Note sull’asemic writing
by Francesco Aprile e Cristiano Caggiula

Premessa

Il lavoro qui presentato nasce dall’esigenza di attenuare, si auspica, la crescente ambiguità che caratterizza ciò che oggi viene generalmente inteso con asemic writing. Tale categoria, di cui l’accezione inglese oggi richiama un discreto network di artisti, è postuma alle produzioni che nel nostro tempo si suole circoscrivere con essa, o meglio, nel corso della storia diversi artisti hanno definito con concetti autonomi e identitari le proprie creazioni, dalle quali si possono scorgere caratteristiche comuni e assorbire sotto questa specie. Con la seguente produzione si desidera intendere quanto sia necessario aver presente come la definizione di asemic writing non sia dal punto di vista tecnico corretta, ma che sia una categorizzazione per sommi capi di produzioni indipendenti e frutto di ricerche soggettive, le quali hanno sicuramente tracce e contaminazioni di ulteriori correnti o sperimentazioni, ma che di fatto sono definite con diversi termini e concetti da molteplici autori. Ciò non è qualcosa di ovvio, poiché il leitmotiv del seguente contributo è rappresentato in particolare dal desiderio di limitare questa trascuratezza e dal comprendere come oggi si assiste ad una profonda confusione, per certi versi inconsapevole, riguardante la tipologia di creazione che effettivamente possa essere collocata in questa categoria. Si rivela nello scenario contemporaneo una accozzaglia terminologica e concettuale che sfortunatamente riguarda autori e critici, la quale causa una mescolanza poco gradevole. Di conseguenza si fa strada la necessità di rintracciare dei percorsi, se pur parziali, che possano guidare nell’intricata dimensione qui trattata. Non vi è alcuna pretesa di esaurire l’intero ambito, dacché lo stesso lettore potrà rendersi conto dei limiti di questa possibilità.

1. Dai modelli alla messa in crisi degli stessi

Elementi di scomposizione, desemantizzazione, destrutturazione del testo o dell’opera d’arte appaiono in maniera importante dalla fine dell’800 attraversando tutto il secolo successivo. Varie sono le forme che permettono un progressivo allontanamento dal senso. Dalla musique avant toute chose di Verlaine, che contribuisce ad articolare ulteriormente il discorso senza tempo della preponderanza sonora nell’afflato poetico, al Colpo di dadi di Mallarmé che apre allo sdoganamento del verso dall’impostazione tradizionale della pagina con conseguenti aperture nell’utilizzo dello spazio e verbalizzazione del vuoto, i Calligrammi di Apollinaire, le esperienze delle avanguardie storiche, la pratica dell’assemblages, dunque le forme di prelievo, di ripetizione, lo scoronamento joyciano della tradizione, la capacità coestensiva dei segni in Pound, la citazione poi teorizzata come forma di ripetizione transcontestualizzata (Hutcheon L., 1985, p. 11) che reca in sé scarto e differenza, le esperienze Dada nella poesia fonetica con Hugo Ball e la sua distruzione del linguaggio – o meglio regressione ad uno stadio infantile – o il ready-made di Duchamp come prelievo, la lingua transmentale di Chlébnikov, l’automatismo surrealista e ancora lo scavo letterario che cerca le basi nell’infanzia, la nuova oggettività tedesca e l’appropriation art (dal 1925), fino alle esperienze di catalogazione, elencazione, proprie di un certo materialismo letterario (Perec, Gleize, Ponge, Mac Low), il concretismo poetico avviato da Carlo Belloli, la scrittura concettuale, solo per citare alcune delle esperienze che percorrono nel corso del ‘900 quella rottura con la tradizione che si manifesta in salti di codice e cambi di paradigma.

2. L’asemic writing

2.1

All’interno del panorama novecentesco si muovono una serie di autori, dipanati lungo tutto il globo, che senza manifesti teorici comuni praticano linguaggi che oggi siamo in grado di catalogare sotto la voce asemic writing. Dagli anni ‘20 ad esempio partono le prime esperienze in ambito surrealista legate alla pratica autorale di Henri Michaux (Alphabet, Narration, 1927) mai abbandonate, che troveranno, dunque, una prosecuzione importante lungo tutta l’opera dell’autore.

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Narration by Henri Michaux, 1927

2.2

Prima di procedere all’analisi, osservazione e ricostruzione di questi percorsi, appare necessario proporre e introdurre una formulazione del concetto di asemic writing. Primo punto dal quale partire è la dicitura che vorrebbe la scrittura asemantica come «una forma di scrittura semantica aperta senza parole» (Scrittura Asemantica, Wikipedia) effettuata a partire dall’etimo greco del termine asemic. Tale definizione rende ambigue le fondamenta dell’edificio asemantico, la cui determinazione, di contro, dovrebbe essere ricercata ben oltre il ricorso all’etimologia con la conseguente rintracciabilità dell’etimo greco che rimanderebbe a “senza segno” (a- sema) piuttosto che ad una assenza di significato. Occorre contestualizzare il termine ancorandolo al secolo di sviluppo e divulgazione, legandolo dunque non alla parola greca sema (segno), che in questo caso va a fuorviare il senso, ma alla sfera semantica del linguaggio, inerente al significato delle parole che appare rintracciabile all’interno di un sistema di segni, mostrando come sia la possibilità di una decodifica la vera assente all’interno del discorso asemantico (che risulta senza significato ma non senza segno). Questo appare capace di proporre esperienze legate alla rappresentazione segnica di forme che richiamano nell’evocazione grafica un linguaggio, ma non risultano interpretabili dal punto di vista semantico – in assenza anche di strutture sintattiche e fonologiche – in quanto significanti senza significato, riacquistando, però, valore sul piano estetico in quanto opera. Caratteristica dell’asemic writing è quella di un risultato estetizzante delle forme che richiamano un linguaggio in progress che mai si codifica in significato. Per una più precisa definizione appare necessario collegarsi al termine inglese writing che indica da un lato la scrittura e dall’altro l’azione dello scrivere, dunque il processo, uno scrivere che è sul punto di crearsi, di formarsi, salvo avvenire soltanto in quanto aspetto grafico. È importante notare, a questo punto, che il termine writing, indicando l’azione dello scrivere, riconduce ad una certa manualità, ad un processo performativo, sorretto, per poter essere asemic writing, da tre concetti: 1) il processo gestuale della scrittura, 2) il suo non divenire mai linguaggio semantico, 3) la volontarietà umana del gesto, del segno (purché, si vuole sottolineare, non siano segni “dati”, es.: lettere, ecc.). A tal proposito «Le arti asemantiche sono quelle arti le cui manifestazioni si ritengono apprezzabili senza il riferimento ad un precostituito sistema di simboli semantici: tali, per es., sono le arti figurative, in contrapposizione ad arti semantiche, come la poesia o la narrativa.» (Asemantico, Treccani.it). In area anglo-americana, a differenza della sfera di ricerca italiana, si attesta il termine asemic piuttosto che asemantic. Ciò è dovuto alla vicinanza concettuale della pratica asemantica al termine asemia (una condizione più severa di afasia), una patologia che arriva a rendere impossibile l’utilizzo del linguaggio, e che può portare chi ne è affetto a sfociare in una scrittura asemantica, wordless, senza parole.

«Asemia is a more severe condition than aphasia, so it does have some similarities with the disease. People who have asemia have the inability to comprehend signs, symbols, and even language. They also have the inability to use signs, symbols, and language. People with asemia sometimes may take up asemic writing, which is “wordless” writing. What wordless writing could mean is that the writing looks like regular or traditional writing, but there is no content that makes sense. The concept of syntax, semantics, or even communication does not exist in asemic writing.» (Asemia, Wikipedia)

Ora, la questione della parola, assente nella scrittura asemantica, appare preponderante. Considerando l’assenza di un qualsivoglia codice e di una significazione semantica che priva il lettore della chiave d’accesso ai linguaggi in questione, ciò che manca è la possibilità di determinare un insieme di segni sotto la definizione di “parola”, che appare rinviata costantemente nella sua possibilità. Dunque un linguaggio colto e arrestato nel suo processo, privato della significazione sintattica e reso manifesto nella sua “tensione a” qualcosa che viene catturata sullo spazio dell’opera. Inoltre, numerose prove di asemic writing si strutturano sulla falsariga di scritture ideografiche, pittogrammi, dunque inscenando, attraverso il movimento della scrittura, un reale eppure effimero sistema di segni che sembrerebbe continuamente darsi come concetto, significato, ma appare nell’evidenza del segno e nel vuoto di una imminenza di senso che non possiamo cogliere. Un qualsiasi sistema grafico di segni non si mostra al lettore come “parola”, o insieme di parole, se il lettore è in realtà sprovvisto dei mezzi atti alla decodifica. Di qui viene meno anche la possibilità di un relative asemic writing, proprio perché un linguaggio qualsiasi, appartenente ad un sistema di segni di un gruppo sociale estraneo al lettore, risulterebbe asemantico, ma solo all’apparenza, perché resterebbe in sé provvisto del codice, della chiave d’accesso ad una eventuale decodifica. Ogni manifestazione umana può risultare asemantica, così come ogni elemento naturale, diverso è il caso se si parla di scrittura asemantica, come fatto fin ora, distinguendo, grazie alla classificazione per tre stadi indicata precedentemente, fra il semplice concetto di asemantico e l’asemic writing (scrittura asemantica) in quanto pratica letteraria/artistica.

2.3

L’asemic writing, nel suo attraversare tutto il ‘900, è maturato trovando ampia diffusione, a partire dagli anni ’70, nei gangli del movimento internazionale della poesia verbo-visiva. La sua diffusione in quel periodo trovava riscontro nell’accostamento all’arte astratta. Di fatto, erano anni in cui l’asemic writing risultava come il correlativo autorale, scritturale, dell’arte astratta. Solo a partire dagli anni ’90 raggiunge una dimensione “autonoma”.

2.4

È possibile rintracciare numerosi autori che nell’estensione dei linguaggi di ricerca si sono spinti di continuo sui versanti estremi del linguaggio, per poi sfociare spesso nella pratica asemantica. Il ‘900, lungi dal manifestare sporadici antecedenti, è attraversato lungo tutto il suo corso da autori, in ogni parte del mondo, che hanno praticato l’asemic writing anteriormente all’attestazione del termine, poi all’interno della poesia verbo-visiva e dagli anni ’70 con l’ormai accreditata etichetta di asemic writing. Di seguito alcuni autori: Henri Michaux, Raymond Queneau, Bruno Munari, Martino Oberto, Jean Degottex, Pierre Alechinsky, Jean Fautrier, Mark Tobey, Luciano Caruso, Tomaso Binga, Vincenzo Accame, Giulio Paolini, Irma Blank, Mirtha Dermisache, Brion Gysin, Roland Barthes, Cornelis Vleeskens, León Ferrari, Mira Schendel, Betty Danon, Vittore Baroni, Mario Parentela, Jano Barbagallo, Fernanda Fedi, Mennitti Paraito, Robert Sund, Art&Language, Judit Reigl, John Bennett, Sheila E. Murphy, Luigi Serafini, José Parlà, Demostene Agrafiotis, Bartolomé Ferrando, Francesco S. Dòdaro, Gu Wenda, Made Wianta, Gustavo Vega, Serse Luigetti, Giorgio Moio, Carla Accardi, Sergio Dangelo, Adriano Accattino, Susan Hiller, Isidore Isou.

Ritroviamo, fra gli esponenti contemporanei dell’asemic writing: Stephen Nelson, Denis Smith, Rafael Gonzalez, Rosaire Appel, Jean-Christophe Giacottino, Anneke Baeten, Arlo Yetes, Jeremy Balius, Bill Bob Beamer, Christopher Skinner, Ekaterina Samigulina, Karen Karnak, Satu Kaikkonen, Joe Herke, Philippe Magnier, Craig Svare, Gabriel Lalonde, Lucinda Sherlock, Kerry Pullo, Pat Bell, Carl Heyward, Cheryl Penn, Lina Stern, Michael Gatonska, Sam Roxas-Chua, Jeannette Cook, Laura Scaringi, Laura Wait, Carles Netto Luis, Miriam Midley, Nancy Burr, Reed Altemus, Sveta Litvak, Andrew Topel, Tim Gaze e altri ancora.

3. Scenari asemantici

3.1

Il processo di storicizzazione ed evoluzione delle scritture asemantiche può essere letto all’ombra delle teorie sociologiche del canadese Marshall McLuhan. Egli arrivò a teorizzare una società post letteraria (Post-Literate Society, 1962), partendo dalla prefigurazione secondo la quale il livello di evoluzione della tecnologia avrebbe portato ad un grado di multimedialità tale da indurre modificazioni sostanziali sul piano sociale e umano. L’uomo sarebbe diventato media literate, multimedia literate, visually literate, transliterate. L’alfabetizzazione avrebbe smesso il suo ruolo attuale per trovare, il termine, risemantizzazione alla luce dei cambiamenti mediali propri di una società il cui orizzonte doveva essere quello di una universalizzazione comunicativa, immediata, dove la cultura dell’immagine e del suono avrebbe ritrovato un ruolo di primo piano. Notava McLuhan che l’uomo sarebbe andato incontro ad una ritribalizzazione. Di ciò, sono segni evidenti quelli che appartengono al passaggio da una cultura verbale ad una nuova cultura dell’immagine e dell’oralità differente, tuttavia, dalle società pre-alfabetizzate le quali non possedevano ancora una loro scrittura. Allo stesso modo in cui Platone operava in una società, quella greca, che si trovava nel bilico del passaggio da una cultura orale ad una scritta (e lo stesso Platone sottolineava la “superiorità” dell’oralità riconoscendo però la necessità dello scritto), la società contemporanea può essere letta, nell’ottica delle evoluzioni tecnologiche, come un passaggio da una cultura scritta ad una visuale e al contempo orale, digitale e dinamica, immediata. Prime avvisaglie sono le violazioni estetiche del testo all’interno delle avanguardie storiche per poi proseguire con le esperienze delle successive avanguardie. Il pervertimento della storia attraverso gli inserimenti e le deformazioni introdotte da Emilio Villa nell’afflato calligrafico, autorale, gestuale, della sua scrittura. Con la poesia verbo-visiva risulta evidente il passaggio che il testo assume dal verbale al visuale (senza dimenticare l’accentuata e necessaria componente socio-politica e lo sguardo critico verso l’immagine del potere nei new media), passaggio che con l’asemantico non arretra e non cambia rotta, al contrario si estremizza nella valenza estetica di un segno che appare sempre in prossimità della verbalizzazione, sostando invece negli ambienti di una cultura visiva tipica di un uomo visually literate, perdendo forse quella componente critica tipica della poesia verbo-visiva. Gli aspetti sonori e performativi che assume la poesia lungo tutto il ‘900 contribuiscono inoltre a spostare ancor di più l’asse dal verbale all’orale e visuale. La scrittura – anche sotto l’influenza di una pittura segnica, gestuale (Kline, Mathieu, Hartung ecc.), performativa (Vedova, Pollock ecc.), o sulla scia di alcune tracce liberate da Jean Fautrier – apre fra gli anni ’40 e ’50 all’intervento libero del corpo, del gesto, che agisce con la sua pressione sul supporto fino a personalizzare la scrittura col fatto privato, il segno calligrafico, dell’autore.

fautrier

Jean Fautrier

L’asemic writing ponendo l’accento sul processo di un fare gestuale, quindi una scrittura in progress, si situa perfettamente nei piani di lettura di una società mutata, nelle sue pratiche e strutturazioni, dall’apporto mass mediale, multimediale, che nel passaggio dalla carta stampata ad un mondo pervaso da una miriade di nuovi media mostra come la stampa s’interessi a ciò che è accaduto; mentre «i notiziari televisivi sono più vicini a ciò che sta accadendo, e cioè, una specie di replay istantaneo della vostra stessa vita, mettendo l’accento non sul prodotto ma sul processo. La stampa, come il libro, è un prodotto confezionato. Le notizie sono un processo in marcia» (McLuhan, 1982, p. 87).

3.2

Nella sezione 2.1 si è accennato alle esperienze degli anni ’20 del ‘900, ossia a quando Henri Michaux si spinse su versanti estremi del linguaggio in un prodursi di opere oggi definibili come asemic writing. Indubbiamente la figura di Michaux rappresenta ancora oggi un punto di riferimento importante, con una produzione che da un lato vede alcune fra le prime consapevoli violazioni asemantiche, dall’altro riesce ad accostare una serie di contributi teorici oggi necessari ad indagare in maniera adeguata l’asemic writing. Maurice Blanchot nell’introduzione italiana ai testi Miserabile miracolo [la mescalina], L’infinito turbolento (Feltrinelli, 1967), afferma che «Michaux parla dell’infinito come di un nemico dell’uomo, della mescalina dice che “rifiuta il movimento del finito”: Infinivertita, stranquillizza». Appare essenziale la sottolineatura di Blanchot riguardo le parole di Michaux, mettendo in evidenza come sia già presente negli scavi dell’autore francese quella tensione al processo, quel paradosso che rifiutando il movimento del finito si affida al processo, al divenire, poi ingabbiato nella finitezza del segno sulla pagina, eppure rivolta al divenire perché processo, figlia della natura umana «che è invece incerta e indecisa; infinita, perché è eccessivamente finita» (Blanchot, L’infinito e l’infinito). Dalla decisione di Michaux di documentare gli effetti della mescalina, la conseguente catalogazione, segnalazione, del segno, si evince la presenza di una volontarietà del segno, definito come movimento vibratorio, gesto intimo, che se dall’inconscio muove verso il mondo, è colto nella consapevolezza di una volontarietà resa esplicita dal capovolgimento lacaniano del cogito di Cartesio, dalla messa in evidenza che il pensiero non è estraneo all’inconscio, e che questo muove di continuo un dialogo col conscio. Michaux mette in evidenza la povertà di immagini offertegli dall’uso della mescalina, nonché la ripetizione di queste, dei segni e dei gesti: tale povertà è ricollegata da Blanchot all’astratto. Ciò mostra come il collegamento fra scrittura asemantica e arte astratta sia sostanziato nella reciproca povertà di immagini e nella ripetizione dei segni che escludono una interpretazione semantica del linguaggio scritturale nell’assenza di strutture sintattiche e fonologiche, rimandando invece ad un vuoto di senso che nel processo dell’opera può essere fallito, disperso, e/o raccolto su un piano differente da quello della scrittura, da parte dell’osservatore, che lo riempie – o può riempire – proprio come l’osservatore di un’opera d’arte astratta. Di ogni esperienza, infatti, possiamo fallirne il senso, «la natura di ogni esperienza è tale che è quasi inevitabile che noi ne manchiamo il senso» (McLuhan, 1982, p. 104). E ancora «Da una delle ricerche di Borges traggo questa affermazione: “La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scavati dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono comunicarci qualcosa, o ce l’hanno già detta, e noi non avremmo dovuto lasciarla perdere, oppure sono sul punto di dirla; questa imminenza di una rivelazione, che non si produce, è forse il fatto estetico”. In questo modo ci ha forse suggerito, con la sua elegante discrezione, il suo proprio segreto: che scrittore è colui che vive con fedeltà e attenzione, con meraviglia, con ansioso dolore, nell’imminenza di un pensiero che mai altro non è che il pensiero dell’eterna imminenza» (Blanchot, L’Infinito e l’infinito). Esiste, dunque, il vuoto di una imminenza di senso che non possiamo cogliere e in questo forse consiste l’asemic writing, di questo fallire il senso si nutre, riconducendo la pratica letteraria e artistica, ad un vuoto, una manque à être lacaniana che si staglia come tensione, nell’opera, dunque come processo e che Blanchot individua nel linguaggio come destrutturazione del soggetto, il cui parlare appare ancorato all’assenza d’essere e Dòdaro rintraccia nella mancanza a essere quel vuoto nel quale risulta lanciato il soggetto nel suo venire al mondo e che vede nel linguaggio un tentativo di ricongiunzione verso la rifondazione della coppia, dell’unità duale. Ma il tentativo che fallisce il senso non nega, in quanto manifestazione umana, una comunicazione, celando nell’imminenza di senso di questo vuoto l’àncora mitica del mistero al quale è sottoposto l’uomo nel mondo e del quale fa continua esperienza, fallendone appunto il senso. Le pulsioni disperate che si stagliano nella cadenza catartica, che corrisponde con la liberazione del gesto, maturano un estenuante tentativo di colmare questo vuoto, forse afferrandolo (tentandovi), deragliando l’opera sul nulla di significato di un processo che non diviene programmaticamente senso.

3.3

3.3.1

Fra gli anni ’40 e ’50 il fattore gestuale della scrittura si spalanca definitivamente in quelle che erano le ricerche estetiche del periodo. Sono del ’47 le Scritture illeggibili di popoli sconosciuti con le quali Bruno Munari, attraverso la manipolazione della texture del segno, suggerisce nuove situazioni la cui illeggibilità non fa altro che offrire al lettore il segno e il suo mistero.

3.3.2

Sul finire degli anni ’50 l’asemic writing, non ancora provvisto di tale definizione, trova una ampia e diffusa articolazione in Italia, dove, all’interno delle linee di ricerca verbo-visive è l’uso della calligrafia a introdurre nell’operazione poetica sostanziali differenze. Infatti, «prima di tutto entra con forza nel testo la sfera del soggettivo, quasi del privato, diversamente dalla universalità linguistica e comunicativa ricercata nelle operazioni del primo concretismo: “la mano riafferma i propri diritti” afferma Menna “introducendo, con le deformazioni soggettive che essa reca con sé, una quantità di rumori che intralciano la comunicazione; …con l’intento di imitare la scrittura ne inventa totalmente una altra, situata in una zona intermedia tra pulsione e discorso”. È dunque la sfera legata alla gestualità, come insegna anche la grafologia, ad emergere in questo tipo di esperienza, sia nella sua dimensione fisica (scrittura come uso di inchiostro, matita, gesso, carboncino…; impatto della traccia con il supporto, inteso come pagina, tela, tavola…; energia impressa al movimento della mano), sia nella sua dimensione psichica di momento catartico e liberatorio di pulsioni profonde: “La parola regredisce volutamente a traccia e si dà, contro il carattere arbitrario-convenzionale già acquisito, come segno motivato, profondamente radicato dentro lo spessore delle strutture psichiche del soggetto agente” (Menna). Un processo di liberazione progressiva» (Pignotti-Stefanelli, 1980, pp. 160, 161).

3.3.3

martino oberto

Martino Oberto

Nel ’59 avviene la nascita della rivista Ana Eccetera «fondata da Martino Oberto con Anna Oberto e Gabriele Stocchi, che proponeva un discorso capace di coniugare aspetti all’apparenza opposti, lontani: un approccio analitico, rigoroso, alla riflessione, teorizzazione e pratica – anche artistica – ed un certo anarchismo dell’arte. Elementi che riecheggiano nel pensiero e nella pratica di Oberto giungono direttamente da Pound e Joyce, Cummings e Wittgenstein. Nel primo numero di Ana Eccetera si delinea già una prassi legata all’aspetto pittografico della scrittura alfabetica, dove la parola apre al segno ed alla possibilità che una consecutio logica assente possa aprire ad una consecutio di immagini, astratta, allusiva. Da qui la gestualità libera di Oberto e il richiamo del prefisso Ana colto nella dualità di Analitico-Anarchico» (Aprile, utsanga.it, #2, dicembre 2014). Successivamente attorno alla rivista andranno raccogliendosi altre esperienze significative come quelle di Vincenzo Accame (che introduce una scrittura manuale che in alcune prove sfonda la cornice della significazione semantica, sabotando il linguaggio in una circolarità grafica che pone l’opera su di un piano metalinguistico), Ugo Carrega (che nello scritto sul Rapporto tra il poeta e il suo lavoro tratterà la globalità comunicativa della pagina e le diverse possibilità della scrittura non più slegata dagli altri linguaggi), Corrado d’Ottavi e Luciano Caruso.

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Vincenzo Accame

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Martino Oberto, estratto dalla rivista “Tool”, N.1, 1965

3.3.4

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Christian Dotremont

Il gruppo Cobra, attivo fra Belgio, Danimarca e Paesi Bassi dal 1948 al 1951, fu fondato da Christian Dotremont, Joseph Noiret, Karel Appel, Constant, Corneille, Asger Jorn e Pierre Alechinsky, tendendo lo sguardo all’Art Brut primitiva di Jean Dubuffet. Questi tentarono uno svincolamento dall’ideologia politica del Surrealismo degli anni ’20, essenzialmente pittori, rappresentano una pietra miliare per l’espressionismo astratto europeo. Dal 1962 Christian Dotremont, pittore e poeta, sviluppa i logogrammes (Peinture mots) «scrittura a mezza strada fra lettere e disegno, “danze reali fatte da parole”» (Didier B., 2005, p. 395). I logogrammes non rientrano però nell’asemic writing, in quanto accompagnati da trascrizione leggibile e dotata di senso, eppure nutrono da sempre l’immaginario asemantico fungendo da linfa e ispirazione. Dotremont, principalmente influenzato dall’arte orientale e araba, tenta con i logogrammi di trascrivere il movimento vitale dei corpi, dei gesti, dei respiri, appunto la vita. Precisione, unicità del tratto e decisione, sono caratteristiche della tecnica di Dotremont, la quale gioca sulla trasfigurazione del segno, estremizzandolo, accompagnando i logogrammi con una trascrizione leggibile dell’opera. Ciò comporta un gioco, fra le parti chiamate in causa, capace di amplificare la portata poetica e immaginifica del lavoro. Il suo segno si mostra come un lontano ricordo di linguaggio, allo stesso modo di come la pittura cinese mostra in reminiscenza i paesaggi, spesso rappresentati in maniera indeterminata e indefinita. Gestualismo arabo-orientale, irripetibilità del segno, una certa filosofia della complementarietà degli elementi, pratica Zen, e la ripresa del movimento insito nel linguaggio arabo, la parola che diviene solo nell’emissione di fiato, di respiro, di movimento. L’estremizzazione grafica di Dotremont appare figlia del movimento che è una radicazione nel corpo, nella realtà materiale e materica della vita. Di particolare importanza è l’opera di Pierre Alechinsky che nel ’45 aveva scoperto l’opera di Michaux e quella di Dubuffet. Non di rado, Alechinsky, realizzò opere il cui segno pittorico risultava tendente alla grafia, connotando l’opera pittorica per una forte tensione al gesto autorale.

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Pierre Alechinsky

3.3.5

isidore isou

Isidore Isou

Il Lettrismo, nato in Francia nei primi anni ’40, rivolge la sua attenzione al superamento del contenuto testuale, indirizzando la propria poetica verso la scomposizione dell’opera che risulta dalla messa in evidenza dell’elemento minimo, le lettere. Queste, considerate in quanto materia, propongono un percorso che porta alla rinuncia della parola privilegiando l’aspetto visivo del lettering: le lettere diventano opera nel loro porsi in forma di blocco. Da questo punto di vista gli autori lettristi non hanno prodotto opere propriamente asemantiche, in quanto l’utilizzo del lettering, dunque di segni dati, comporta sì la scomposizione del linguaggio, ma restano vive le tracce di una dimensione già data e codificata. Al contrario, in alcuni casi, autori come Isidore Isou e Gabriel Pomerand liberano l’azione dello scrivere producendosi in opere asemantiche, lavorando sulla traccia, sul segno o sull’invenzione di simboli, dunque di un linguaggio sprovvisto di contenuto semantico.

3.3.6

La pratica poetica di Emilio Villa occupa una posizione appartata, eppure centrale, nel panorama delle esperienze di ricerca, sempre al margine per tensione poetica, ma crocevia fondamentale per gli artisti e autori più spinti sui versanti del sabotaggio dei linguaggi, ed è esattamente di questo che bisogna parlare per l’opera di Villa. Egli inserisce di continuo elementi testuali volti ad alterare e sabotare l’ordine costituito, gerarchico e tradizionale, di lettura e scrittura, per manipolare l’andamento del testo e intervenire manualmente fino alla deformazione del costrutto tipografico per mezzo di una scrittura manuale dal forte impatto visivo. Essa sarà capace di indurre suggestioni, fungendo da linfa per i successivi autori della sfera asemantica. Basti pensare a quanta importanza assume per i successivi autori la dimensione vettoriale dell’opera villiana, dunque l’utilizzo di frecce e di una grafia sovrapposta, slabbrata, deteriorata e indirizzata nello spazio della pagina in modo da destabilizzarne il costrutto tipografico-razionale. Il pervertimento del testo è il pervertimento dell’ordine storico. Una scrittura da vedere la cui «disinvolta informalità logica è un agglutinante colpo di stato semiologico» (Ballerini L., 1975).

3.3.7

In Italia, negli stessi anni cui andava formandosi il Gruppo 70, a Napoli nasceva attorno alla rivista Linea Sud la cosiddetta neoavanguardia napoletana, con, fra gli altri, Luigi Castellano (Luca), Stelio M. Martini, Luciano Caruso e la stretta partecipazione di Mario Diacono.

 «Appare rilevante il paragrafo finale (“Notizie sugli anarchici”) dedicato a una tendenza emergente della Neoavanguardia italiana, espressa da autori letterariamente anarchici quali Emilio Villa, Mario Diacono e Stelio Maria Martini: rifacendosi al modello del surrealismo post-bellico, che aveva abbandonato gli stretti legami col partito comunista francese per abbracciare l’anarchismo, questi poeti avevano scelto una scrittura di tipo libertario (che Diacono aveva definito “poietica”), con taluni risultati molto vicini alla trasformazione della parola in ideogramma». (Spatola M., in Testuale Critica)

Precisamente Mario Diacono, definendo come poietica la sperimentazione che ruotava attorno alla rivista Linea Sud traccia i dettami di una poetica che riconduce direttamente all’azione, un pensiero e una scrittura in movimento, anarchici, che liberano in pieno la gestualità del corpo, il quale è completamente lanciato nel processo dell’opera. Scrive Maurizio Spatola, introducendo nel suo archivio online la ripubblicazione del secondo numero di Linea Sud, che «La rivista di cui si riproduce qui integralmente il secondo numero, dedicato alla poesia sperimentale e pubblicato alla fine di aprile del 1965, costituì per qualche anno a Napoli il fulcro di una frenetica attività di ricerca sui nuovi linguaggi dell’arte e della poesia: lavorìo parzialmente collegabile a quella Neoavanguardia nata dalla “provocazione” dei Novissimi nel ’61 e in un certo senso codificata dal Congresso fondante del Gruppo 63 di Palermo, ma che si presentava con una sua peculiarità tutta partenopea. Particolare caratteristica che il giovane Adriano Spatola, in un suo articolo apparso sul periodico bolognese “Il Mulino” nel gennaio 1964, identificava come “anarchica”, riferendosi anche alle connessioni fra la matrice surrealista, il pensiero del romano Emilio Villa e quello del più battagliero fra i “movimentisti” napoletani, Mario Diacono, uno dei fondatori di “Linea Sud”» (Spatola M., archiviomauriziospatola.com).

Così dal “manifesto” programmatico di Diacono emerge un abbandono anarchico al segno, la liberazione del corpo, la necessità di non significare: «Stato patologico di cultura. Nella scrittura, iperlogos. Nascondimento infraverbale di tematica, struttura, ideologia. Denazionalizzazione della lingua, plurivocità del lessico, annientamento del senso umanistico. Abbandono anarchico, nevrotico al segno… spudorata dichiarazione non pubblicistica a-comunicativa… la scrittura poetica, la scrittura originaria, reclama le libertà di stare per sé e contro, di non collaborare, di non comunicare, di essere».

Tendenza anarchica, pratica gestuale della scrittura, trasformazione ideogrammatica del testo poetico, volontarietà a-comunicativa e trasposizione materica del gesto autorale, fanno delle esperienze napoletane di Diacono, Caruso e Martini degli elementi di primo piano che dalla scrittura gestuale aprono all’asemantico in virtù di quella volontà a-comunicativa che si faceva materia e diretta espressione dell’anarchismo poetico di matrice surrealista.

luciano caruso

Luciano Caruso, estratto da “Dal liber de broliis”, Galatina, Il Laboratorio, 1989 – Collana “Scritture” fondata e diretta da F. S. Dòdaro

3.3.8

Judit Reigl, pittrice francese di origine ungherese, vicina al gruppo surrealista, stringe rapporti con Breton che nel 1954 introduce in catalogo la sua prima mostra. Riguardo alla serie di lavori che la Reigl realizzò fra il 1957/59 il musicista Yossi Gutmann ebbe modo di descrivere il lavoro della pittrice paragonandolo al suo approccio musicale, un approccio in cui si è “portati” dal suono, si è “cambiati” dalla tonalità. Risulta influenzata dagli automatismi surrealisti e dalle pratiche autorali di Henri Michaux. Pratica nel biennio 1965/66 una serie di scritture denominate Writing after music, in cui il movimento della mano era spinto in una sorta di automatismo, influenzato e dettato dall’ascolto della musica. Da questo punto di vista risulta vicina, inoltre, alle tecniche in semi-trance dei poeti Beat che in quegli anni a Parigi avevano un importante seguito, salvo sottolineare gli approcci e gli esiti differenti, laddove la Reigl opera sul piano gestuale aprendo ad una scrittura che oltrepassa la significazione e riporta il gesto in forma di traccia. Da qui un collegamento plausibile con Gysin. Dunque il motivo del flusso e del movimento, risulta importantissimo nell’opera dell’artista francese. Il segno pittorico, sempre connesso alla musica, la quale detta il movimento e alla scrittura (si pensi inoltre alla serie Mass writing dove la scrittura nella sua accezione comune sparisce ed emerge l’esasperazione della sua massa, del corpo della parola impressa in forma di traccia, di segno magmatico ed eccessivo), è un movimento deciso dove le tracce dell’autrice si cancellano nell’abbandono del corpo ai sensi che si perdono nel ritmo della musica. Janos Gat descrive l’opera della Reigl come Panta Rei. Ammiratrice dell’opera di Fautrier, Wols ed Ernst, ella fu scioccata fin dal suo primo incontro con Georges Mathieu, da una sua piccola opera alla finestra della Galerie Pierre Loeb. Benjamin Perl, musicologo e pianista, ha notato la somiglianza tra le tracce di segni della Reigl e la scrittura idiosincratica (scrittura priva di notazioni comprensibili) di Mozart. Il gesto della Reigl si pone come la registrazione in presa diretta del flusso dei pensieri o del corpo, oppure di entrambi, sempre sotto l’influenza della musica. Numerose opere sono realizzate ascoltando Mozart. Sempre Perl afferma che nell’opera della Reigl si riscontra non una registrazione dell’universo soltanto, bensì della musica che diventa universale. Ciò che emerge è la frantumazione dell’ordine razionale del mondo a vantaggio di una espressione personale. L’opera è il flusso stesso dell’artista.

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Judit Reigl, Writing after music, 1965 – UBU Gallery

3.3.9

 Art & Language è un collettivo di arte concettuale formatosi nel Regno Unito sul finire degli anni ’60 con la rivista Art-Language del 1969. Al sodalizio fra Terry Atkinson e Micheal Baldwin si aggiunsero ben presto Harold Hurrell e David Bainbridge. Nel corso degli anni ’70 il gruppo si sarebbe allargato ulteriormente raggiungendo carattere transatlantico. Resistenza al significato, che si è poi evoluta in volontaria assenza di significato, il testo come opera ben al di fuori di ogni intento di significazione e veicolazione di qualsivoglia concetto testuale, rapporti di equivalenza fra immagini e parole, parole e parole, immagini e immagini, traducono l’indeterminazione politica e la difficoltà di fare di una qualsiasi ideologia materiale di lavoro del gruppo. Sono questi alcuni dei punti fondamentali dell’attività del collettivo. Con gli Indexical Fragments a partire dagli anni ’70 il gruppo propose una serie di testi o frammenti di testi, realizzando opere che mettevano in evidenza il rumore di fondo e il deterioramento del contenuto all’interno del carattere prettamente colloquiale che infondevano all’opera. L’aspetto decorativo dei frammenti di testo – a volte anche manuali – dirottava ulteriormente l’attività del gruppo verso una dimensione degenerativa del senso.

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Art & Language from MACBA Barcellona

3.3.10

Sul finire degli anni settanta Luigi Serafini avvia la redazione del Codex Seraphinianus (Serafini L., 1981). Pubblicata nel 1981 dall’editore Franco Maria Ricci, l’opera si presenta in forma enciclopedica e ha suscitato interessi e fermenti inerenti la decodifica del suo linguaggio. La struttura dell’opera offre delle immagini affiancate da “spiegazioni” del tutto incomprensibili. Dalle dichiarazioni dell’autore non è possibile una trascrizione dell’alfabeto con cui l’opera è stata redatta, poiché esso non corrisponde ad alcuna lingua immaginaria o esistente. Nell’edizione Rizzoli del 2013, all’opera è allegato un Decodex prodotto dallo stesso Serafini e da esso si rendono intelligibili alcune sperimentazioni legate alle fattezze dell’enciclopedia. Infatti, la scelta di una linguaggio asemico, è motivata dall’autore dal redigere una lingua indecifrabile che possa rendere liberi i fruitori di rivivere quelle vaghe sensazioni che accompagnano il fanciullo nello sfogliare libri illustrati fingendo di sapere leggere, fantasticando sulle figure del libro. Con queste parole l’editore commenta il Codex nel frontespizio delle prima pubblicazione del 1981: «Osservando le partizioni, il lettore avrà forse l’impressione di ascoltare la musica senza parole de Sapere».

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Luigi Serafini, Codex Seraphinianus

3.3.11

mark tobeyMark Tobey, pittore statunitense, nel ’34 dopo un viaggio in Cina e Giappone iniziò a interessarsi all’arte calligrafica, interesse che lo portò ad esplorare anche le scritture arabe e persiane. Esponente dell’espressionismo astratto, è proprio a partire da questa pratica, unita all’interesse per le scritture calligrafiche, che realizzò una serie di lavori, inerenti la scrittura, la quale appariva come sottotraccia nel pensiero e nel modus operandi di Tobey, denominati white writings. Tobey, pittore, come Michaux e Dotremont (i quali erano anche poeti), nei frangenti riguardanti questa tipologia di opere mostrava di avere come riferimento la scrittura, slegata dalla concezione tradizionale, ancorata al gesto e al processo performativo.

3.3.12

In Italia, l’influenza di Tobey, si avvertì soprattutto su di un piano essenzialmente pittorico. Il segno entrava con forza anche nella pittura di Sergio Dangelo, negli anni ’60 molto segnata dai white writings di Tobey, ma – restando negli anni ’60 – anche alcuni segni di Carla Accardi mostrano un ascendente asemantico.

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Carla Accardi, 1968

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Sergio Dangelo

3.3.13

Raymond Queneau, del quale nel 1980 vengono pubblicati delle pagine dei suoi diari per merito della rivista Temps Mêlés. Documents Queneau, nella pubblicazione 150+8. Da queste pagine emergono delle sperimentazioni grafiche interessanti, facilmente riconducibili all’asemic writing. Riproposte da Tim Gaze e Christopher Skinner, nella pubblicazione dal titolo Ecritures, tali produzioni rivelano una comunanza nel segno con alcune raffigurazioni di Alfred Jarry del suo Ubu roi, il che non dovrebbe sorprendere tenendo conto dell’Ouvroir de Littérature Potentielle e delle sperimentazioni patafisiche dei due autori. Si rivela, di fatto, una tipologia di produzione peculiare di un’artista che stressa il linguaggio e ne distorce l’usuale interpretazione, poiché ciò che è atto a rappresentare una fonte di errore, intendendo la produzione asemantica come scrittura erronea in quanto non significativa, ciò, di contro, diviene una potenziale ed eventuale soluzione o realtà stessa, in linea concorde con ciò che oggi precisiamo e definiamo come asemic writing.

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Queneau, dal sito dell’editore SecretBook

3.3.14

Diffusamente il termine scritture asemantiche viene ricondotto al testo che Gillo Dorfles scrisse nel 1974 riguardo le opere di Irma Blank. Ampi spazi appaiono come campiture di colore che svelano via via la trama fittissima di segni rimandanti a calligrafie asemantiche, segni filiformi che mimano scritture, ravvicinate, strette, che dominano lo spazio dell’opera senza alcuna significazione.

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Irma Blank

«In un periodo come l’attuale, di esasperazione linguistica, – ossia di presa di coscienza ma anche di eccessivo sfruttamento di tutto l’apparato che regola i vincoli, le concatenazioni, le modificazioni, del linguaggio (verbale e non verbale), – era prevedibile anche un infittirsi di attività artistiche (ossia «gratuite», puramente immaginarie, non funzionali) attorno a questo settore principe della comunicatività umana. Prova ne sono le molteplici forme di poesia visiva e concreta, di pittura basata sul segno (da Capogrossi a Tobey a Twombly), e finalmente le infinite incarnazioni d’un’arte visiva che, di un segno pseudo-grafico o pseudo-ideografico, fa la sua base d’azione. La pittrice italo-tedesca (o, meglio tedesca di origine e italiana d’adozione) Irma Blank è stata, pure lei attratta da questo aspetto della visualità: un aspetto così sottilmente ambiguo me anche così rigorosamente controllato; e ha dedicato l’ultima fase del suo lavoro ad una serie di opere tutte impostate su quella che possiamo, credo esattamente, definire una «scrittura asemantica»: una sorta di grafia-ortografia, che si vale d’un segno ben individualizzato (con tutte le caratteristiche della personalità di chi lo usa), ma privo, vuoto, scevro, da ogni semanticità esplicita, giacché non è costituito da – né è scindibile in – «segni discreti», in lettere d’un sia pur modificato alfabeto, né in ideogrammi sia pur alterati o neoformati.» (Dorfles G., 1974).

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Tomaso Binga

Nel 1972 già compare il termine di scritture asemantiche. La performer e poetessa visiva, sperimentale, Tomaso Binga, realizza un progetto da lei denominato come Scrittura asemantica. Alcune opere fra quelle appartenenti alla serie Ritratto analogico (1971/72), ad esempio, mostrano chiari i segni della gestualità asemantica, dove la texture calligrafica, smessi i panni della significazione semantica, sembra custodire i segreti della corporalità umana, il mistero del volto, l’espressione dell’altro che si manifesta non nella riproposizione “ritrattistica” bensì nella messa in evidenza del privato-corporale che emerge dal movimento gestuale dell’opera. Con la serie Azzeramento della scrittura (1974) l’asemantico è un atto definitivo.

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Tomaso Binga

3.3.15

luciano caruso - omaggio a burri (porte di sibari - 1990)

Luciano Caruso

Le porte di Sibari è stato un gruppo di ricerca letteraria italiano. Fra le attività del gruppo si ricordano e segnalano le cartoline d’artista pubblicate dall’editore Belforte (Livorno) nella collana Le Brache di Gutenberg diretta da Luciano Caruso e S. Puccetti. Poeti verbo-visivi, autori che hanno radicato la scrittura in un fare gestuale e anarchico, lungo gli anni ottanta/novanta realizzano opere, all’interno di questo gruppo (ma singolarmente lo facevano già precedentemente), in cui nella dimensione verbo-visiva affiorano momenti autorali anarchici, legati al gesto, che liberano una scrittura materica senza intenti di significazione. Fra gli autori ricordiamo: Luciano Caruso, Francesco S. Dòdaro, Mario Parentela, Mennitti Paraito, Jano Barbagallo, Fernanda Fedi, Fernando Andolcetti, Enzo Miglietta, Gigi Caldanzano, Carmine Cianci, Franco Magro e altri ancora. Fra questi, all’interno del gruppo, alcuni hanno sviluppato questa caratteristica della verbo-visualità. A testimonianza di ciò riportiamo alcune immagini.

mario parentela - le porte di sibari 1990

Mario Parentela

mario parentela - porte di sibari 1990

Mario Parentela

3.3.16

L’autore australiano Tim Gaze nell’introduzione a The oxygen of truth (1999) dichiara di praticare la scrittura asemantica di notte ascoltando musica, ad esempio drum’n’bass o dub, di modo che la stanchezza dovuta all’ora notturna e l’influsso della musica guidino il lavoro portandolo ad uno stato di “non mente”. La parte razionale che entra in funzione per la costruzione logica della frase è aggirata in una pratica, afferma ancora Gaze, simile allo Zen e che libera l’intuito più che la mente. L’azzeramento fra pensiero e gesto libera i moti dell’inconscio. Su questo tracciato ritroviamo il lavoro più recente di Adriano Accattino, la cui opera Atropoiesi. Poesie scritte al buio, è edita da Mimesis nel 2015. Con ciò cogliamo l’occasione per approfondire una tipologia di lavoro che rappresenta lo scandaglio autorale di una dimensione antica, gestuale, figlia del corpo e della sua liberazione che accorcia le distanze fra pensiero e agire. Un lavoro che agisce in maniera drastica sul pensiero, in un tentativo di azzeramento, e incontra in alcuni esiti la dissoluzione del linguaggio, laddove il pensiero mostrandosi in forma di linguaggio, e da questo reso possibile, porta nella sua lenta sparizione ad un gestualismo segnico che perde ogni significazione e si mostra in termini di azione. I testi di Accattino sono scritti nei mesi di maggio e giugno 2014 durante un ricovero ospedaliero dopo che l’autore era stato colpito da un fulmine. Scrive di notte, al buio, così che la stanchezza dovuta al sonno e l’assenza di visibilità portano ad una scrittura che tradisce il pensiero razionale, eludendo in molti casi l’idea di frase che l’autore avrebbe voluto scrivere. Le frasi appaiono sulla carta come ghirigori, segni, tracce che si sovrappongono e a volte cancellano la precedente, coprendola, similmente alle immagini e parole nel concetto freudiano dell’inconscio elaborato nella Nota sul notes magico. Spesso i segni sconfinano nell’asemantico producendosi da una gestualità intima. Entrambe le ricerche rimandano in un certo qual modo all’approccio surrealista, allo scandaglio di Michaux, alle opere sotto l’azione generativa della musica in Judit Reigl.

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Adriano Accattino from “Atropoiesi. Poesie scritte al buio”, Fano, Mimesis, 2015

3.3.17

 «Credo, in realtà, che si possa convenire con Mathieu come l’avvento della pittura “segnica” e “gestuale” costituisca un fenomeno inedito per l’arte occidentale: il fatto che l’improvvisazione sia alla base di tale pittura, e che a questa improvvisazione sia legata la rapidità dell’esecuzione e la sua non “premeditazione” è certo un aspetto sino a pochi anni fa impensabile. Ed è forse anche vero che, per la prima volta nella storia (come afferma sempre Mathieu), invece di aversi un significato che precorre l’instaurarsi del segno, si ha un segno che anticipa il significato: il “signifiant” precede il “signifié”.» (Dorfles, 2001, p. 29).

E ancora, spostando l’attenzione sui versanti esplicitamente autorali: «Ho iniziato a scrivere e il risultato è stato qualcosa di illeggibile. Di fatto l’illeggibilità è un aspetto fondamentale delle mie opere. Col senno di poi devo ammettere che tutte le mie opere creano una tensione tra i format comunicativi che offrono un quadro stabile, e il gesto di realizzazione della scrittura che offre la dimensione instabile. Forse si può dire che per me la liberazione del segno avviene all’interno della cultura e della storia, e non ai margini. In questo senso il mio è un lavoro attuale. A livello grafico, ogni volta che inizio a scrivere, sviluppo un’idea formale in grado di trasformarsi nell’idea del tempo. Il mio lavoro è caratterizzato dal movimento. Non esistono delle forme chiuse. Il mio lavoro non nasconde segreti. Sviluppo una forma fino al suo punto di massima evoluzione. Non si troverà nessun titolo in cui si faccia riferimento a un sentimento o a una dimensione psicologica. I titoli si limitano a identificare il formato, vale a dire il modo di organizzare le scritture sullo spazio del foglio ed eventualmente l’ordine di uscita in un determinato anno di produzione.» (Dermisache, 2011).

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Mirtha Dermisache, 1970

Mirtha Dermisache, autrice argentina che fin dai primi anni ’70 lavora sui versanti dell’asemantico, pone ancora l’attenzione sulla situazione a-comunicativa, l’illeggibilità che deriva dalla liberazione del gesto, dal movimento autorale che guarda alla tensione estrema del linguaggio in una dimensione di attualità storica e culturale.

Il pittore e il poeta stavano cambiando. Ci si libera del “saper-dire” afferma Michaux, è il dominio del significante sul significato, le forme si aprono, si liberano, è l’emancipazione del segno, la ritribalizzazione annunciata da McLuhan, i suoi scenari di immediatezza comunicativa si fanno lampanti. La cultura orientale entra in dosi massicce nelle ricerche poetiche e pittoriche occidentali. L’immediatezza dello Zen, la non premeditazione che comporta uno spossessamento del senso, diseredato, o forse il senso che è tutto nel significante del corpo, nell’espressione armonica dello stesso, in rapporto al mondo. La corporalità del linguaggio e le sue vaste espressioni lette come congiunzione (Dòdaro, 1979). Michaux guardava alla mistica medievale, alla circolarità della sfera, al suo movimento catartico (ancora l’oriente). Le deformazioni calligrammiche di Zhang Xu, ossia la deformazione quasi espressionistica del calligramma cinese, assai performativa come prova, non asemantica, sicuramente importante antecedente di trasfigurazione del segno e liberazione del corpo.

3.3.18

Nella contemporaneità la sfera di intervento e interesse dell’asemic writing appare sottoposta a ripetute indagini e tentativi di dare una definizione quanto più aderente possibile alla pratica, al punto che si cercano a più riprese nuovi termini in grado di accogliere l’area di intervento dell’asemic. Si ravvisa una seppur minima distinzione fra asemic handwriting e asemic writing, ad esempio il volume An Anthology of Asemic Handwriting, curato da Jacobson e Gaze per Uitgeverij nel 2013, restringe il campo d’azione indirizzandolo verso la dimensione di una scrittura manuale. Definizione e restringimento che qui invece accettiamo fin dall’inizio del testo a partire dal termine inglese “writing” che indica appunto l’azione dello scrivere e che qui si vuole intendere in termini di movimento (sia che questa azione manuale dello scrivere sia su supporto materiale che digitale – tablet, tavoletta ecc. – escludendo invece i collage, sia analogici che digitali, e la semplice fotografia di un oggetto o scenario qualsiasi sottoposta a filtro grafico, ribadendo dunque la presenza di una volontarietà del movimento gestuale). Altri esempi si trovano nei concetti di dritings (drawning-writing) e to drawrite rispettivamente coniati da Bill Bob Beamer e Marco Giovenale. Entrambi pongono l’accento sulle componenti dell’asemic writing in quanto disegno e scrittura. Trova un buon utilizzo anche il termine Language Art, sicuramente più generico e capace di inglobare più campi di indagine. Secondo l’International Council of Teachers of English esistono cinque momenti del Language Art: reading, writing, speaking, listening e visual literacy. Al di fuori della visione dell’International Council of Teachers of English, però, il termine Language Art si attesta in aree artistiche che non di rado sconfinano nell’asemantico contando su di una presenza visiva dell’elemento gestuale legato alla scrittura, la quale anche in queste forme non assume contenuti semantici. In quest’ottica il termine Language Art è utilizzato dall’autore Jeremy Balius. Ritroviamo, inoltre, nel catalogo della mostra The dark would. Language Art Exhibition (Edimburgo dicembre 2013-gennaio 2014) alcune opere di autori racchiudibili nei confini e nelle dinamiche dell’asemic writing, come ad esempio alcuni interventi di Susan Hiller.

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Susan Hiller

In un testo del poeta Jim Leftwich è data la teorizzazione e definizione dell’useless writing che in maniera più ampia dell’asemic writing definisce un campo d’azione che ingloba l’asemantico e va a comprendere anche il resto delle scritture private, manuali e non asemantiche.

Asemic from Le porte di Sibari

fernanda fedi

Fernanda Fedi

mennitti paraito - le porte di sibari

E. Mennitti Paraito

mennitti paraito - porte di sibari - 1990

E. Mennitti Paraito

Other asemics

dodaro 1983 frammento di un discorso disperso

Francesco Saverio Dòdaro, Frammento di un discorso disperso, 1983

nancy brush-burr

Nancy Burr, from: http://poeticks.com/category/asemic-art/

john bennett from asemic art poeticks

John Bennett from: http://poeticks.com/category/asemic-art/

giorgio moio - risvolti - n 8 - aprile 2002

Giorgio Moio, estratto da “Risvolti”, n. 8, Edizioni Riccardi, aprile 2002

 

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