“O ciuccio ca vola”: plurilinguismo e neo barocco in Lubrano
by Paolo Allegrezza

 

Chi frequenta l’opera di Lubrano sa quanto le sia consona la nozione di intersemiosi, praticata nel corso di un lavoro poietico pluridecennale, in qualità di musicista, artista visivo, performer, poeta. Impegno che si estende alla produzione stessa del manufatto che, secondo lezione spatoliana, emerge periodicamente dalla fucina di TERRAdelFUOCO con scelta grafica curatissima riecheggiante il montaggio dadaista; tecnica che vanta nobili precedenti in area napoletana: Luca (Luigi Castellano), Luciano Caruso, Stelio Maria Martini e in generale il movimento di avanguardia degli anni ’60-70, costituiscono uno degli imprinting di Lubrano. Elemento precipuo ne è il rimando all’arte totale, anche in quest’ultima prova, “O’ ciuccio ca vola”, in cui si esplicita la scelta del romanzo, pur sabotando eventuali aspettative di fedeltà al codice grazie all’alternanza di prosa e verso, agli inserti visivi, alla stessa irregolarità dei caratteri tipografici; “romanzo sperimentale (…) un romanzo pornografico osceno e delirante come solo la poesia sa essere pornograficamente oscena di estrema incorreggibile bellezza”. Romanzo e avanguardia, il binomio esplicitamente posto da Lubrano, grazie anche all’intenso lavoro di ricostruzione del “campo” di cui, con il suo Lab-Oratorio Poietico, è stato artefice in questi anni. Congiungere fili, rivendicare parentele, connettere le diverse stagioni, questo il lavoro critico da accompagnare all’”avanguardia permanente”, tema rilanciato da un recente fascicolo a più voci curato da Lubrano.

Che il Gruppo ‘63 non abbia prodotto romanzi di qualità, (in ultimo, https://www.leparoleelecose.it/?p=12275) è tesi smentita non soltanto dalle uscite del biennio ’63-64 in cui pubblicano Arbasino, Sanguineti, Manganelli, Lombardi, ma anche dalla quantità di altri autori (tra gli altri, Malerba, Niccolai, Porta, Spatola, Vasio, Vassalli), attivi in quell’ambito. Né si può dire che, nonostante la condanna alla semi clandestinità, il territorio del romanzo sperimentale sia rimasto deserto in anni recenti. A fronte del dilagare delle scritture di genere, affiancate dalla persistenza del romanzo intimista, non sono per niente mancate dalla scena opere ascrivibili a un paradigma alternativo; tanto per fare qualche nome, Alvino, Bortolotti, Fontana, Mozzi, Ottonieri, Policastro, Vasta, testimoniano, nell’ambito di diverse generazioni, una reviviscenza della funzione sperimentale da valorizzare. La premessa non è naturalmente nell’appartenenza a un gruppo, né vi è alcun nouveau roman cui guardare, ma è dalla destituzione di un letterario appiattito sul verosimile che questi autori prendono le mosse. Adottando ciascuno una sua versione dello straniamento, ché proprio il ribaltamento della comune percezione costituisce elemento germinale delle scritture di opposizione.

Il plurilinguismo neo barocco di Lubrano implica il lavoro su un duplice livello di stratificazione: lessicale e “narrativo”. Nel primo caso latino, lingua napoletana e salentina, unitamente ad un prevalente registro neutro in prosa, cui corrisponde la voce di un narratore esterno che si rivolge a un pubblico fittizio. Ne scaturisce l’effetto di una sorta di resoconto delle avventure di AnnArosa, dove quel che si segnala è il ritmo impresso al gioioso girovagare della protagonista; sequenze prive di punteggiatura e separate da spazi bianchi al cui interno compaiono inserti in prima persona, citazioni, interrogazioni che producono uno scarto, ma non un rallentamento, rispetto al piano prevalente della narrazione. La stratificazione d’inserti lessicali e visivi contribuisce a produrre una “variante Lubrano” dello straniamento che travalica il testo scritto verso la dimensione del gesto e dell’oralità, come se il testo si mettesse in scena. Bettini parlò giustamente di un “fenomeno sinestetico” intrinseco alla poesia di Lubrano, ora possiamo dire che questa pratica ha trovato espressione anche nel romanzo.

Passando al piano narrativo, la stratificazione si amplifica. Vi è la storia di AnnArosa, costretta ininterrottamente a ballare la pizzica perché morsa dalla tarantola che dal Salento viaggia in Europa incrociando un piccolo pantheon artistico – letterario caro a Lubrano (Duchamp, Bellmer, Unica Zurn, Jana Cerna, il suo omonimo secentesco), per tornare a morire in Salento come San Giuseppe da Copertino. Presenza quest’ultima che attraversa tutto il romanzo, oggetto d’interesse al pari di un altro ribelle e sperimentatore, Carmelo Bene. Anche lui pluri omaggiato e interprete di quella potenza vitale di cui è felicemente depositario il Salento, insieme a Cuma e al lago d’Averno, luoghi d’elezione dell’autore. Al processo di stratificazione non può mancare il dato autobiografico, alla maniera del “Capriccio” sanguinetiano, in cui a essere oggetto della mistificazione era il matrimonio dell’autore, qui a essere messi in scena sono vari episodi e personaggi legati alle avventure creative di Lubrano; dal premio Feronia con relativi interventi critici, al lavoro sui testi di Leo Ferré, agli incontri salentini con Sanguineti e Bene, numi tutelari, insieme a Villa, di un lascito avanguardistico felicemente compreso tra argomentazione e ricerca sulla percezione. Il tutto converge a contraddire quel totem della narratività che continua a dominare il romanzo contemporaneo, pur rinnovandosi nelle sue varianti. Nel caso italiano, storico-biografica (Mazzucco), introspettivo-borghese (Piperno), ironico-giocosa (Campo), di esplorazione delle derive esistenziali (Scarpa, Siti, Trevi), visionaria (Pugno), crime (i tanti giallisti in classifica), a loro volta con ulteriori sotto-declinazioni; ma domina anche in un contesto letterario come quello in lingua inglese, solitamente celebrato senza riserve, in prevalenza con adesione al codice realista (Auster, Ghosh, Morrison, Munro, in ultimo Colson Withehead), in altri casi in chiave allucinato-distopica (De Lillo, Mc Carthy).

E’ merito dell’opera di Lubrano indicare una delle possibili vie del romanzo sperimentale: plurilinguista, neo barocca, popolare, grottesca. Una formula dell’eccesso, del “vomire” secondo termine a lui caro, che unisce espressionismo dal basso e rivendicazione di parentela con la letteratura eversiva di matrice libertina e surrealista (Sade, Apollinaire, Artaud). Una scrittura che non riduce la realtà a chiarezza e semplicità, com’è proprio del paradigma classicista, ma ne evidenzia la piega, la deformità, la sottopone a procedimento alchemico solfureo e mai rassegnato perché elemento qualificante ne è la potenza vitale. Che poi si possano sperimentare altre strade sulle orme dell’avanguardia novecentesca (neo oggettiva, verbo visuale, montaggio di voci, asemica), è questione aperta.

Pur sempre categorie estetiche che valgono il giusto, mentre ciò che conta è se riescono a innescare nuove proliferazioni di soggettivazione nel segno della trasformazione di sé. E’ qui che si gioca la nuova partita dell’avanguardia, tanto più in una fase in cui, grazie ai social, prevale l’espressività diffusa cui si ha buon gioco a contrapporre i benefici dell’ordine, magari nel segno di un redivivo bellettrismo. Se si sceglie di lavorare a una letteratura che si oppone al “senso della corrente” (Guattari, Caosmosi), allora serve posizionarsi, pur con mille varianti, nel solco di un rovesciamento delle forme di enunciazione e dei meccanismi di produzione delle opere. Di là da proclami e indirizzi programmatici, si tratta di due punti in grado di qualificare una linea alternativa. I lavori sono in corso.

 

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