LA STUPIDITÀ IN AZIONE: IL «COMICO-DEMENZIALE» PERFORMATIVO
by Paolo Albani

 

 

Pour moi je demande un demain dément.

 

  1. Dadà (con l’accento sulla «a», come scrive Tzara nei suoi manifesti) è stupido.

            Nel centenario della nascita di Dadà mi piace omaggiare la stupidità dadaista, segno tangibile dell’irriverenza e dell’anticonformismo ricreativo di questo movimento, con alcune considerazioni sul «comico-demenziale» nelle azioni performative sviluppatesi, tanto per darci un limite temporale, negli anni sessanta del secolo XIX in poi (1).

 

  1. «Non so se valga la pena di dire quello che dirò perché ho la chiara coscienza di rivolgermi a una massa di idioti con il cervello andato in acqua e sono sicuro che non capirete nulla». Questo è un esempio di quella che Umberto Eco ha chiamato captatio malevolentiae, una figura retorica che non esiste, la quale mira a inimicarsi l’uditorio e a mal disporlo verso il parlante. Sarebbe un caso performativo di retorica che senza dubbio potremmo chiamare «demenziale».

            Sul significato della parola demenziale, nell’accezione letteraria, troviamo nei dizionari della lingua italiana (libri speciali dov’è sempre bello rifugiarsi, «luoghi» – dice Manganelli – «dove le parole si riposano, stanno ferme, appese come pipistrelli») queste spiegazioni: «correntemente, detto di ciò che è particolarmente incoerente, sconsiderato, privo di logica» (Zingarelli); oppure: «si dice di genere di spettacolo (musicale, cinematografico, televisivo ecc.) o anche di letteratura, che punta su elementi di assurda stupidità per perseguire un fine dissacratorio» (Utet).

            Dunque sul piano artistico-letterario la parola «demenziale» racchiude in sé due anime, evoca un binomio intrigante: stupidità e nonsense, che non sono la stessa cosa, ma certo si nutrono e hanno in comune non poche suggestioni, inclinazioni, perversioni.

            Allora possiamo procedere così: evidenziare i tratti salienti della stupidità e del nonsense, in modo da verificare successivamente in che misura quei tratti si ritrovino nell’arte della performance, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso.

 

  1. Tanto per cominciare osserviamo come la stupidità, «artista silenziosa» come la definiva Musil, sia un fenomeno serio, complesso e allo stesso tempo affascinante, che va affrontato con il massimo impegno. Diceva al riguardo Erik Satie: «Se si è stupidi, bisogna esserlo sul serio».

            Sul concetto di stupidità si sono soffermati scrittori, filosofi, scienziati, artisti, anche se di studi veri e propri sulla materia non ne esistono molti. Qui mi limito solo a ricordare la conferenza sulla stupidità tenuta da Musil nel 1937 a Vienna e la bella voce «Stupidità» nella Nuova enciclopedia di Savinio.

            Esistono diverse coloriture di stupidità nella vita e nelle lettere e in noi stessi, sostiene Manganelli aggiungendo: esiste una stupidità «indifesa, bruta e brutale, opaca, rancorosa, litigiosa; ma rara, rarissima è la stupidità aggraziata, la stupidità assistita dalla finezza, direi la stupidità che mima, pur sapendosi indegna, le ambagi dell’intelligenza».

            In un’accezione nobile, la stupidità è in primo luogo la capacità di essere presi da stupore (stupido e stupire hanno la stessa etimologia), da meraviglia, di restare sbalorditi, attoniti di fronte agli accadimenti, ai tumulti e alle passioni della vita. «Ben s’avvide il poeta ch’io stava / stupido tutto» dice Dante in un verso del Purgatorio.

            In secondo luogo la stupidità presenta una gamma imprevedibile di potenzialità creative dissacranti. È, per dirla con Oscar Wilde, «la Bestia Trionfans che immancabilmente fa uscire la saggezza dalla sua tana». Esiste infatti una stupidità assennata, non malvagia («gli stupidi non avrebbero mai inventato le bombe atomiche né la polvere da sparo»), una stupidità che è in grado di trasformarsi in un’arma critica rivolta contro la falsa saggezza dei potenti, contro l’arroganza del potere dominante, una stupidità che si fa veicolo di un pensiero critico, irriverente, di una forza di liberazione mentale, impersonata da figure di antieroi quali Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet, il buon soldato Švejk, il principe Myškin ecc., o da movimenti d’avanguardia come Dadà (2).

            Fra le numerose riviste e rivistine, spesso numeri unici, fondate nel periodo delle avanguardie storiche ce n’è una che non a caso si chiama Stupid 1, uscita nel 1920 a Colonia. Indubbiamente lo spirito dadaista − provocatorio, nichilista, antiborghese, spiazzante, caotico, sovversivo − è quello che meglio rappresenta la faccia trasgressiva della stupidità, di una stupidità incantatrice, che «esercita su noi un potere ipnotico, una invincibile attiranza» (Savinio). In Dadà la stupidità assume svariate forme: la distruzione del linguaggio tesa alla ricerca di una lingua primitiva, meglio attrezzata a esprimere lo stato d’animo dell’«uomo cosmologico», la spettacolarità scandalosa per épater le bourgeois, l’eccesso di sperimentazione per riappropriarsi della vita.

 

  1. Abbiamo detto che un altro aspetto, l’altra faccia del «demenziale» è il nonsense.

            In letteratura, il nonsense è un testo privo di senso comune, assurdo o illogico, caratterizzato da un umorismo paradossale, surreale. Si pensi alle conte, alle filastrocche:

 

Ambarabà cicì cocò
tre civette (variante: galline) sul comò
che facevano all’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò,
ambarabà cicì cocò (3).

 

o ancora alle poesiole nonsensiche in forma di limerick di Edward Lear (4):

 

C’era un vecchio di Caltagirone
Con la testa non più grande d’un bottone;
Quindi, per farla sembrare più grande,
Comperò una parrucca gigante
E corse su e giù per Caltagirone.

 

            In quanto espressione letteraria il limerick è una cosa seria. Hanno scritto dei limericks scrittori come Lewis Carroll, Robert Louis Stevenson, James Joyce e anche il filosofo Bertrand Russell, premio Nobel per la letteratura nel 1950. Un limerick è citato fra i versi de La terra desolata di T.S. Eliot.

            Si pensi ancora ai sonetti del Burchiello (5), scritti appunto alla burchia (da burchio, cioè «barchetta») ovvero scritti usando le parole «alla rinfusa», allo stesso modo in cui sono caricate le barche, e cioè a caso, a vanvera:

 

Nominativi fritti, e mappamondi,
E l’arca di Noè fra due colonne
Cantavan tutti Chirieleisonne
Per l’influenza de’ taglier mal tondi.

 

            Alcuni splendidi esempi di nonsense si ritrovano nelle performance, tanto per restare aderenti al nostro tema, di Ettore Petrolini (6):

 

Sono un tipo: estetico,
asmatico, sintetico,
linfatico, cosmetico.
Amo la Bibbia, la Libia, la fibia
delle scarpine
delle donnine
carine cretine.
Sono disinvolto,
Raccolto,
Assolto «per inesistenza di reato».

 

            Ho una spiccata passione per: il Polo Nord. La cera vergine. Il Nabuccodonosor. Il burro lodigiano. La fanciulla del West. La carta moschicida. La cavalleria pesante. I lacci delle scarpe. L’aeronautica col culinaria. Il gioco del lotto. L’acetilene e l’osso buco.

 

Sono: Omerico
Isterico
Generico
Chimerico
Clisterico.

 

o in certi monologhi di Totò (7):

Il funzionario civico municipale è un aggettivo qualificativo di genere funzionario, il funzionario fisiologicamente funziona con la metamorfosi della leptempsicosi, la fase del funzionamento muove la leva idraulica delle cellule che, agendo sull’arteriosclerosi del soggetto patologico, lo fa funzionare nell’esercizio delle proprie funzioni. Non ha capito che cosa vuol dire? Beh, nemmeno io.

 

La teoria di Darwin: La scimmia non è proprio una bestia del regno animale, ma bensì la metamorfosi vulcanica ed umanitaria integerrima, la paratomia dell’uomo sintetico, una sintesi delle cellule umanitarie che, a prescindere dalle cellule umanitarie della corpulenza antomica maschile, escludendo naturalmente la parte addominale fisiologica, abbiamo il nervo simpatico che soffre di antipatie e di simpatie, così che, calcolando le distanze tecniche tra l’uomo e il gorilla, accediamo al campo specifico della sua perfetta rassomiglianza con lo scimpanzé. È chiaro?

 

            Con la «scrittura automatica» dei surrealisti, cioè liberata da qualsiasi controllo, senza freni inibitori, seguendo un automatismo psichico che permette allo scrittore di pescare le immagini nella propria mente (con questa tecnica i surrealisti, in particolare Paul Éluard e Benjamin Péret, scrissero dei suggestivi proverbi: «Prima che diluvi, rabbonite il comprendonio», «Sonno che canta fa trepidar le ombre»[8]), traspare l’elemento immaginativo del nonsense, la sua intima natura di gioco letterario, di ludico linguistico che fa venire le vertigini, come quando facciamo le capriole o giriamo sopra una giostra o ci precipitiamo a rotta di collo giù per una discesa.

            Le poetiche dell’assurdo che provocano un capogiro della logica, una perdita di sé, una perturbazione della percezione (come nel teatro di Ionesco e di Beckett) si nutrono di quella pulsione fondamentale al gioco che Roger Caillois in Les jeux et les hommes (9) ha chiamato ilinx, cioè vertigine, accanto alle altre pulsioni che sono la competizione regolata (agon), il caso (alea) e il travestimento (mimicry).

 

  1. Vediamo ora in estrema sintesi come il fattore demenziale, percepibile nelle sue componenti cariche di stupita assurdità e di nonsense, si delinei nella performance, termine qui assunto in modo generico a indicare quella forma d’arte in movimento dove lo spazio e il corpo dell’artista giocano un ruolo determinante (senza operare ulteriori distinzioni fra happening, body art, environment, installazione, ecc.).

            Ora, è indubbio che un fattore di trasgressività nei confronti del linguaggio verbale, o meglio dei linguaggi, data la natura intermediale dell’atto performativo, e dello stato di cose presenti, del sociale storicamente determinato (alienante, consumistico, massificante), attraversa tutta l’esperienza performativa, da Kaprow in avanti. In questo senso si potrebbe dire che i performers sono genealogicamente parlando dei nipotini di Duchamp.

            È certo in un rinnovato spirito duchampiano che Piero Manzoni, la cui ricerca artistica si colloca in una dimensione concettuale, dove gesto e pensiero prendono il sopravvento sull’opera, decreta nel 1961, attraverso i suoi «Certificati di autenticità», che il corpo di una modella, da lui firmato, è un’opera d’arte.

            Il gesto di Manzoni, spesso assunto a spartiacque di un nuovo atteggiamento delle poetiche d’azione, è indubbiamente meno cruento dei colpi di pistola sparati in una serata parigina nel 1914 da Arthur Cravan, dopo che questi ha insultato il pubblico e fatto l’elogio di omosessuali, pazzi e criminali, ma ha ugualmente un tasso molto elevato di irriverenza e di profonda sfiducia nei confronti del fare artistico.

            L’arte performativa, comunque la si definisca, è per sua natura, per statuto, direi ontologicamente trasgressiva, in quanto smateriliazzata, ovvero senza un oggetto in cui incarnarsi, non riproducibile (nel senso che un video che documenta una performance non sarà mai equiparabile e sostituibile all’azione dal vivo del performer), effimera, e perciò non vendibile. Anche nella performance vale il principio concettuale che «l’opera coincide con l’idea», che «l’arte è arte in quanto Idea» (Joseph Kosuth), enunciazioni che implicano un’opposizione alla feticizzazione dell’arte causata dal mercato.

            Anche il demenziale è trasgressivo, in quanto sberleffo alla supponente seriosità dell’artista mestierante, al galleggiamento delle idee sonnecchianti, smorte, ripetitive, al sovvertimento del banale. A questo proposito bisogna avere il coraggio di dire che non tutto ciò che si presenta come sperimentazione, avanguardia, ricerca multimediale è di per sé nutriente, effervescente, arricchente, nuovo e originale. Anche nell’area del cosiddetto sperimentalismo, compreso quello performativo, vivono e sopravvivono forti propensioni al manierismo, all’eclettismo improduttivo e improvvisato, alla riproduzione di cliché desueti, di schemi prevedibili. Voglio dire, in altre parole, che assistiamo spesso a performance che sono delle noie mortali…

            C’è nel demenziale, così come abbiamo cercato sommariamente di delineare, un quid di comicità assurda, paradossale (si pensi nel cinema ai film dei Blues Brothers o dei Monty Python) che proietta sugli effetti di spiazzamento, di sovvertimento e di azzeramento del senso, di cui si alimenta magistralmente, una luce di godibile fruibilità.

            Il «comico demenziale», cioè fra le innumerevoli sfaccettature del comico, quello più sbilanciato verso l’assurdo, l’illogico, il paradosso, il controsenso, è una specie di virus che si annida e si manifesta in forme diverse nelle pratiche di molte esperienze artistico-letterarie del novecento. Ad esempio c’è una traccia di demenziale, perché no, negli esercizi dell’Oulipo, l’Opificio di Letteratura Potenziale, cui aderirono Raymond Queneau, Georges Perec e Italo Calvino, e non c’è da meravigliarsi perché l’Oulipo nasce come sottocommissione del Collegio di ‘Patafisica, scienza delle soluzioni immaginarie. E ancora, a semplice titolo esemplificativo, l’assurdo tiene le fila di un racconto brevissimo, venti righe appena, di Franz Kafka intitolato La trottola, dove un filosofo si interessa a un unico problema: le piroette di una trottola.

            Sul versante strettamente performativo mi limito a segnalare due esempi per tutti di «demenzialità comportamentale»: da un lato l’esperienza di Fluxus, movimento internazionale divenuto presto sinonimo di interdisciplinarità e multimedialità, proteso alla creazione di un’arte totale che include l’accidente e la causalità, e dall’altro le declamazioni post-futuriste di Arrigo Lora Totino.

            Quanto al primo esempio, ricordo solo una famosa foto scattata nel 1962 durante un Festival Fluxus svoltosi a Wiesbaden dove si vedono cinque individui vestiti in abiti scuri, che sono George Maciunas, Dick Higgins, Wolf Vostell, Ben Patterson e Emmett Williams, febbrilmente impegnati a tagliare a metà un pianoforte con una grossa e rudimentale sega.

            Per quanto riguarda le performance di Lora-Totino, una sorta di teatralizzazione del parlare, sono ben note le sue poesie ginniche e quelle liquide, quest’ultime soffiate in faccia al pubblico con l’idromegafono. Senza dimenticare altri strumenti di scena usati da Lora Totino, come il «tritaparole» e il «mozzaparole» con cui il performer produce «pezzami polveri e ciprie di parole». Straordinaria anche la traduzione offerta da Lora Totino del Canto notturno del pesce di Christian Morgenstern, poesia i cui versi sono espressi dai segni delle sillabe brevi e lunghe, una traduzione «gestuale», realizzata con un movimento alterno di apertura e chiusura della bocca.

            In conclusione, si potrebbe estendere al performer che agisce nello spazio-tempo in modo «comico-demenziale» ciò che Giovanni Fontana dice del poeta sonoro, ovvero che è un artista che non disdegna d’indossare i panni dell’antico jongleur, di accogliere nel proprio repertorio il riso, lo sberleffo, l’oscenità verbale e gestuale, la capacità di mimesi fonica della voce, l’abilità diabolica e giullaresca di cambiare pelle, di parlare tutti i linguaggi di tutte le arti (10).

 

(1) Questo testo è il rifacimento di un mio intervento al dibattito su Demenziale-concettuale nell’attività performativa svoltosi l’11 marzo 2006 al Caffè Giubbe Rosse di Firenze nell’ambito dell’8a edizione del Festival internazionale di poesia in azione “a + voci”, cui sono intervenuti, fra gli altri, Bartolomé Ferrando e Lello Voce. Questo mio intervento è citato nel saggio di Andrea Cedola, «Il mare della nonsenseria». Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo in Giuseppe Antonelli e Carla Chiummo, a cura di, «Nominativi fritti e mappamondi». Il nonsense nella letteratura italiana, Atti del Convegno di Cassino 9-10 ottobre 2007, Salerno Editrice, Roma, 2009, pp. 245-268, la citazione è a p. 250.

(2) Rimando al mio articolo Siamo tutti stupidi?, «Domenica de Il Sole 24 Ore», 16, 17 gennaio 2016, p. 25.

(3) Per un’analisi linguistica di questa filastrocca, e sulla letteratura prodotta sulla sestina del suo Anonimo autore, si veda il saggio scherzoso di Umberto Eco, Tre civette sul comò, «il Cavallo di Troia», 3, Estate/autunno 1982, pp. 5-14; poi anche in Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano, 1992, pp. 164–175.

(4) Edward Lear, Il libro dei nonsense, introduzione e traduzione di Carlo Izzo, Einaudi, Torino, 1970. Sul limerick mi permetto di rinviare al mio Un breve viaggio intorno al limericco italiano, postfazione al libro di Virginia Boldrini, Viaggio a Limerick e dintorni, Campanotto, Udine, 2006, pp. 111-120.

(5) Burchiello [Domenico di Giovanni detto il], I sonetti del Burchiello, a cura di Michelangelo Zaccarello, Einaudi, Torino, 2004.

(6) Ettore Petrolini, Teatro di varietà, a cura di Nicola Fano con la collaborazione di Anna Maria Calò, Einaudi, Torino, 2004, p. 13.

(7) Totò, Parli come badi, a cura di Matilde Amorosi con la collaborazione di Liliana de Curtis, Rizzoli, Milano, 1884, p. 121.

(8) Paul Éluard e Benjamin Péret, Proverbi Surrealisti, a cura di Antonio Castronuovo, Millelire Stampa Alternativa, Viterbo, 2000.

(9) Roger Caillos, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, con note di Giampaolo Dossena, traduzione di Laura Guarino, Bompiani, Milano, 1981.

(10) Giovanni Fontana, La voce in movimento. Vocalità, scritture e strutture intermediali nella sperimentazione poetico-sonora, Harta Performing & Momo, Monza, 2003, pp. 193-194.

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