Geroglifici Zeroglifici Mesoglifici
by Andrea Paoli

 

Scrivere?

Dallo scrivere sulle cose allo scrivere con le cose allo scrivere le cose. Questo deve rimanere l’ultimo testo solo dell’umanità. Questa è l’evoluzione naturale che va dalle sperimentazioni orali della poesia, alla sua riscoperta nelle dimensioni plurime del linguaggio, dalla ricerca verbo-visiva alle forme di “esternalizzazione” del libro. Tutte le strade possibili portano a una poesia che sia totale, creatrice di forme e costruttrice del linguaggio secondo il presupposto in base al quale la confusione dei linguaggi (visivi, sonori, testuali) tra i diversi canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac. Per il biofisico Ruggero Pierantoni “s’incontrano solo anelli entro anelli […] non esistono vicoli ciechi, binari morti”. ¹ Per questo motivo bisogna sviluppare ponti fra i diversi linguaggi, far nascere nuove forme, passare dalle vesti di interprete e utilizzatore del linguaggio a quelle di costruttore dello stesso. Questo passaggio è necessitato anche vista l’evoluzione dell’arte generativa: la programmazione altro non è che scrittura di cose. Questo è un mondo nuovo: si è passati dalla creazione di un immaginario alla creazione di funzioni per immaginari. Un linguaggio di programmazione ha la sua sintassi, scomponendo in pezzi il codice ci saranno solo istruzioni corrette e istruzioni scorrette ma, anche se con combinazioni (e relative scomposizioni) più grandi, il linguaggio umano, secondo la teoria del riferimento di Gottlob Frege, funziona allo stesso modo: il risultato di un’espressione linguistica può essere, in fin dei conti, solo vera o solo falsa in base all’esistenza o meno del riferimento ad essa connesso.² Date queste premesse, dunque, occorre la necessità che la scrittura, affinchè sia contemporanea, intuitiva e intima, debba creare nuove forme rifiutando o inglobando la convenzione. Finché questo processo non raggiungerà l’egemonia letteraria la scrittura sarà destinata alla noia e alla riproposizione della stessa nera esperienza su bianco. Una lettura non dovrebbe mai essere uguale a un’altra, nel contenuto ma anche nella forma. Ogni testo ha la sua composizione visiva, ha il suo concetto ma questo non basta, perché ci si accontenta di quei leggeri cambiamenti quando si potrebbe pretendere molto di più?
Perché prendersi, in definitiva, così sul serio?
Scrivere con la danza³, scrivere con le immagini, usare sintassi nuove per far inceppare il meccanismo vecchio, usare sintassi vecchie per far inceppare il meccanismo nuovo, creare ponti di forma e significato. Non è impossibile. Categorico non dimenticare le esperienze del gruppo OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) in Francia, del Gruppo 70, delle riviste Geiger, Tam Tam, Tèchne e BAU in Italia.

Breve raccontaggio

Subito dopo il terremoto de L’Aquila la mia famiglia, come molte altre, migrò con la macchina verso il mare abruzzese. C’erano gli alberghi ad aspettarci a porte aperte. Le prime notti furono strane: arrivando spesso dal suolo delle scosse di assestamento rimanevamo nella hall a dormire seduti su dei divanetti verdi. Gli adulti avevano facce preoccupate e stanche e avevano in bocca
argomenti sempre uguali ripetuti all’infinito. Io avevo otto anni, ricordo tutto abbastanza bene ma un dettaglio di quei giorni, che ogni tanto mi riviene in mente, è la fragilità di un piccolo banchetto di legno che quelli dell’albergo avevano
messo in mezzo a tutto. Era zeppo di libri per bambini.

Quelle copertine erano bellissime. Colorate. C’era un libro con una copertina scura con la sovrimpressione di un faccione dorato truccato di blu. Era la maschera di Tutankhamon. I colori brillanti, i simboli misteriosi, amavo la descrizione della mummificazione; quel libro aveva la storia già avvenuta di tutto ciò che cercavo per il mio presente da bambino in cui stavo acquisendo, pian piano, coscienza della falsità delle storie raccontate: non riuscivo a sopportare l’idea che non potessi
diventare uno dei miei personaggi preferiti che vedevo in tv. Volevo catturare almeno una piccola traccia di storia fantastica nel mondo reale. L’avevo appena trovata in quel libro. Ho scoperto solo poco fa di aver acquisito, in questa vicenda, un fratello di molto maggiore: Adriano Spatola. Anche lui fu colpito, da bambino, da questa grande diversità e mistero del simbolo, dell’allegoria e della morte. Geroglifico deriva dal greco ieròs (sacro) e glyphos (segno), quindi i geroglifici sono “segni sacri”
.
Questo essere sacrale della scrittura, con una struttura precisa fatta di simboli connessi fra loro, nasconde la vera costituzione egizia (intesa come l’insieme dei valori del popolo). L’allontanamento da questo modello ha portato Adriano Spatola a creare i suoi “zeroglifici” che altro non sono che affettati di forma e significato in cui avviene la perdita della dimensione sacra: la metafisicità e la chiarezza valoriale del linguaggio lasciano il posto a una continua ricostruzione, un perdersi nel tentativo di ricostruire le fette di discorso, il significato non è perso ma deve sempre essere ricomposto in uno sforzo interpretativo che rende vano ogni tentativo di trovare un punto di riferimento saldo e valido per tutti. Spatola, insomma, non fa altro che trascrivere nel linguaggio, per certi versi anticipando la realtà, la sensazione di perdita dei valori condivisi, prima cristallizzati
in una società compatta. Il mio apporto alla ricerca di Spatola consiste in una rottura con la pratica dei zeroglifici con la
ripresa della dimensione sacrale dei valori condivisi nei geroglifici. Questo ritorno al sacro, però, è solo “parziale” perché non va verso la ricostruzione di un segno condiviso da tutti, al contrario, è volto alla ricerca più intima fra l’oggetto e chi lo utilizza, fra l’oggetto e chi lo modella. La domanda che pongo dunque è “quale lingua può parlare l’oggetto a cui mi riferisco?”, in questo senso possiamo parlare di “mesoglifici”, cioè segni “attraverso cui” raggiungersi e raggiungere il significato attraverso il segno: il segno, così composto, non è indicatore rigido con un solo riferimento possibile ma nemmeno aperto con una ricerca in tutti i sensi come nei zeroglifici. Il segno, in questo modo, è frutto più intimo. Per chi modella diventa il proprio. Di seguito, a confronto, la notissima Stele di Rosetta, un lavoro di Adriano Spatola con degli zeroglifici e un mio lavoro con dei mesoglifici sul “linguaggio delle lettere”.

Velocità

La velocità è amica del nostro tempo, è stata amica di tutti i tempi a dire il vero: ogni processo umano è stato volto ad abbreviare il tempo di realizzazione delle cose, dall’invenzione della ruota all’invenzione del motore a scoppio ai telefoni ecc… ogni processo aveva come reale obiettivo non il ruotare, non il carburare, non la comunicazione ma la velocità che la realizzazione avrebbe comportato, una velocità che si traduce in guadagno di tempo per l’uomo. Questo fattore ci spinge oggi a ridurre i tempi per ogni cosa, in fondo l’abbassamento della soglia d’attenzione è un segno dell’evoluzione umana in quanto i processi di elaborazione di informazioni si stanno velocizzando. Esistono ancora, ovviamente, processi estremamente lunghi per il nostro tempo ma, nonostante questo, ci sono sempre minacce di snellimento in corso. A dire il vero questa velocità (che una volta veniva intesa inevitabilmente in un’ottica di guadagno di tempo in senso di riposo) ha una natura inversa, ha una natura pluriprocessuale: la velocità non è volta al guadagno del tempo per il non processo ma al guadagno del tempo per inserire più processi possibili in un lasso di tempo specifico. Giocare con lo snellire o l’appesantire il processo di realizzazione dell’opera dovrà essere il compito dello scrittore sperimentale, si potrà essere così velocizzatori o rallentatori del tempo a
seconda della direzione che si vuole prendere, l’importanza è la consapevolezza del mezzo e l’equidistanza dalle due parti prima e dopo la scelta.

 

¹ Giovanni Fontana. “GIOVANNI FONTANA SPATOLA ALLA DERIVA DEL FOGLIO.” “TESTUALE- Critica della
poesia contemporanea”, n° 59 / 2017, www.testualecritica.it (2017)
² Elisa Paganini. “Il primo libro di filosofia del linguaggio e della mente”
³ cfr. lavoro di Francesca Gironi