La colmata persiana. Atto d’amore in febbraio
by Egidio Marullo – Shadi Fathi – Ninfa Giannuzzi

 

di
Egidio Marullo
musica di
Shadi Fathi e Ninfa Giannuzzi

Quando gli ateniesi di Pericle nel 480 a.c. tornarono in città dopo la mitica battaglia di Salamina scoprirono che i Persiani di Serse, appena sconfitto definitivamente, avevano distrutto Atene dopo averla trovata deserta. Avevano oltraggiato i templi dell’Acropoli e distrutto fregi e statue, lasciando nient’altro che un cumulo di macerie. Prima della ricostruzione dell’Acropoli, Pericle fece scavare una grande fossa che fu riempita di tutti i frammenti di quei capolavori ormai perduti, simbolo dell’antico, arcaico splendore. Quella fossa, chiamata la Colmata Persiana, ha custodito per secoli la memoria di un popolo. Su quella bellezza fragile, perduta fiorirono per secoli erbe spontanee di ogni specie. Ogni anno in febbraio, nel cuore dell’inverno sono germinate piante coraggiose, tenaci e aspre, dalla selvaggia perfezione. Ecco che il duro marmo statuario diviene fragile e perituro, mentre il gracile filo d’erba si rigenera ostinatamente da millenni. “La Colmata Persiana” è un piccolo sogno che annoda le piante spontanee del mediterraneo, il canto oracolare della cantante grika Ninfa Giannuzzi al suono ancestrale del Setar, Antico strumento della tradizione persiana suonato magistralmente dalla polistrumentista iraniana Shadi Fathi. Shadi e Ninfa hanno improvvisato una sorta di simposio sonoro improvvisando sul montaggio filmico e la pittura cinematica di Egidio Marullo, tracciando così un possibile contrappunto al rigoglioso splendore della vegetazione spontanea del mediterraneo nel mese di febbraio.

 

 

La colmata persiana: atto d’amore in febbraio
by Egidio Marullo

Eccomi adulto e libero, lontano da casa. Sottratto al paese delle parole di strada morte accanto alle caviglie. Una foglia, un distico di felce: tra la luce l’acqua. Ecco una cerimonia funebre dell’ottantacinque, una nostalgia da espiare come una colpa. Non siamo usciti dalla provincia e già mi ripeto. Eccomi arrancare; imprecare, sputare a terra. Residuale e sgraziato il passo. Residuale e disarmonico il gesto di sfiorare i cardi che arrossano appena. Residuale e morente la speranza di sopravvivere. Sopravvivere è cosa divina, qui si muore, per fortuna. Residuale il profilo del gelsomino, le ore liete hanno contorni sfumati mentre una crociata di pensieri moreschi si avvicina a quel che rimane del tempio; si prepara all’assedio. Eccomi, vile, sfiorire al cospetto dei sacri resti. Ciò che fu si dissolve. Ecco il punto preciso dove perdere il senno e lei posizione. Ecco, in questo luogo lo Ierofante di Eleusi conduce a voce piena i novizi nei primi misteri. Qui la fossa, come le labbra del cratere, accoglie libagioni e Grazie perdute, un distico di felce e portulaca per guarnire l’aurora. Lapazio e ranuncolo tra le dita di Ebe mentre Febo piange prima e piange dopo il ratto; il frutto rubato dalle dolci chiome crinite di Lauro è più amaro della bile che ella gli versò addosso quando ancora respirava, parlava e cantava lasciando uscire il fiato dalle sue labbra di carne. Questo è il posto di cui ti parlo, lontano dalle sere lunghe di giugno. Questo è il posto di cui ti parlo, rivolto al mattino per morire prima e destarsi al canto dell’allodola, prima che la meraviglia lo ridesti dal sogno.

Print Friendly, PDF & Email