreazione, riassumibile con l’affermarsi per il soggetto di una scarica emotiva intensa, tangibile al punto da lasciare evidenti segni somatici come pianto, tremore, spossatezza. Il teatro veniva detto della spontaneità a partire dalla pratica dell’improvvisazione; gli attori, poi, mettevano in scena i drammi proposti dal pubblico o inscenavano i fatti di cronaca tratti dai quotidiani e, in questo caso, si trattava del cosiddetto “giornale vivente”. In seguito Moreno affinò la sua riflessione passando dal “Teatro della Spontaneità” allo “Psicodramma” dove a essere messi in scena erano il racconto di un trauma, di un dramma personale interpretato proprio da chi lo aveva vissuto, con l’aiuto del pubblico che andava a staccarsi dal suo ruolo di osservatore per attivare una partecipazione con cui stabilire una relazione. Il teatro veniva considerato come il luogo privilegiato in cui perseguire la rottura della gabbia, intesa come schema esistenziale e ruolo sociale appiccicato addosso all’uomo dal sistema. La spontaneità perseguita diventava il veicolo necessario alla trasformazione della realtà e qui torna, ancora una volta, il connubio tra pratica artistica, poetica, e trasformazione del mondo. Moreno, dunque, propone un tipo di relazione detto “telica” in opposizione al transfert freudiano inteso come modalità secondaria derivata dall’esperienza; nella relazione “telica” la modalità della stessa è primaria, non deriva, infatti, dall’esperienza, non è appresa e permette di stabilire in modo naturale una relazione fondata sulla reciprocità comunicativa e l’ascolto. Il teatro diventa il luogo dell’incontro e il regno della reciprocità “telica” (a differenza del transfert che, oltre ad essere successivo, risulta unidirezionale). In una lettera indirizzata a Freud, Moreno spostava l’attenzione dall’interpretazione dei sogni al permettere alle persone di sognare ancora[2]. Anziché sottrarre gli attori sociali ai loro contesti e catapultarli nel setting dell’analista, Moreno entrava nei loro luoghi, incontrandoli – in questo è vicino alla pratica etnografica dell’osservazione partecipante.
Eugenio Miccini (Firenze, 23 giugno 1925 – Firenze, 19 giugno 2007), laureato in pedagogia, poeta, poeta visivo, performer, teorico della poesia visiva, fondatore, nel 1963 assieme a poeti, musicisti, artisti, del Gruppo 70, fondatore e animatore a Firenze nel 1969 del Centro Tèchne e dell’omonima rivista ha dato il via a tutta una serie di pratiche performative volte a rileggere le dinamiche della poesia, ibridandola con i nuovi media, il teatro, la performance.
Nel processo creativo di Miccini, poesia è quell’elemento che va a disarticolare i linguaggi dello status quo, procedendo a partire da una riflessione che è prima di tutto ripresa del “classico”, inteso come un tempo in cui la parola si dava come momento complesso, al contempo visivo e sonoro, capace di complicarsi senza stratificarsi nella sola dimensione di una linearità strumentale. Venuti meno il cosmico e il divino, per Miccini avanzavano il sogno e l’inconscio. Secondo McLuhan la stampa si manifesta come dichiarazione pittorica ripetibile all’infinito, frammentando le vite psichiche in virtù di una sensibilità alienata, orientata verso un lutto dovuto alla separazione tecnica del gesto, l’immagine e il suono. A partire da ciò, Miccini pensava la poesia visiva come un discorso per immagini, capace di ridare un volto ai segreti dell’inconscio[3].
È, infatti, nell’alveo di una lingua massificata e votata alla strumentalità che il teorico fiorentino, così come Pignotti e gli altri esponenti della prima Poesia Visiva, elabora una controlingua per agire in maniera radicalmente critica sui linguaggi dei massmedia […] si è formata una specie di inter-lingua massificata che corrisponde perfettamente ad analoghi atteggiamenti massificati[4]. L’uomo è imperfetto, ma sempre perfettibile, e la fuoriuscita dalla linearità progressiva della scrittura-tempo comporta un salto al di fuori della dimensione carno-fallo-logo-centrica detentrice di potere. Miccini, allora, presso il Centro Tèchne si fa promotore, verso la fine degli anni Sessanta, della performance detta del “Giornale parlato”, chiara ripresa del “Giornale vivente” di moreniana memoria, con lo stesso accento posto su stupore e sogno, ma con una componente di impegno politico-sociale tale da realizzare lo scarto necessario fra le due pratiche, rinnovando la prima nel nucleo delle neoavanguadie. Impugnati i quotidiani del giorno, Miccini usciva in strada, nelle immediate vicinanze del Centro Tèchne, teatralizzando e performando i fatti del giorno si incamminava verso il Centro, fra lo stupore della gente che lo seguiva fino a entrare nel Tèchne. L’utilizzo del fatto di cronaca come trama comune, organizza una linea traumatica del sociale, esorcizzandola nello stupore e riconducendo a equilibrio l’osservatore, spiazzato, nel tentativo di pervenire a riformulazioni dell’inconscio inteso come relazione telica a cui donare un volto. L’interlingua massificata veniva capovolta in relazione dinamica e primaria, rompendo la gabbia strumentale del linguaggio in favore dell’incontro e della rigenerazione del logos nel perdersi nei fantasmi di un nuovo slancio esistenziale.
[1] Montecchi L., Per conoscere Georges Lapassade, pol.it – Psychiatry online, http://priory.com/ital/180/monte.htm.
[2] Moreno J. L., The Autobiography of J. L. Moreno, Moreno Archives, Harvard University, 1985.
[3] Miccini E., Miccini, Verona, Adriano Parise Editore, 1991.
[4] Ivi, pp. 16, 40, 41.