Moderno, avanguardia, postmoderno e catamoderno
by Francesco Muzzioli
Quando finirà la modernità? È cominciata con uno sbarco e potrebbe finire con un altro sbarco, per esempio quello preannunciato prima o poi su Marte. Ma non è detto che siano gli sbarchi a scandire la storia… Un momento: so bene che per molti la modernità è già bell’e finita e ci sarebbe solo da discutere sulla data terminale, la più gettonata essendo la metà degli anni Settanta del 900, in cui fonti accreditate segnano l’inizio del postmoderno. Ma il postmoderno nelle sue teorizzazioni più serie, cioè quelle che guardano alla base del nesso produzione-comunicazione, non è mai stato visto come un completo voltar di pagina: per Jameson non è che il moderno senza più avversari («Uno dei modi di raccontare la transizione dal moderno al postmoderno sta dunque nel mostrare come alla fine la modernizzazione trionfi e faccia piazza pulita di tutto il vecchio», Jameson, 2007, p. 313); per Harvey bisogna stare molto attenti a non prendere lucciole per lanterne e quindi l’enfasi sul cambiamento dovrebbe essere sottoposta ad attenta verifica («Dobbiamo verificare, tuttavia, se i mutamenti sull’aspetto superficiale indicano la nascita di un nuovo regime di accumulazione, capace di limitare le contraddizioni del capitalismo, oppure se essi indicano una serie di soluzioni temporanee che rappresentano un momento di transizione nella crisi del capitalismo nella fine del XX secolo»; Harvey, 1993, p. 235). Questi timidi avvertimenti che potrebbe trattarsi di una fase e non di un’epoca nuova di zecca sono stati intesi poco nel frastuono generale della moda osannante a soverchio delle pochissime voci contrarie (la mia minimissima tra quelle). Oggi che, invece, la moda è finalmente girata (come ogni moda che si rispetti), e si proclama ‒ con la stessa sicumera con cui prima lo si propugnava ‒ che il postmoderno è finito, accade che la modernità, invece di tornare in auge, dato che quel supposto oltrepassamento del post- si è rivelato transitorio, mostra crepe da tutte le parti, proprio nei suoi maggiori presupposti. Ma, appunto c’è da chiarire quali siano i presupposti della modernità e in che misura possano ancora rivelarsi strumenti utili quelli che vi facevano riferimento.
Innanzitutto, vediamo giornalmente il metro della situazione mondiale considerato secondo l’aumento di sviluppo e crescita: è questo il principio della modernizzazione tecnologica, condannata a reinventarsi continuamente per produrre nuovo consumo; e condannata quindi, anche, a guastarsi continuamente per sostituire l’obsoleto. Inoltre, il principio della concorrenza rende impossibile il benessere per tutti, mentre a uno sviluppo indiscriminato e infinito fanno limite l’esauribilità delle risorse e la salute dell’ambiente planetario, ormai “provata” in tutti i sensi. Ma di fronte a questa modernità se ne schiera un’altra: la modernità culturale, dove “moderno” significa libertà, emancipazione, maturità culturale e insomma contiene il motore della critica, del dubbio illuministico, dell’utopia. Queste due modernità non sono riuscite (non potevano) a trovare una sintesi nell’applicazione della ragione in forme di pianificazione e controllo dello sviluppo e si sono andate distanziando sempre di più, sempre di più il capitale culturale è apparso inutile se non desse guadagno immediato, sempre di più il cittadino è stato depauperato delle sue capacità di valutazione e vigilanza. Cattivi segnali accompagnano oggi da ogni parte le conquiste della modernità: la coscienza del lavoro viene conculcata nel lavoro automatizzato, squalificato e precarizzato; la laicità è attaccata tutti i giorni da slogan e parole mitiche; la democrazia è ridotta a ostacolo da saltare, visti gli esempi eccellenti delle società dittatoriali come più facilmente e rapidamente produttive là dove (Cina in primis) il potere decisionale non può essere messo in discussione.
Potremmo analizzare la situazione-modernità e le sue contraddizioni secondo la non-coincidenza delle seguenti quattro posizioni:
1) lo sfruttamento. È la posizione principale, basata sulla legge di ferro del profitto. Si direbbe costituita da un cinismo materialista e tuttavia è per certi versi antimaterialistica, perché considera la materia cosa meramente subalterna ‒ che viva il denaro e perisca ogni altra forma di vita! (Analogo discorso per il culto/disprezzo della donna-natura). In questa prospettiva, l’essere umano è il suo corpo (la forza-lavoro), ma ci possono essere dei corpi inutili. Ci può essere tutto un esubero di corpi che non funzionano più da “esercito di riserva”, ma solo da intralcio da smaltire. E nella finanziarizzazione lo sfruttamento diventa addirittura astratto, sfruttamento di sfruttamento (si ragiona, non a caso, su “capitalismo come religione”);
2) l’umanesimo è la risposta tutta spirituale, riferita a Valori non negoziabili. È l’opposto dello sfruttamento? Per certi versi sì, ma attenzione (Benjamin lo nega, alla fine del suo saggio L’autore come produttore: «la lotta rivoluzionaria non si svolge tra il capitalismo e lo spirito»; Benjamin, 1973, p. 219). Il sospetto nasce non solo dal fatto che l’umanesimo ha sempre accompagnato lo sfruttamento in forma di “anima bella”, di momento sentimentale di bontà affatto secondo e ineffettuale di fronte a un male necessario; soprattutto il problema dell’umanesimo anche nella sua migliore versione etica è che sogna, senza mai riuscirci ovviamente, di convertire lo sfruttamento, non di abolirlo: sogna, cioè uno sfruttamento buono, uno sfruttamento onesto, finendo per conseguire soltanto delle elemosine. Altro aspetto da considerare è il volgersi di questa posizione verso il passato, dove i Valori avevano stanza e ora sono sempre più disattesi. Ogni ricerca identitaria di recupero di radici e simili, va collocata su questo lato;
3) la spettacolarizzazione. È essenziale alla produzione del consenso. La “società dello spettacolo” (vedi la grande e dimenticata variazione-Marx di Debord: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; Debord, 2004, p. 53) come sottrazione della realtà e sfruttamento della intera vita inscatolata nelle figure dell’immaginario dominante. È il regno della fiction e della conseguente immedesimazione che introietta ipnoticamente reazioni emotive e stili di vita.
4) le facoltà sprecate: è il residuo del sistema. Lo sfruttamento, infatti, è totalitario, ma unilaterale: lascia cadere molte capacità degli stessi sfruttati. Intendo: in senso parziale (nelle formazioni disattese; ad esempio un laureato che consegna pizze) e in senso totale (i puri corpi dei migranti che non fa niente se muoiono in mare). Una parte dello spreco viene riassorbita nella spettacolarizzazione, ma non tutto: si può parlare di una rimanenza, di una resistenza corporea.
Si potrebbero incrociare le quattro posizioni in questo modo:
Si può presumere che l’arte debba attraversare tutte e quattro le posizioni. Con le conseguenze del caso: 1) lo sfruttamento dell’arte consiste nella sua mercificazione, sui vari mercati: dell’arte figurativa, del cinema, del romanzo, ecc., in dipendenza dai media più potenti e dalla importanza della figura dell’autore come personaggio dotato di notorietà; 2) la spettacolarizzazione consiste nella ossessiva ripetizione di pattern prestabiliti e nell’incensazione delle mode con attrazioni invasive; 3) sul lato dell’umanesimo troviamo il richiamo all’etica dell’arte impegnata, la memoria storica, la New Italian Epic, ecc., uno sforzo encomiabile che rischia però di cadere nella spettacolarizzazione quando richiede una partecipazione emotiva-empatica non diversa quanto a immediatezza irriflessiva; 4) resta la casella delle facoltà sprecate: non è neanche tanto una posizione scelta quanto una condizione costitutiva dell’arte nella situazione-modernità. Da lusso aristocratico, l’arte decade a residuo inutile. È l’Albatros di Baudelaire e via via tutte le successive registrazioni di questa “perdita d’aureola” («Gli uomini non dimandano più nulla dai poeti» di Palazzeschi e andiam dicendo). Da questa posizione, la scelta è quella di non far finta di nulla, e però nemmeno di rimpiangere o conservare o rivendicare presunte vesti sacrali d’antica data, ma di ribaltare l’emarginazione in contrattacco.
Si apre la questione dell’avanguardia che rappresenta la modernità radicale e propone, nel Novecento, l’arte come sovversione. Si tratta di fare a meno delle regole trasmesse e quindi di violare i confini tra i generi e addirittura tra le arti stesse, cercando contaminazioni, connessioni, sinergie. E poiché il canone della bellezza si è dimostrato sempre al servizio della classe egemone e della sua distinzione, l’avanguardia deve procedere come anti-arte (antipoesia, antiromanzo, ecc.), quindi senza garanzie precostituite.
Di cosa succeda qui un caso emblematico ‒ emblematico proprio perché estremo ‒ è l’orinatoio di Duchamp esposto nel museo. Esso innanzitutto rompe la sacralità museale in quanto oggetto decisamente insignificante e di uso volgare, adibito al basso-corporeo. Nello stesso tempo però questo elemento materiale e non sublimabile riceve, per il fatto stesso di essere equiparato a un’opera d’arte, qualcosa che prima non aveva. Trovandosi nello spazio artistico potrebbe addirittura produrre delle percezioni estetiche e in questo caso dimostrerebbe il potere di assimilazione del museo e la potenza del gesto espositivo. Ma è probabile che non suggerisca nessuna “buona” percezione; però allora ancora di più assume valore come elemento perturbante, infiltrato tra le valide prove della bellezza. Esalta, allora non il museo, ma la sovversione dell’artista che viola le norme museali. Così guadagna un senso non inferiore a quello delle opere d’arte consacrate. L’oggetto comune viene dotato di insistenza in quanto insiste a stare dove non dovrebbe. L’autore all’uopo aggiunge un titolo (metaforicamente ironico: “Fontana” ‒ che allude per altro alla sua funzione pratica, ora però resa impossibile dalla trasposizione in arte). Ma c’è di più: il suo senso allegorico in quanto oggetto cui è stato aggiunto un senso non previsto sta nel mettere in luce la natura repressiva dell’estetica e il suo connotato distintivo, sostanzialmente classista. Questi gli slittamenti:
In generale, con l’esplodere del gusto estetico condiviso, l’unico criterio di valutazione dell’avanguardia sarà il carattere rivoluzionario, più asseribile che dimostrabile. Certo nella storia del Novecento, l’accordo con le forze politiche rivoluzionarie risulterà sempre problematico, sia per il conservatorismo culturale dei movimenti politici, sia per l’ingombro di simili compagni di strada. Ma intanto quello che vorrei sottolineare è che si attua, in ciò, un fondamentale decentramento: l’arte ha il suo valore fuori di sé e quindi abbandona ogni sicurezza “settoriale”, per sconfinare nella mera vita delle facoltà sprecate.
Nei termini benjaminiani si deve effettuare il passaggio da qualità a tendenza. Ragionare dell’arte in termini di qualità significa considerarla come uno spazio unitario in cui ci sono però differenze di grado: due autori fanno entrambi parte della letteratura, solo che uno raggiunge un risultato alto, un altro un risultato mediocre, inferiore (Croce applica questo criterio addirittura all’interno del testo: poesia vs non-poesia; Bloom lo utilizza per stilare le sue classifiche degli autori canonici). Invece, ragionare in termini di tendenza significa che anche lo spazio della letteratura è attraversato da un dissidio, da un antagonismo (prima ancora di collegarlo alla politica attiva nella società, si applica alla letteratura la logica della politica). Lo spazio letterario è solcato dalla divisione delle diverse e anche opposte tendenze, ci sono sempre almeno due letterature, due arti fortemente dissimili tra loro. Secondo Benjamin c’è sempre una necessità di schieramento che però va, alla fine, verificata nella «tecnica letteraria delle opere» (Benjamin, 1973, p. 201).
Viene a mancare, come dicevo, la legittimazione istituzionale. Per l’avanguardia, l’unico salvagente diventa il collettivo, l’adesione di più individui-artisti, pronti a gettare alle ortiche il narcisismo del nome (essenziale, come accennavo, nell’ottica dell’industria culturale, come “marchio di fabbrica”) per confluire nell’anonimato della scrittura. Al centro (soprattutto nella “seconda ondata” del secondo Novecento) si pone non già il problema dell’espressione autentica del singolo, ma la questione del linguaggio come strumento sociale. Il linguaggio dell’espressione autentica è in realtà un linguaggio falso, codificato, già costituito proprio nella sua spontaneità; l’avanguardia si ripromette di depurarlo, di trasformarlo, di stravolgerlo. A tal fine, si può uscire dal normale in due estremi opposti: l’automatismo e la programmazione, al di sotto o al di sopra della autocoscienza. Le prime avanguardie hanno trovato varie soluzioni, i futuristi le “parole in libertà” (che però erano corrette da tutta una serie di divieti); i surrealisti la “scrittura automatica” o quel linguaggio dei giochi di parole in cui i termini si cercano da soli. Nelle seconde avanguardie ha avuto risalto il polo del programma (si pensi ai meccanismi messi in opera da Balestrini) ed è girata la formula dello sperimentalismo, per cui l’autore era chiamato ad assumere la posizione dello scienziato che osserva l’esperimento.
In un modo o nell’altro, l’esito è l’anomalia. Il testo si presenta come il portatore di una difficoltà, si configura come enigma, da cui scaturisce la sfida al fruitore: il fruitore è messo di fronte a un aut aut, o rifiuta in blocco, oppure è costretto ad entrare in una logica “di crisi” da cui potrebbe uscire anche con un senso azzerato. Si potrebbe lamentare ‒ come accennato sopra ‒ la perdita dell’estetica. L’estetica del gusto canonico, è vero, va a perdersi, ma ‒ se intendiamo “estetica” come momento percettivo ‒ la percezione c’è, eccome; c’è una percezione forte che consiste nello spiazzamento e nella sorpresa. Insomma, la “rivolta delle facoltà sprecate” (il loro rivoltare l’emarginazione in contrattacco, come dicevo) presenta anche nei minimi particolari l’aspetto radicale e utopico di un modo diverso di reagire ai traumi.
Che poi tutto questo sia stato ridotto alla logica dei sorpassi tra i diversi movimenti e in una gara a chi è più “nuovo” di chi, è altro discorso e rappresenta una visione dell’avanguardia tradotta nei termini della spettacolarizzazione. Da questo punto di vista, è vero che l’avanguardia è finita, nel senso che la spettacolarizzazione l’ha utilizzata e abbandonata, dopo averne introiettato, ben disinfettati, alcuni procedimenti; lo si può vedere bene nell’operazione-postmodernità e nelle sue blande pratiche di riscrittura. Se l’avanguardia aveva praticato la citazione come contestazione della proprietà privata del linguaggio e l’ironia come autoironia e scoronazione del soggetto; il postmoderno le enfatizza, citazione e ironia, ma in versione “leggera”, come dimostrazione che non si può far più nulla di nuovo e come sdoganamento del senso comune, mandandole a confluire in una mescolanza indifferenziata e confusa, in definitiva senza attrito. Nel momento in cui dice che la storia è finita e si può quindi riscrivere a piacere, il postmoderno chiude la porta soltanto dell’avanguardia in quanto testo che non vuole convivere pacificamente con gli altri. L’accattivante bonomia pluralista si converte in asserzione liquidatoria. Il pronunciamento contro la possibilità stessa dell’avanguardia si presenta come una constatazione di fatto, ma contiene, a ben guardare, un tono ingiuntivo, un risentito divieto a procedere. E però, dichiarando che non si possono più effettuare sorpassi, il postmoderno non compie forse un sorpasso enorme? Così come l’affermazione della fine dei grandi racconti è a sua volta un racconto di sicuro non proprio piccolo.
Comunque, anche considerato il postmoderno non come epoca completamente nuova, ma come fase della modernità, il problema, per quanto riguarda l’avanguardia, non cambia molto. Si tratta, in ogni caso, di un periodo ostico: se l’avanguardia è legata al carattere rivoluzionario è chiaro che un periodo di assenza di rivoluzione (dove il futuro utopico viene riconosciuto nel presente e perciò azzerato!) non le è molto favorevole. Jameson sottolinea un rovesciamento di prospettiva nell’ambito artistico e ‒ sulle orme di un suggerimento di Perry Anderson ‒ lo descrive come un “ritorno al mercato”:
Perry Anderson mi rammenta però che, a tale riguardo, l’aspetto più profondo ed essenziale condiviso da tutte le espressioni del modernismo non è da rintracciare tanto nella loro ostilità verso una tecnologia che alcuni (come i futuristi) in realtà hanno esaltato, quanto piuttosto nell’ostilità nei confronti del mercato. La conferma della centralità di tale aspetto viene poi dal suo rovesciamento nelle varie forme del postmodernismo, le quali, ancor più difformi l’una dall’altra rispetto alle varie espressioni del modernismo, condividono tutte per lo meno una sonora affermazione, quando non addirittura un’aperta esaltazione, del mercato in quanto tale. (Jameson, 2007, p. 307)
E poiché il mercato, stante la crisi, non vuole correre rischi, le facoltà sprecate aumentano e l’avanguardia risulta un corpo sempre più estraneo. Per la modernità culturale è una fase indubbiamente irta di difficoltà (sebbene già Brecht e Benjamin negli anni Trenta del Novecento non se la passassero molto meglio…). La domanda è: quale alternativa è praticabile in questa situazione? L’impasse è stata affrontata nell’ultimo tornante de secolo XX° con l’ipotesi Terza Ondata promossa da Bettini e Di Marco attraverso un’antologia presto scomparsa dai radar. L’antologia, convocando su carta un congruo numero di autori dimostrava la persistenza della ricerca e la presenza diffusa in Italia delle poetiche non allineate. Tuttavia, l’esito mostrò altrettanto chiaramente che il numero non riusciva a saldarsi in un movimento collettivo, di cui mancavano evidentemente non dico i presupposti, ma le formule di mediazione e soprattutto il terreno di coltura. Nello stesso tempo, però, si rivelava ancora più improbabile l’ipotesi opposta, quella per così dire entrista: l’utopia massima risultava infatti la furberia tattica di entrare nel mercato e di modificarlo dall’interno (una possibilità che restava solo agli autori affermati e ormai reperti storici). Se la vera figura dell’artista d’avanguardia non è ‒ a mio parere ‒ quella della staffetta avanzata, bensì, per continuare la metafora militare, quella dell’infiltrato paracadutato in territorio nemico; allora, l’infiltrato tendeva a trasformarsi nel clandestino.
A questo punto, la progettazione anomala parrebbe il caso del combattente non avvertito che la guerra è finita. Ma poiché per molti versi manifestamente la guerra non è finita e malgrado l’efficacia e la potenza dei mezzi la quadratura dello sfruttamento (sempre che sia proprio un quadrato, come l’ho disegnato sopra) non si realizza senza produrre il suo ineliminabile scompenso, ecco allora che resta sempre un margine al che fare? Ogni artista, nei limiti di tutti i condizionamenti interni ed esterni che possiamo immaginare, si trova davanti a una decisione. Lungi da me pensare alla creazione come l’equivalente in sedicesimo del fiat divino, tuttavia c’è sempre, per modesto che sia, un gesto da compiere, che è in nostro potere compiere o non compiere, compiere in un modo piuttosto che un altro ‒ un esempio ne è questo stesso scritto: messomi a disposizione questo spazio, di cosa parlerò? di cosa ritengo necessario parlare?
Si tratta di trovare il modo di incunearsi nella contraddizione. Perché il sistema dell’alienazione spettacolare è tutt’altro che monolitico, anzi, per avere presa generale, è costretto ad oscillare tra due poli estremamente distanti, il cinismo e il fondamentalismo, le meraviglie tecnologiche e il sogno di massa da una parte, le reazioni primitive e il pensiero mitico più o meno mascherato dall’altra. Lo stesso sforzo di riassorbire i “disagi della civiltà” può dar luogo a formazioni paradossali come la distopia, cioè il racconto della catastrofe definitiva. Occorre scrutare bene i margini, le crepe, le pieghe. Non abbandonare ‒ malgrado tutti i supposti superamenti che decretano la fine del Novecento ‒ l’eredità migliore delle esperienze sperimentali, ma anche fare uno sforzo di osservazione per capire cosa si muove (proprio nel senso del dinamismo vitale) tra i giovani meno succubi dei modelli di successo. Seguire le tracce di uno sperimentalismo in nuce. L’imperativo assoluto è ancora malgrado tutto di tipo illuminista: esercitare la critica, secondo il suo significato etimologico, cioè cercare di distinguere (sia pur nella nebbia presente) e di separare (lasciando l’idea irenica che, nella cattiva sorte della letteratura, si debba per forza fare fronte comune). Su questi nodi problematici si è espresso bene Sanguineti, in una delle sue lucidissime interviste:
Io credo che il problema della critica e dell’avanguardia oggi sia quello di cogliere i nodi del potere, di scegliere il nemico giusto. Forse un tempo era più facile. Nei tempi dell’emergenza ‒ per esempio gli anni Trenta ‒ è facile sapere dove stare. Ma del resto, quando si guarda al passato in quanto passato, esso appare necessariamente semplificato, e invidiabile per chi vive il presente complesso (Sanguineti, 1998, p. 223).
A questa condizione ho dato il nome di catamoderna. Al profetico prefisso post- ho sostituito un meno ottimistico prefisso cata-, la direzione verso il basso del peggioramento (il prefisso della catastrofe). Una direzione verso il fondo. Ammettiamo che, come indicano molti segnali, la modernità stia andando a fondo. Ma questo allora sarebbe il momento di appigliarsi al fondo della modernità, cioè ai suoi gesti primari e costitutivi. Sarebbe anche il momento di portare la modernità fino in fondo, cioè alle ultime conseguenze, all’estremo del radicalismo e della contraddizione, come ancora non è stato fatto. Assumere la stessa presunta impossibilità di un simile gesto nella allegoria dell’impossibilità, ne venga fuori un’espressione dissonante come quel canto della sfinge di Baudelaire (4° Spleen) che, sperduta e dimenticata nel deserto, modula al tramonto il suo humeur farouche. Al contrario dei ritorni all’ordine (del mercato) o dello sconfittismo nostalgico, tutti molto seri, l’artista catamoderno costruisce una poetica del riso reattivo, eccentrico ed estroso, tra satirico e tragicomico: un riso ultimativo da operetta morale.
TESTI CITATI:
Benjamin, W., Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973;
Debord, G., La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004;
Harvey, D., La crisi della modernità, Milano, il Saggiatore, 1993;
Jameson, F., Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007;
Sanguineti, E., Elogio dell’antitesi. Il significato dell’avanguardia oggi, «Allegoria», X, 1998, nn. 29-30.
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