Scrittura e Paesaggio (parte prima)

by Egidio Marullo 

 

1  Logos e percezione visiva.

 

Paul Valery, rivolgendosi a un congresso di chirurghi nel 1944, giunse ad affermare che l’importanza vitale di una funzione mentale può essere misurata dal grado secondo cui tale funzione non supporta un attento esame da parte dell’attività cosciente. In altre parole esistono funzioni che preferiscono l’ombra alla luce o almeno la penombra: ossia il minimo di consapevolezza cosciente che è necessaria  e sufficiente a far si che tali azioni si verifichino e siano controllate[1]

 

Quando, approcciandosi all’Asemic Writing, si dà inizio al processo di svuotamento della scrittura, come in più occasioni è stata definita da Francesco Aprile, quella particolare condizione che vuole la parola scritta slegata dal suo significato convenzionale ma non dal suo “senso”, ecco che essa viene percepita sia dal fruitore quanto dall’operatore nella sua struttura profonda di materia formale, assoggettata ai modi, alle regole o alle consuetudini della percezione visiva. In altri termini, per dirla come Kant essa ambisce ad una “bellezza Aderente”, che si relaziona ad un modello precostituito, quindi conosciuto dal fruitore o addirittura tende alla “bellezza libera”, propria della natura e dei suoi elementi. I modelli ai quali l’opera dovrà aderire fanno riferimento comunque agli archetipi percettivi legati all’ambiente e ai suoi principi visivi.  Partendo da tale certezza si può quindi iniziare una riflessione sulla scrittura come elemento formale che contribuisce alla composizione dell’immagine. Quella che si propone qui non è certo una mera riduzione della scrittura ad una delle parti della composizione, né tantomeno si vuole sottrarre ad essa il suo principio espressivo. La parola scritta, con tutto il suo armamentario semantico, con tutti i suoi valori estetici e con tutte le sue varianti può inserirsi nelle maglie della pittura, tra le pieghe della rappresentazione, addizionando il suo carico di elementi dialoganti a quelli descrittivi, propri della pittura. La scrittura può quindi essere letta e contemporaneamente assorbita nella materia visiva che costituisce l’immagine. Divenendo immagine pittorica essa stessa.  

Nel suo intervento “Kénosis, lo svuotamento della scrittura[2] Francesco Aprile distingue due correnti all’interno del movimento Asemic: la prima che definirei organica, usa la scrittura ponendola in risonanza con la materia pittorica, la modella combinandola al colore; la seconda “segnica” fondata su moduli anarchici, talvolta schizoidi, sulla ripetizione ossessiva del segno letterale. La prima corrente sembra svilupparsi attorno ad un fare pittorico, influenzato direttamente dai metodi e dalla prassi pittorica, dall’idea, dalla preparazione dell’opera al suo completamento. La seconda corrente appare invece fortemente influenzata dall’azione, da un fare performativo e fortemente gestuale rimandando l’osservatore a concezioni di natura espressiva tipiche di certa avanguardia. In questo frangente la scrittura diviene traccia vitale che un corpo “scrivente” ha utilizzato per distendere sul piano della carta una narrazione “scritta” da gesti, il racconto impulsivo si libera in un flusso generativo e vitale, legato al corpo di chi compie l’azione e di chi la fruisce. Il significato non solo non esiste più, non è mai esistito, così come non esiste e non è mai esistito un significato ideologico nell’atto di nutrirsi o in qualsivoglia altra funzione fisiologica. Ogni significato che, ad esempio si voglia attribuire all’atto di nutrirsi non sarebbe che un’elaborazione ideale, strutturata su una più o meno chiara simbologia espressa da quell’azione, nutrirsi può significare piacere ma anche ingordigia a seconda del contesto in cui si compie l’azione e agli elementi che in essa intervengono, quindi possiamo definirla secondaria o indiretta anche se prevedibile. Non c’è quindi una logica significativa nell’alternarsi delle lettere, il corsivo sgorga nell’immanente senza operare variazioni o alterazioni cognitive quel fluire ora veloce e furente, ora lento e cadenzato risponde solo ad una esigenza primordiale di esprimere, innanzitutto la propria corporalità, l’esistere, l’istanza prima dell’esistente fisico.  

 

Per entrambe le correnti è evidente un attaccamento ad una certa tradizione tipografica. L’intero movimento sembra risentire in tutto il processo creativo degli stilemi tipici dell’impaginazione. In entrambe le modalità espressive l’Asemic guarda con molta attenzione e prende insegnamenti dal mondo della stampa, della grafica e da quello della pittura. In definitiva volendo trovare le coordinate germinali che hanno favorito lo sviluppo “spontaneo” dell’Asemic Writing, possiamo dire che nel suo operare sembra risentire dell’influenza di due discipline distinte e separate: una legata alla pittura e a tutti i suoi stilemi, ai suoi nodi compositivi, tanto da confondersi, in certi casi con essa e l’altra, la grafica e la stampa anche per l’utilizzo degli strumenti propri delle discipline. Da un lato troviamo artisti che prediligendo la materia, introducono la scrittura mettendola in relazione diretta con la superficie e con il colore, dall’altro troviamo invece esperienze creative che prediligono una certa bidimensionalità, superfici docili, talvolta di piccole dimensioni, soprattutto carte, l’uso di tratti sottili, del corsivo e riducono molto l’ingerenza del colore nell’equilibrio formale della composizione.

    All’interno di entrambe le correnti sono molti gli autori nella cui opera è facile ritracciare una fortissima attenzione alla forma come ente sensibile e strumento più o meno palese di conversione del significante in significato. Spesso la scrittura opera all’interno dell’opera una sorta di copertura, un velo concettuale che sembra avere il ruolo di nascondere i rimandi al mondo reale e al contingente. A mio avviso invece è proprio il contingente ad essere il vettore principale grazie al quale si dipana il prodotto artistico come congettura, come espressione di una condizione esistenziale viva che volutamente si allontana dal linguaggio, lo inquina e lo deforma. Come il bambino che addiziona capre e cavoli tanti artisti ambiscono ad una connettività estrema tra gli strumenti linguistici (scrittura e immagine) fino a denaturarli frammentandone le prospettive, raggiungendo un terzo stato dell’arte, una catarsi estetica artificiale ma al contempo veritiera e viva. 

 

Giovanni Fontana nel suo intervento “Asemic” [3] sembra completare il ragionamento di Aprile sostenendo che esistono due modi di lavorare attorno, e con la scrittura, facendo iniziare il processo creativo dal modo di concepire l’opera: distinguendo in modo quasi scientifico la genesi dell’opera partendo dall’immagine o dalla scrittura. Fontana sostiene che questa distinzione sia alla base dell’indirizzo formale della linea espressiva che il singolo artista seguirà. Nel primo caso la scrittura tende ad essere uno strumento tra gli altri che l’operatore utilizza per far germogliare la forma anche se la scrittura non disegna e non delinea le forme eventuali. Nel secondo caso la scrittura tende ad essere l’unico strumento compositivo, in questo contesto essa assurge al ruolo di soggetto. Anche in questo caso l’autore, sia che conduca la sua operazione privilegiando l’immagine sia che favorisca il segno scritto, sia che usi la scrittura in modo fluido è asservita alla composizione. Anche nel caso in cui conduca verso un’elevazione del segno “traccia”, opera comunque una riduzione ed una trasformazione di stato della scrittura sciogliendola come fosse un medium nella materia pittorica. Si tratta di capire o se si vuole di distinguere il peso specifico, le proporzioni, i rapporti che intercorrono tra scrittura e gli altri conduttori espressivi.

Sempre Fontana sostiene che tra gli operatori ed anche tra gli artisti vi sia da distinguere tra chi pensa all’immaginazione come un processo che riguardi esclusivamente il mondo delle immagini e chi invece pensa solo per immagini. In questo ragionamento Fontana sottintende ad una scissione netta tra immaginazione e pensiero. Nel primo caso l’operatore arriva alla creazione dell’opera attraverso un passaggio ulteriore: visualizza uno o più pensieri ponendoli nell’alveo di una capacità di trasformazione della realtà operando una manipolazione, talvolta estrema del mondo concreto aggiungendovi elementi di alterazione della stessa che la proiettano in un altrove definito genericamente “immaginazione”. Coloro che invece pensano esclusivamente per immagini scavalcano quest’ultimo percorso e manipolano direttamente l’immagine cogliendo lo stratificarsi del flusso del pensiero visivo.

Di pensiero visivo parlava Rudolf Arnheim nel descrivere il processo creativo di certi artisti che modificano le loro opere man mano che procedono nella stesura, arrivando a risultati lontanissimi dall’idea di partenza. Arnheim sostiene che la superficie dell’opera è da considerarsi cosa viva, uno scenario in cui gli elementi si evolvono e cambiano la loro forma e la loro sostanza seguendo il flusso del pensiero visivo dell’artista, tanto che l’opera risulta essere il frutto di un processo stratificato ed intuibile se non addirittura visibile. Per certi versi potremmo sostenere che per alcuni autori il processo evolutivo dell’opera potrebbe essere più significante dell’opera stessa. In tal senso la documentazione in itinere di questo processo avrebbe un valore determinante. Documentare le continue metamorfosi dell’opera significherebbe aprire una finestra sul pensiero visivo dell’artista e sul flusso magmatico dei pensieri stratificati in immagini sovrapposte e mutevoli. La metamorfosi diviene quindi “action” significante, raccogliendo in se e testimoniando il flusso di immagini-pensiero che sono anche flusso di respiri, gesti repentini, pause, la vita che l’autore ha vissuto mettendosi in relazione con la sua opera.     

 

  1. Lo Spazio

 

Fatte queste premesse il primo tema d’indagine per giungere ad una completa comprensione della misura formale della scrittura è sicuramente quello dello spazio. Il tema nasce con la scrittura e viene trattato sin dall’inizio con grande cura dai primi operatori. Potremmo dire che la gestione dello spazio è stato il primo problema che lo scrivente si sia posto, dalla scrittura geroglifica a quella cuneiforme, delle prime tavolette d’argilla o ancora prima dai dadi e dai contatori sumeri in poi, si è reso necessario un arbitrio sul tema delle dimensioni e sulla distribuzione degli spazi, su una certa gerarchia semantica da comunicare con chiarezza riducendo gli spazi alla libera interpretazione. Il problema ha continuato ad essere approfondito anche in seguito, la stessa scissione tra ideogramma e fonogramma sembra essere il frutto di una criticità dello spazio, tale da rendere necessario l’intervento di un altro vettore come il suono a migliorare la sempre maggiore difficoltà di gestione degli spazi grafici della scrittura. Attraverso il suono infatti lo spazio occupato dalla scrittura si riduce notevolmente, la sintesi concettuale che lega l’immagine al suono ha liberato spazi vitali per gli equilibri visuali. Tale scissione ha aperto una strada che nei secoli ha prodotto una scissione nettissima tra grafema e fonema, con il risultato non voluto che il fonema lontano dal significato soprattutto nella dimensione performativa e musicale o artistica. Il linguaggio dei suoni vocali in verità è molto complesso e si sviluppa anch’esso come lingua, quindi con una sua sintassi e con una sua grammatica. Lo sviluppo esponenziale del linguaggio verbale, dei suoni organizzati in parole hanno sommerso il restante lessico sonoro e gestuale a sottolinguaggio.

Allo stesso modo la scrittura organizzata in fonemi ha soppiantato nel tempo gli altri linguaggi grafici, le “altre scritture”. Lo spazio della scrittura fonetica ha subito nel corso dei secoli una ferrea organizzazione del campo d’azione che ha contribuito non poco a rendere lo spazio d’azione sempre più modulare, organizzato in texture e pattern che dal punto di vista visivo tendono ad uniformare la superficie in una sola stesura cromatica. È evidente una certa tendenza all’astrazione, all’annullamento delle istanze formali.

Questo risultato però deve essere valutato alla luce di secoli di evoluzione della scrittura, dai primi rotoli, dei primi codici miniati all’invenzione della stampa; dalla rivoluzione tipografica al digitale; dalla scrittura musicale alle sequenze infinite di codici di programmazione. Il legame visivo tra lettere, numeri e spazio visuale è andato sempre più a trasformarsi in un rapporto di livelli: il livello di fondo serve solo come supporto, come “piano” ospitante ove la scrittura può essere organizzata senza sottostare a vincoli. Oggi il digitale propone testi fluidi, liquidi che si adattano istantaneamente al supporto utilizzato per la lettura.

Certo è che i rapporti sinsemici tra “oggetti della comunicazione” e “spazio” della stessa hanno condizionato per secoli gli operatori e continuano ancora oggi. L’organizzazione della pagina, il suo essere soggetto contenente e contemporaneamente cellula e contenuto rende necessario, a tutti i livelli, una strettissima interazione tra segno grafico, corpo della scrittura e spazio, corpo dell’immagine.

Dal mosaico della Cattedrale di Santa Maria Annunziata di Otranto ad opera del monaco basiliano Pantaleone (1163 – 1165) a La Semiologie graphique, Les Diagrammes, les réseaux, lartes, di Bertin pubblicato nel 1967 l’arte e la scienza hanno ritenuto inscindibile il rapporto tra spazio-superfice, sia esso pagina, tela, pavimento, parete o altro,  e gli elementi della comunicazione, siano essi lettere, simboli, segni o macchie di colore.

Ecco che in continuità con quest’ultimo enunciato, anche nella pittura di Paesaggio esso diviene pagina, superficie e spazio. Botticelli, Giorgione Friedrich e tantissimi altri artisti inarrivabili hanno trattato il paesaggio come un vettore proprio della comunicazione, configurandolo come strumento narrativo, descrittivo, simbolico, musicale, usandolo quindi non come mero sfondo ma come soggetto che si pone in relazione con gli altri soggetti presenti nel contesto opera.

Legami di tal natura sono saldati dall’autore nell’atto compositivo, nella stesura ed in tutte quelle metamorfosi che determinano poi la resa ultima. Linee di forza, peso equilibrio, movimento e ritmo determinano l’unione dei livelli visivi confezionando l’immagine rendendola leggibile in modo semplice o complesso, attraverso rapide suggestioni o approfondite ricerche di senso e proiezioni meta semantiche.

 

Quel che qui ci si domanda è se esiste la possibilità di uniformare il paesaggio alla scrittura. Paesaggio e scrittura entrambi soggetti principali della comunicazione vivono, nonostante i tentativi più o meno riusciti negli ultimi duemila anni, in una perenne scissione formale.

Lo spazio del paesaggio offre infiniti percorsi segnici che possono mutarsi in scrittura.

La scrittura offre infinite varianti morfologiche che possono evolversi in elementi del paesaggio. Ma al di là degli aspetti ludici tipici del mondo della didattica e fatti propri dalla comunicazione pubblicitaria il quesito rimane intatto e le eventuali implicazioni sono a tutt’oggi pressoché inesplorate.

Porre in relazione scrittura e paesaggio non deve prevedere necessariamente che uno dei due elementi si pieghi alle esigenze formali dell’altro; non v’è alcun bisogno di stabilire gerarchie o primati, ambedue devono mantenere le loro caratteristiche e le loro qualitù espressive. Si tratta solo di trovare soluzioni che esaltino la complementarietà dei due linguaggi.

 

  1. Scrittura e pittura.

Vi è nella pittura d’ogni tempo il seme della scrittura. Nelle opere di ogni luogo vi è sempre un rimando al processo di trasposizione di pensieri sottoforma di parola. Talvolta velato, oscurato dalla potenza degli elementi pittorici, altre volte visibile, tangibile, la scrittura si staglia e si rigenera nella pittura.

Esperienze molteplici hanno tracciato la congiunzione tra pittura e letteratura e non sempre il testo scritto si mostra sottoforma di lettere e fonemi. Per certi versi la pittura ideogrammatica dell’età del bronzo o la potente pittura parietale bizantina parlano una lingua di confine. Spesso l’immagine si fa narrazione, non già attraverso la sequenzialità temporale degli elementi visivi ma piuttosto grazie a codici iconografici o dipanandosi lungo conduttori segnico-gestuali, in base ai valori temporali, storici e alla sfera del contingente, propri delle culture e dei singoli autori delle opere.  

È evidente come queste pulsioni del “verbo” abbiano a che fare spesso con un bisogno di spiritualità che, in vari modi ha investito e travolto i singoli artisti quanto le prassi della pittura popolare. Da Giotto a Giorgione, da Bosh a Monet, quasi tutte le avanguardie storiche fino a Gorky, Wols e Pollock, Kline, Vedova, ecc…la scrittura, il suo seme, il suo legame con l’astratto sembra abbiano il compito di completare l’opera, come se grazie al testo questa assurga alla dimensione spirituale acquisendo una potenza comunicativa che riesce a superare le barriere della ragione. L’immagine diviene preghiera e medium in grado di ricongiungere la babele dei linguaggi umani a favore della lingua di Dio.  

D’altronde in altre discipline come la musica, la scrittura si fa verbo, il canto stesso conserva in sé, nell’impianto di valori fondativi la parola. La parola in musica viene potenziata, caricata di molteplici valori semantici.

Nella pittura, l’elemento verbale non è sempre così evidente. Non potendo contare in prima istanza sull’elemento fonetico, sonoro e uditivo, l’apparato verbale si riduce a segno muto, a simbolo o soltanto a gesto. Tale riduzione trasforma il risultato costringendolo in una dimensione più cerebrale e misteriosa, obbligando il fruitore a inoltrarsi autonomamente nell’immagine e nei suoi abissi. Se nelle culture religiose di ogni popolo e tempo la musica ha uno spiccato valore rituale e celebrativo, le arti visive possiedono maggiormente qualità contemplative.   

Ecco che entrando, addentrandosi nella dimensione spirituale, l’esigenza comunicativa alla quale risponde solitamente il testo scritto, la parola, intesa come vettore di senso perde il primato a favore del bisogno di esprimere. Da sempre ed in tutte le culture esiste quindi una dimensione estetica dove la parola scritta si evolve mutando la sua natura precedente. Ecco che la parola diviene forma e lascia cadere la sua veste ordinaria per attuare la sua metamorfosi. In questa fase i fattori tecnici, gli strumenti, la prassi di scrittura, il gesto, divengono sempre più importanti perché complici della morfologia del testo. La scrittura vive ora in quanto segno, espressione di un corpo e si potenzia di senso e di significato. La scrittura come traccia tangibile di un evento testimonia il respiro, il movimento, quindi l’intera fisicità dell’operatore, non solo il suo lavorio intellettuale.  Il potenziamento della scrittura passa quindi dalla sua metamorfosi e dalla successiva, sua relazione di forza con la composizione visiva: la parola scritta assume i valori espressivi del linguaggio visuale e secondo le regole della percezione visiva viene acquisita, senza perdere mai il suo attaccamento al seme. Una doppia via di acquisizione si genera nel processo di rielaborazione che nel nostro cervello avviene dopo la codifica dei dati formali, cromatici e del movimento insiti nell’atto del “vedere”. 

“Un testo scritto è a tutti gli effetti un’immagine ed è perciò possibile ipotizzare che i processi percettivi (o parte di essi) chiamati in causa durante l’analisi della figura funzionino anche nel caso della lettura. L’informazione luminosa che colpisce il fondo dell’occhio (retina) raggiunge attraverso il nervo ottico il nucleo genicolato laterale (nel talamo), che indirizza l’informazione stessa lungo tre diversi canali: uno deputato all’analisi del colore, uno della forma e uno del movimento. Dal talamo l’informazione passa alla corteccia striata V1 che si occupa di integrare i tre tipi di segnali e successivamente nella zona ventrale-occipitale, ove si ha l’estrazione di un’invariante dell’immagine/parola che prescinde dalle caratteristiche grafiche, posizione nello spazio e dimensioni.”[4] Solo successivamente l’immagine viene integrata con semantica e fenomenologia.

Nella lettura dell’opera d’arte visiva, anche trovandosi di fronte al testo scritto, quest’ultimo processo cognitivo non sposta gli equilibri interpretativi a favore della semantica e della fenomenologia. Il potere evocativo dell’opera, il suo presentarsi come unicum, la sua poiesi consentono di generare flusso unico e continuo di informazioni visive composte da forme e colori al cui interno troviamo la traccia scritta che, come si è già detto mantiene intatte tutte le sue potenzialità espressive e comunicative.

Variegato e interminabile è l’elenco di autori che lavorano sul confine tra scrittura e paesaggio ed ogni singola esperienza svela frammenti di strade percorribili. Dalla scrittura “nel” paesaggio dl monaco buddista Kao K’o-kung, pittore e poeta, vissuto in Cina tra XIII e XIV secolo che nei suoi delicatissimi e vibranti paesaggi inseriva dei versi poetici che evidentemente potevano ricondursi alla stessa radice poetica. Immagini e versi generati da una sola poiesi germinata nel culto della memoria dei luoghi e delle emozioni, frutto di un processo creativo suggestivo e interessantissimo.

Gli artisti cinesi, e più spesso i monaci come Kao K’o-kung dal XII secolo in poi misero appunto un modus operandi che definirei più che altro un modus vivendi, per creare i loro preziosi rotoli variegati di immagini della natura e versi struggenti. Prima di considerarsi poeti e artisti dovevano attraversare tre lunghe fasi di studio e applicazione: un primo periodo di apprendistato tecnico-pratico di acquisizione di alcune competenze operative e di conoscenza e padronanza degli strumenti. Questa prima fase consisteva nel copiare la tecnica degli artisti più rinomati, imitando la stesura di dettagli naturali come ad esempio nuvole, profili di montagne, pini ecc.
In un secondo momento e per un periodo abbastanza lungo, mediamente un quinquennio, intraprendevano viaggi e peregrinazioni, al solo scopo di contemplare la natura. In questa fase non dipingevano né schizzavano alcunché, l’unico fine era esercitare la memoria immagazzinando quante più informazioni visive e meditazioni sugli elementi naturali. Solo dopo questo secondo livello tornavano ai tavoli da lavoro, pescando da quel ricco bagaglio di immagini generando visioni poetiche straordinarie a cui aggiungevano, prima o dopo la stesura del paesaggio dei versi che avevano il compito di completare il processo “d’incantamento”, tra meditazione estetica e poesia.  Altresì era considerato puerile confrontare il dipinto con immagini reali o tentare di trovarvi somiglianze con questo o quel paesaggio esistente. Il rotolo di seta era considerato alla stessa stregua di un libro di poesie che per essere goduto appieno abbisogna di un ambiente ed una condizione di serenità che favorisca la meditazione, l’incanto, appunto. [5]

Il tema qui è già chiaro e incontrovertibile: la pittura come la poesia è generata dall’esperienza e dalla meditazione. Ciò che s’intravede è il rapporto tra gli elementi e il sentire umano, tra le “cose” ed il modo in cui gli esseri umani entrano in risonanza con esse in una sorta di empatia seminale che nella memoria visiva e sensoriale trova la sua camera gestazionale.

Sentire il paesaggio è il tema, possederlo a livello sensoriale, acquisirne il senso stornandolo dal significato. Il paesaggio si mostra quindi in tutta la sua semplicità pur essendo un sistema complesso. L’artista osserva il caos generato dall’intrecciarsi infinito degli elementi e al contempo ne intuisce l’ordine, lo intravede come fosse la più straordinaria delle rivelazioni. Questa è l’origine, la poiesi da cui si genera l’opera: la rivelazione in luogo della rilevazione.

Il dinamismo intrinseco del paesaggio reale si traduce spesso in un flusso di segni che vanno organizzandosi in forme e scrittura. Fonemi, grafemi, parole, com’è ben visibile nelle opere di artisti asemic e non come Bruno Conte, Lina Stern o Enzo Patti si stagliano seguendo da un lato il transfer visivo, alludono alla forma dei soggetti del paesaggio facendo riferimento sia alla memoria analogica dell’operatore quanto a quella del fruitore; dall’altro, in molti casi, i segni grafici si annodano fino a formare un grumo discorsivo o si allineano in fraseggi che scorrono e sembrano voler verbalizzare un concetto che rimane strozzato in gola pur mantenendo tutta la sua potenza espressiva. Se esiste una comunicazione, la sua epifania viene da una visione organica dei due linguaggi, scrittura e pittura, dalla loro sinergia e complementarietà, mai dall’interpretazione univoca di uno dei due. Anche da questo assioma deriva, probabilmente l’esigenza espressa da molti operatori di definire produzioni di questo tipo, “poesia visiva”. Si vuole così sottolineare la supremazia della poiesi, seme da cui germoglia la parola e l’immagine.

 

 

 

[1] Rudolf Arnheim – Guernica, genesi di un dipinto – Appunti sulla Creatività – traduzione G. Dorfles – 66 – Carte d’Artisti – A abscondita – Milano 2005

[2] “Kénosis, lo svuotamento della scrittura” – Asemic Writing Contributi teorici a cura di F. Aprile e C. Caggiula – Archimuseo Adriano Accattino – Ivrea TO – 2018

[3] “Asemic” – G. Fontana – Asemic Writing Contributi teorici a cura di F. Aprile e C. Caggiula – Archimuseo Adriano Accattino – Ivrea TO – 2018

[4] “Sinsemie. Scritture nello spazio.” Luciano Perondi. Stampa Alternativa & Graffiti. 2012, Nuovi Equilibri Viterbo. Pag. 70

[5] Si veda in merito il volume “La Storia dell’Arte” – E. h. Gombrich – Phidon Press_ 1950. pag 150, 153.