Franco Gelli. In altra declinazione: parto
by Francesco Aprile
2016-03-04

 

Si è accennato nel numero 6 di Utsanga.it, dicembre 2015, alla presenza di una connotazione politica che tiene assieme le diverse sfaccettature e piani narrativi che in discontinuità si affacciano nell’opera di Franco Gelli. Nell’intervento Discontinuità verbale nell’opera di Franco Gelli. La valigia dell’emigrante nel solco del Punto Zero di Taranto, https://www.utsanga.it/index.php/aprile-discontinuita-verbale-nellopera-franco-gelli-la-valigia-dellemigrante-nel-solco-del-punto-zero-taranto/, il motivo della partenza è declinato in chiave politica a partire dalla lacerazione storico-culturale del dramma dell’emigrazione. L’orizzonte della crisi, ravvisabile in quel luogo del conflitto fra l’impossibilità del controllare la situazione (crisi/lavoro/emigrazione) e le pratiche politiche, sociali, culturali, che il contesto ha tentato di opporre cercando di risanare la piaga, la quale rischiava (e rischia sempre) di condurre al di fuori dei binari storici di un paese una o più generazioni, percorre in maniera sensibile buona parte della produzione verbo-visiva di Franco Gelli. I piani sfalsati, discontinui, che impongono ripetuta costruzione e ricostruzione, coglibili nei termini di riparazione del tessuto narrativo dell’opera, dialogano con la fatticità esterna traducendosi in lacerazione, trauma, in quelle forme, dunque, che possiamo riconoscere come discontinue eppure rappresentative della trama di quel soggetto-oggetto del discorso. Il vissuto sradicato, raccontato da Gelli, appare in questi termini impegnato in una ricostruzione continua, la quale impone una ristrutturazione costante della trama identitaria dell’opera, producendosi in un continuo rimandare di segni. Se la caratteristica di tali segni è da riscontrarsi nel rimandare, che in altra istanza si produce in un manifestare, è rappresentativo di ciò un tema dell’annunciazione stessa del segno che una volta “chiamato” in corso d’opera appare già superato dal rimando successivo. Il “restauro” poetico operato da Gelli insinua nei lacerti della narrazione, oltre ad un legamento politico, una intercambiabilità dei piani fra personale e collettivo che realizza nell’opera procedimenti di spostamento e condensazione. L’arbitrarietà del segno, colto nella sua intercambiabilità, produce uno spostamento e successivamente un processo di condensazione che sembra velare, sotto i piani di una narrazione politica e sociale, quelli di una narrazione privata. In altra declinazione la narrazione privata che si vuole prendere in esame non coincide più con il racconto privato degli emigranti, ma a questo si muove parallela. È il privato dell’autore che si ravvisa nella cifra della partenza. Il ricorso all’elemento calligrafico, che come afferma Menna in riferimento alle scritture manuali introdurrebbe il carattere soggettivo – privato – e tutta una serie di rumori e interferenze, è nel percorso di Gelli presente accanto ad una serie di segni, segnali, frammenti, che intercettano il vissuto privato dell’autore e ne permettono la messa in opera all’interno di quel percorso descritto in precedenza. Questa velatura del personale nel rumore della quotidianità storica, si mostra anche con l’adesione di Franco Gelli al Movimento di Arte Genetica fondato nel 1976 da Francesco Saverio Dòdaro il quale considera il linguaggio come congiunzione volta a ripristinare l’unità duale del soggetto (la cifra duale contrapposta al regressus), altrimenti considerato un frammento, e rintraccia la ritmicità dei linguaggi umani nel battito materno ascoltato in età fetale; questo funge da archetipo dei linguaggi, in quanto fornisce il codice ritmico. L’arte, per Dòdaro, diviene il linguaggio del lutto per la separazione del soggetto dal complemento materno. Gelli, avendo subito la prematura scomparsa della madre, aderisce con entusiasmo al movimento dòdariano, firmando le proprie opere con un apposito timbro: Genetico numero due. È a partire da questo momento che l’elemento privato subisce una ulteriore velatura all’interno dell’opera aprendo il discorso poetico di Gelli ad altre declinazioni. Nel 1981 Gelli pubblica la cartella Transitional objects. Mutterfixierung all’interno della collana Violazioni estetiche curata da Francesco S. Dòdaro per le Edizioni Artestudio 36 di Lecce. Il motivo della partenza è polisemico. Ancora ritorna la partenza che se in precedenza (La valigia dell’emigrante, Taranto 1977 – precisando, dunque, che l’adesione all’arte genetica è dell’anno precedente) appariva legata ai traumi dell’emigrazione via via svela come il tessuto personale emerga trasformando il motivo in una trama identitaria ancora una volta frastagliata, discontinua, aperta a scossoni e sovrapposizioni. La formula alla quale ricorre l’autore è quella della “spedizione”, la quale indica di per sé la partenza di qualcosa, un movimento “di” verso qualcuno o qualcosa. “Espresso” è l’apposita dicitura che affianca l’elemento femminile. In altra declinazione la partenza, dunque. Un ritaglio di gambe di donna campeggia nella totalità dell’opera. “Espresso” in sovrapposizione muove verso una nascita o una separazione. O forse un raccordo, un andare verso. La dimensione del movimento è nella pratica autorale di Gelli esplicitata nella stessa discontinuità dei segni di diversa estrazione che si stratificano sulle opere. L’intenzionalità dei segni, esplicitati come “segnali”, indica di per sé un indirizzo, un indirizzarsi “verso”. Della stessa serie, Il parto nell’acqua: labbra di donna, un feto, il mare. La scansione genetica – l’opera rientra infatti nel percorso dell’arte genetica – è ancora declinata attraverso la spedizione, l’andare. “Espresso” questa volta dialoga con il mare. Le acque prenatali assurgono al motivo della nascita, ma nel rimando esplicito al mare/nascita indirizzano il tutto verso l’apertura e l’andare. Scrive Francesco Saverio Dòdaro nella nota introduttiva: «L’espresso: la voce soffocata. […] Ancora l’espresso. Ancora la voce soffocata. […] No, no. No, no. Non è possibile. La storia arcaica. Badisco. No, no. Scrittura genetica. No, no. Amo Venezia. No, no. Non è possibile. No, no. No, no. Ancora l’espresso. Ancora la voce soffocata. Voce rauca. Voce d’amore. Maggio 1981». La voce soffocata è rintracciabile nell’affollarsi dei piani discorsivi della progettualità autorale di Gelli. L’autore imbavaglia quasi il tessuto dell’opera, soffocando una più lineare possibilità espressiva, aprendo invece l’opera ad una significazione plurivoca. La voce soffocata è dunque il personale-autorale che sottoposto a distorsione è invocabile nelle trame di Gelli sotto le spoglie del motivo della partenza. La plurivocità della partenza è già nel titolo della cartella: Transitional objects. Gli oggetti transizionali di winnicottiana memoria, i quali rimandano ad uno spazio transizionale di sovrapposizione fra soggettivo e oggettivo rappresentando ad un tempo l’unione con la madre e permettendone, poi, il distacco. La mare di Otranto, del 1989-90, lega ancora l’autore a questo procedimento. Un volto di donna si materializza fra le onde, è onda. La duplicazione del modulo “onda” richiama il battito materno come codice ritmico teorizzato da Dòdaro, in quanto è ripetizione segnica e sonora. La duplicazione del materiale permette la strutturazione ritmica dell’opera. Il femminile è riannodato al grande mare originario, ma lungi dal rappresentare uno schema conclusivo Gelli continua a portare il lettore/osservatore sui piani di un orizzonte di criticità e apertura. Il mare come radura dell’esistente è propedeutico al processo esistenziale. Amo Venezia, sulla copertina de I trofei della città di Guisnes, romanzo di Antonio L. Verri pubblicato nella collana Il Quadrato – all’epoca diretta da Antonio Errico – per Il Laboratorio di Aldo D’Antico nel mese di dicembre 1988, è una risonanza, una radiografia, un cercare che è nuotare in un mare amniotico che accarezza il ventre della città, il passo del bambino, l’amore originario. In quest’ottica il motivo della partenza permette di riprendere e recuperare la declinazione politica della cartella La valigia dell’emigrante del 1977. Una barchetta di carta solca il mare. Una scrittura manuale, in cima all’opera, suggerisce l’indicazione, ha funzione di segnale, dice: Nord. Accanto, in posizione centrale in alto, una foto emerge quasi distratta, un dolmen che sembrerebbe rimandare alla ritualità storica del territorio che scatena la fuga. Una radice storica o – se si vuole – una radice maternale. Secondo Frazer nelle società matriarcali, primordiali, i dolmen avevano connotazione femminile. Mascheramento del simbolico: la partenza, ancora, in altra declinazione.

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