Le ragioni dellʼavanguardia: la poesia di Carmine Lubrano
by Paolo Allegrezza
Premessa
Nelle righe seguenti si propone una lettura dell`ultima raccolta e dellʼopera complessiva di Carmine Lubrano, “Letania salentina”, con una premessa: unʼesperienza poetica tanto peculiare e, se vogliamo, estrema, non può essere compresa fuori del percorso seguito dalla scrittura dʼavanguardia in Italia negli ultimi tre decenni.
La poesia di Lubrano è parte della vicenda più complessiva del nuovo ciclo dʼavanguardia manifestatosi in Italia allʼinizio degli anni `80. Della “terza ondata” la poesia di Lubrano è una delle espressioni più innovative e eversive nel senso tanto delle modalità di comunicazione, secondo il tema caro a Caruso e Martini dellʼautoproduzione come pratica intrinseca all`avanguardia, quanto dellʼoperazione destrutturante operata a partire dal codice dialetto. Questʼultimo, non limitato allʼemersione di istanze “dal basso”, è al centro di una macchina linguistica che al napoletano, unisce arcaismi, termini rari, parole inglesi, francesi, spagnole, latine, turpiloquio, le pratiche della spezzatura e della disgrafia. Il montaggio che ne deriva produce un verso straniato in cui lʼartificio, di ascendenza barocca, perde il significato giocoso per farsi voce di una materialità cupa, sempre dissonante. Esemplare il gioco di specchi con il suo quasi omonimo, il marinista e gesuita Giacomo Lubrano, uno dei più famosi predicatori del `600, a rivendicare il binomio tra lavoro sulla lingua e tendenziosità della poesia.
Sul medesimo versante, all`insegna di una sostanziale continuità con lʼavanguardia, si mosse nei primi anni `80 un agguerrito gruppo di critici e poeti che si proponeva di rilanciare il binomio tra ricerca e pratica artistica. Il collettivo di “Quaderni di critica” (Bettini, Carlino, Mastropasqua, Muzzioli, Patrizi), cui si affiancava il lavoro di Mario Lunetta e dei veterani della neo avanguardia ancora saldamente in campo, primo fra tutti Sanguineti, si connetteva al lavoro di nuovi poeti in cui il numero non faceva difetto alla qualità. Baino, Cepollaro, Frasca, Lubrano, Ottonieri, Voce, in ambito napoletano, Delli Santi, Frixione, Sproccati, Cavalera ed altri furono le voci di punta di una “terza ondata” dellʼavanguardia, come suggeriva il titolo del libro – antologia di Bettini e Di Marco. Mentre il romanzo balbettava alla ricerca di un modo di raccontare la realtà che non poteva trovare sbocchi né nelle combinazioni oulipiste sperimentate da Calvino in “Se una notte dʼinverno un viaggiatore” (1979) né nellʼintrattenimento colto de “Il nome della rosa” (1980), la poesia dimostrava un livello di maturazione teorica e testuale decisamente superiore; tantʼè che se il romanzo migliore del decennio, “Le mosche del capitale” di Volponi, fu pubblicato solo nel 1989, la poesia era da un decennio nel pieno di una produzione che ricordava, pur con forti elementi di differenziazione, gli anni dʼoro della neo avanguardia. Forza della poesia e debolezza della prosa, tendenza di fondo della letteratura italiana, confermata dalla “terza ondata”, ma a cui fa eccezione il Gruppo `63 che di romanzi (Arbasino, Sanguineti, Balestrini, Lombardi, Manganelli, Porta) ne produsse non pochi e non certo irrilevanti. Superata la stagione in fondo effimera dei cannibali, bisognerà attendere gli anni zero o giù di lì per leggere narratori (Ballestra, Nove, Trevi, Arminio, Pugno, Bortolotti, Falco, Policastro, Trevisan, Targhetta), appartenenti a generazioni diverse, ma tutti in grado di uscire dalle secche del dualismo romanzo di trama – romanzo di stile e interpretare, fuori di filtri intimistici, lo stato delle cose.
Fino agli anni ‘80 il sistema letterario conservava unʼarticolazione che oggi sembra appartenere ad unʼepoca lontana: si fondava sulla distinzione tra letteratura di genere, istituzionale (Morante, Sciascia, Moravia) e avanguardia. Negli anni successivi, lo scenario è mutato radicalmente. Mentre lʼavanguardia era espulsa dalla grande editoria, si assisteva, sotto la spinta del mercato, ad una sorta di osmosi tra gli altri due generi. Sul versante della poesia si assisteva ad una ripresa neo lirica grazie ad importanti esordi (De Angelis, Conte, Cucchi, Magrelli) espressione di poetiche alternative alla stagione delle seconde avanguardie. Sulla qualità di questi autori vi è ben poco da eccepire, nel senso del livello di consapevolezza linguistica presente nei loro testi. Ideologia e linguaggio, per utilizzare il celebre binomio sanguinetiano, si associano in questi poeti dando vita ad un decadentismo poliforme, sia che assuma la versione tragica e nichilista di De Angelis, quella sognante ed evasiva di Cucchi, lʼintimismo riflessivo di Magrelli. Versioni rinnovate della tradizionale ideologia del disincanto cara al letterato italiano. Partendo da tuttʼaltre premesse, in quei medesimi anni lʼavanguardia non mollava la presa, anzi rilanciava una nuova stagione creativa ad oggi tuttʼaltro che esaurita. Non è questa la sede per ricostruire le vicende che portarono alla nascita del Gruppo `93 e alle sue successive diramazioni, quel che interessa è sottolineare come la realtà napoletana si sia confermata una volta di piu terreno fertile. Si tratta di una storia che affonda le sue radici nel secondo dopoguerra e che trova la sua prima espressione in arte con la nascita del
Gruppo ‘58, nato dallʼincontro tra i giovani napoletani (Biasi, Del Bello, Del Pezzo, Fergola, Persico), e gli artisti nucleari cui poco dopo seguirono le prime sperimentazioni di poesia visiva. Caruso, Diacono, Martini, la rivista “Linea sud”, danno vita ad un ciclo di attività che tra lavoro teorico, produzione di libri, libri oggetto, performance, riviste, si sviluppa lungo lʼarco di un trentennio. Compagno di strada dei napoletani è Emilio Villa, il grande isolato dellʼavanguardia italiana. A distinguerli dalla neoavanguardia, cui non risparmiarono giudizi taglienti, la radicalità di una poetica teorizzante lʼasemantismo caro alla poesia concreta e lʼauto produzione come scelta intrinseca alla poetica. Il legame era, non a caso, con Spatola e Costa, Lora Totino, i gruppi genovese e fiorentino di poesia sonora e verbo visuale. Eʼ da queste premesse che una nuova generazione di poeti napoletani riprende, sul finire degli anni ‘70, la pratica dellʼavanguardia partendo da alcuni elementi peculiari: lʼutilizzo creativo del dialetto, la predilezione per la corporeità esplorando la pratica della performance, la rivendicazione della funzione oppositiva del testo a dispetto delle professioni di disimpegno in voga in quegli anni.
Il lavoro di Lubrano e degli altri, pur nella differenziazione dei percorsi, nasce da questa matrice collettiva, prodotto di un comune lavoro teorico tra poeti e critici. Lʼennesima rinascita e reinvenzione dellʼavanguardia che rivendica la sua matrice autre, cui si è affiancata, nellʼultimo decennio, pur nella diversità delle poetiche, la nuova ricerca legata alle esperienze di poesia asemantica e performativa (Gamm).
Letanie nel corpo della lingua
Cʼè una modalità dominante nella poesia di Lubrano, fin dal suo esordio: la ripetizione. Nel senso deleuziano della manifestazione della differenza, forza profonda che risale ogni volta ad affermare le ragioni sovversive del mostruoso.
Una tecnica ben nota al barocco che prediligeva una lingua che rifiutava la selezione del canone petrarchista e puntava ad affermare lʼidea di una poesia in grado di rendere le esperienze della sensibilità. In Lubrano la ripetizione assume una valenza sovversiva. Si avvale di una macchina retorica di primʼordine che utilizza tutte le figure funzionali allʼincremento della ridondanza: allitterazione, anafora, epifora, paranomasia, ipallage, enallage, epinalessi.
Il testo funge da strumento di emersione di un magma sociale e politico nel cui corpo il linguaggio, immune da tentazioni declamatorie, delinea una trama fatta di scarti e deviazioni che scompongono e frantumano irrimediabilmente il senso del discorso. Ma non si tratta di un divertissement, né di un ripiegamento nel non sense, la scrittura mette in atto il suo corpo a corpo con il reale senza esaurirsi nel ludico. La parola in Lubrano si fa tutt`uno con il gesto anarchico che sovverte le lordure del potere, il che comporta la destituzione del ruolo stesso del poeta, per niente estraneo al degrado ma in grado di rispondere con un suo atto estremo: il ribaltamento del senso attraverso il linguaggio. La strategia poetica di Lubrano non si esaurisce, tuttavia, nella deformazione propria del procedimento espressionistico che violenta il reale per farne scaturire la materialità nascosta; il procedimento barocco dellʼaccumulo serve a sabotare il teatro della comunicazione e della produzione simbolica ufficiale, iniziando dalla trita riproposizione di una napoletanità pacificante. Ma il neo barocchismo non è soltanto pratica dellʼaccumulazione e deformazione, propone anche un nuovo modo di essere nel mondo, di interpretarlo. Nella produzione più recente, in particolare in “Letania salentina”, emerge una visionarietà` sensuale che, scevra da scivolamenti estetizzanti, rivendica la sua volontà di rigenerazione, poetica e vitale. Vi rimanda il richiamo iniziale alla leggenda della grotta della poesia di Roca Vecchia da cui anticamente sarebbe scaturita acqua dolce che faceva ottenere forza e salute per poi divenire, in unʼulteriore versione, dimora di una principessa ispiratrice di bellezza al punto da attirare poeti da ogni dove in cerca d`ispirazione per i propri versi. Ma P.P.P., il porno poeta puteolano, come Lubrano beffardamente si autodefinisce, non ambisce a nessun paradiso perduto, la sua rimane una discarica nei fanghi e nella materia putrescente che individua nella bellezza la sua estrema possibilità di resistenza. Che non si tratti di nuove arcadie è presto detto, né si può dire che Lubrano aspiri a qualche risarcimento lirico, ma da buon barocco si pone nella piega, moltiplica i punti di vista e le possibilità della sinestesi. Il “verso equilibrista” delle “Letanie” rimanda alla pizzica, agli amati Sanguineti, Villa, Costa, Bene, al gesto dadaista, al richiamo allʼultimo Pagliarani. Ma mentre ne “La ballata di Rudi” la ripetizione svolge una funzione fonetica, di riduzione a puro suono delle connessioni tra le strofe fino alla semantizzazione del significante, nelle “Letanie”, inserita a modo di anafora in alcuni versi della strofa o internamente al verso, serve ad espandere il senso connettendo i livelli, tra “nʼfierno e paraviso”: i luoghi del Salento, i riferimenti poetici e musicali, la cronaca
letteraria e politica, le amicizie femminili, lʼeros, il ricordo di lontane imprese poetiche, la quotidianità in vacanza. Il lessico e la costruzione risultano più regolari rispetto a prove precedenti, pur ribadendo il tradizionale utilizzo dal napoletano.
A differenza di Pagliarani, Lubrano non è interessato al romanzo in versi, predilige lʼosservazione – argomentazione insieme alla celebrazione del piacere: il rosso, il sesso, il vino, il fuoco, allegorie di un rito Dionisiaco di rinascita – rigenerazione. Una poesia dei sensi e della ragione che anche in questo caso rimane immune da ripiegamenti nostalgici e men che meno malinconici, tanto da rivendicare il vitalismo come “il mio coito con lʼintero mondo”.
Non si tratta dellʼattenuazione del “vomire in bordella”, il carattere polemico del testo rimane, ma “Letania salentina” rimanda ad uno stile più avvolgente. La deformazione costituisce la matrice retorica dello sguardo sul mondo di questa poesia che, in primo luogo, denuncia se stessa negando declamazioni e moralismi. Se manca lʼidillio, considerando i miasmi provenienti dalle viscere della terra, manca a maggior ragione il lirismo. Ed è così che un modulo classico della tradizione italiana, quale la poesia amorosa, è riletto da lente materialista (”ma una poesia dʼamore non è per sempre preferibilmente ha una sua data di scadenza il nostro tempo è andato chronja chamena”) e vitalistica, come nellʼantico rito della pizzica. In “Letania” compaiono lʼautobiografia, il ricordo (“Per Lucia”), il quotidiano, sempre lontana da ripiegamenti crepuscolari o malinconici, al punto da rivendicare
gioiosamente “il mio coito con lʼintero mondo. Nel jazz, presenza esplicitamente evocata da Lubrano, ciò che conta non è il testo, ma il modo in cui è eseguito, al punto che è il flusso delle note a riassumere il significato. Similmente, la scrittura è parte del degrado, per cui se esiste una possibile alternativa, è nel ritmo frenetico della pizzica, nel soggetto che sperimenta lʼimmersione in corpore vili. Lʼimprovvisazione nel jazz nasce da un doppio livello: lo schema di partenza su cui si sviluppano le variazioni proposte dagli strumentisti. Similmente, la poesia di Lubrano, consapevole quanto mai che lʼimprovvisazione non si improvvisa, organizza il flusso, lunghe strofe in forma di “assolo” separate dal bianco su cui si innesta la ridda di immagini per accumulo e la ripetizione dei fonemi prodotta dallʼuso intenso dellʼallitterazione, dellʼanafora, della sinestesia non limitata alla parola ma assunta a pratica interdisciplinare e, quindi, intersemiotica, come finemente sottolineò Filippo Bettini. Non poesia visiva o sonora, ma messa in relazione di codici differenti: visivi, sonori, performativi. In funzione di legamento agiscono alcuni lemmi ed espressioni iconiche (vomito, vomire, bordella, fango, scovera pilosa, panza) evocanti la materia sotterranea, corrotta che la poesia fa esplodere come nelle “Letanie”, lʼosceno televisivo contro il grande fratello “i nove amanti accecati…”.
Da queste premesse si dipana lʼoperazione alchemica della poesia che non ha nulla di misterico o oscuro, rivelandosi agente demistificante lʼosceno mediatico. Requisiti questi che portano inevitabilmente alla performance ove la voce di Lubrano e la musica stessa, lungi dallʼessere mero orpello, danno significazione al verso e lo consegnano alla sua funzione primaria, allegorica e, quindi, pubblica, dialogante. Insieme al jazz, il collage dadaista è lʼaltro modello della poesia di Lubrano. Il montaggio sonoro e visivo di materiali eterogenei (Sanguineti, Stefania Sandrelli, Caravaggio, articoli di giornale, la lettera di Berlusconi agli elettori) compone il flusso disarmonico e straniante dei versi. Operazione che si pone nel solco delle avanguardie storiche e della poesia beat, Ginsberg in particolare, su cui si innesta il pluringuismo della nostra tradizione (Folengo, Burchiello, Basile, i marinisti). Le due figure privilegiate si confermano allitterazione e sinestesia, la prima opera sul suono, la seconda sullʼaccostamento che fa deflagrare il senso; vi si aggiunge lʼanadiplosi, la ripetizione di una parola in fine di proposizione, allʼinizio della successiva. Il tutto in funzione semiotica: la produzione di senso passa così dalla ripetizione che consente lʼatto eversivo di rovesciamento e produzione del reale grazie al linguaggio (Wittgenstein). Tuttavia, nel materialismo di Lubrano la poesia non produce il secondo termine della dialettica rispetto allʼoggetto – mondo, il pattern è sempre costituito dal flusso, dal continuo divenire della percezione. Come nel fenomeno ottico della diffrazione, la scrittura non restituisce nessuna oggettività, anzi modifica continuamente la visione a seconda del punto di vista e del mutamento della materia. Dentro il flusso si dipana unʼoperazione estetico – politica in cui la pratica performativa non è una delle modalità possibili della fruizione, ma condizione della costante riconfigurazione – significazione del mondo. Una poesia tutto men che disperata in cui i
riferimenti ai numi tutelari (Bene, Sanguineti, Artaud, Villa, Cacciatore) sono rivendicazioni della forza creativa del vivente contrapposta allo stato delle cose.
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