In ricordo di un amico: Stelio Maria Martini
by Giorgio Moio
Ancora un amico se ne è andato in un mondo migliore, spero. Dopo Ciro Vitiello, scomparso il 28 dicembre 2015, il 1 marzo è passato a miglior vita anche Stelio Maria Martini. Con entrambi ho attraversato un pezzo della mia vita, negli anni ’90 del secolo scorso, costruito non soltanto sui rapporti di collaborazione artistica. Conobbi Martini (come lo chiamavano tutti gli amici, ma io mi azzardavo a chiamarlo semplicemente Stelio, anche se si chiamava Crescenzo) a casa di un altro amico, Antonio Spagnuolo (per sua e nostra fortuna ancora vivo!). Fummo radunati proprio da Vitiello, assieme ad altri (Franco Capasso, G. Battista Nazzaro, Wanda Marasco, per fare qualche nome), per tentare di costituire una nuova rivista, edita da Alfredo Guida, quella che poi sarebbe stata denominata «Oltranza» e che lo stesso Vitiello ne fu il direttore. Se riuscii a convincere i presenti sulla denominazione da dare alla rivista (la proposta del nome fu mia), fu grazie all’appoggio di Martini che avvalorò il mio pensiero: Oltranza, ossia “oltre il già dato” e lontano dal presente sempre più vacuo, anche se poi la rivista (di cui uscirono solo tre numeri) divenne qualunquista e per nulla corrispondente alla sua denominazione, eccezion fatta per gli scritti di Martini, di Capasso e direi, con molta umiltà, dei miei.
Martini era nato per caso ad Ancona nel 1934, da padre napoletano, e visse quasi tutta la sua vita a Napoli. Di grande intelletto, trascorse la sua ultima parte di vita in solitudine ma non solitario, in quanto continuava a tenere contatti con i suoi sodali e il mondo intellettuale non solo napoletano. Poeta lineare ma soprattutto visuale (partecipò alle più importanti mostre del settore), fu il primo in Italia a pubblicare un volume di poesie visuali, Schemi (Edizioni Documento – Sud, 1962), due anni dopo che il Gruppo 70 di Miccini e Pignotti, in Italia producono le prime poesie visuali. Ma fu anche un fine ed acuto critico letterario e d’arte, organizzatore di riviste e di eventi, rassegne.
Qui però non mi addentro nella sua poetica, molti si sono cimentati e meglio di me. Qui vorrei ricordare soprattutto l’amico, al quale devo l’approfondimento della poesia visuale e di come comportarsi nel pericoloso ed invidioso mondo della cultura italiana, dicendo no quando occorre e non salire su tutti i carri solo perché ti danno un po’ di notorietà: la letteratura è una scelta di vita che va vissuta senza compromessi, a parte quello con la letteratura stessa: insomma, guardare sempre avanti e stare attento agli ostacoli. E lo ricorderò con la riproposta di una recensione che scrissi a proposito del suo Via nel tempo e a margine, con una sua lettera da me corrisposta, dalla quale esce fuori un Martini prodigo di buoni consigli e ferratissimo sull’andamento negativo della cultura italiana, anche se emerge la sua scelta di vivere in solitudine, come pare che da più parti riconosciuta, anche tra i suoi amici. Per il resto spero che stia meglio di quanto stesse in questo letamaio d’indifferenza.
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STELIO MARIA MARTINI, Via nel tempo, Il Laboratorio/Le Edizioni, Nola (Na), 1997
Una essenziale qualità della scrittura poetica è quella che si raccomanda ad un modificarsi continuo, alla peculiare attitudine d’instabilità scagliata contro l’insipida sacralità individuale e i conseguenti effetti consolatori, ipnotici, assolutistici; almeno per me, aggiungendo che la novità poetica sta nell’organizzare un’invenzione, una rielaborazione dei fatti e delle immagini di un presente inosservato, nel dare corpo alle intenzioni della scrittura. Oggi la letteratura non può che riformulare nuove valenze, uscire dalla storia per rientrarvi in senso negativo, dove il ritmo delle combinazioni, nel suo contenuto gioioso e drammatico, si apra alle frequenze discontinue, alle inquietudini, mutando la funzione del gesto, allargandosi nei fatti come altro, come conoscenza, come confronto critico fin negli interstizi del mondo. In questa direzione si è sempre spostato anche il fare poetico del napoletano Stelio Maria Martini (1934), uno degli artefici dell’avanguardia a Napoli, di un succedersi di riviste (da «Documento-Sud» [1958] a «E/mana/azione» [1981]) e pubblicazioni varie di grande spessore culturale, dimostrando di possedere indiscusse qualità e una vena ipertrofica alimentata da eventi e anticipazioni straordinarie, a cominciare dalla sua prima pubblicazione, Schemi 1, pietra miliare della scrittura visuale in Italia.
Di tracciati ipertrofici e molteplici si alimenta anche il suo ultimo lavoro, Via nel tempo, un’invitante e gradevole raccolta di testi lineari e visivi, pratiche di cui Martini, sin dall’esordio, si è servito a pari titolo. Surrogata da una sobria veste grafica, da un disegno di Franco Cavallo, una poesia di Mariella Bettarini e un anagramma di Marisa Papa Ruggiero, questo volumetto, leggibile tutto d’un fiato, rappresenta un exempla del suo lavoro: otto poemi-collage, quattro calligrammi (da Henri Chopin, Apollinaire e Jean-François Bory), una traduzione (da Wilde) e sette testi lineari, «recuperati da pubblicazioni diverse, dove in diverse occasioni comparvero (tranne gli ultimi sette, del tutto inediti)» 2.
Via nel tempo sembra impostato sul riordino dei ricordi, della memoria
(è nei tuoi occhi Ilaria
il prezioso animale dello sguardo
il ricciolo sfuggito di una nota
è la grazia signora, PASSO D’ATTESA, madrigale, 28, 1-4,)
che s’intrecciano con un’inquietudine intesa come gioia, come passione arguta
(come per certo senso
l’inquietudine senti come gioia
passione arguta in accettare cose
come plettri a strumento
in discreto tenersi nell’angustia
che il sentire medesimo compone, IBID., s. t., 27, 1-6,),
sulla narrazione diacronica di un sogno sognante, atarassico nei confronti di un esistente sempre più insignificante:
è un bruciare la mente
nell’incendio
consumare la vita è tale sogno
(ivi, 7-9,).
Ma è innanzitutto un lavoro dissacratorio che, affidandosi all’arguzia e alla malizia di rime “esplosive” e ditirambiche
(sottile quell’invito
pensiero della sera
l’ago che t’ha ferito
nell’invitarti a danza
in sua vana sembianza, IBID., Rondò, 30, 5-8,),
di combinazioni verbali e antiliriche, di giochi linguistici e immagini rapinate ai media, «fondate sulla logica ordinaria propria al discorso corrente, frasi fatte o luoghi comuni del discorso medesimo» 3, riafferma, ancora una volta, la stupidità del luogo comune. Le parole in Martini, grottesche e irriverenti, nascono, come egli stesso asserisce, «dall’elemento visivo, esempi tipici di commistione di linguaggi» 4, e da un gioco intellettualistico che fanno di un testo poetico un testo mobile, trasgressivo, ordinatamente “disordinato”:
è nell’infanzia un gioco
la fine d’una idea
meravigliosa a un tratto
come mutata in sasso
nella piccola mano
(IBID., Canzonetta, 32, 1-5,).
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s.d.[ma 27.6.98]
Caro Giorgio,
ricevo la tua bella, sentita recensione al mio “Via nel tempo”, libretto che consideravo, e considero, un raccogliticcio, ma i miei testi hanno avuto, evidentemente, il potere di commuoverti. Te ne ringrazio vivamente! Deploro che ci si sia come un po’ perduti di vista in questi ultimi anni. Di tuo ricevetti tempo fa un volumetto, assieme a qualche altri di una nuova collana editoriale, dal quale compresi che eri attivo e ne provai gran soddisfazione. Ora qui, cogliendo anche l’occasione per ringraziartene (ancora!) voglio dirti quanto esso mi rassicurò sul tuo conto. Sto parlando di Sabbie mobili (Riccardi, 1996), che, come dico, mi rassicurò sia sul tuo stato di attività, sia sulla qualità della tua scrittura, sempre così insofferente della tipografia (editoria), come dell’idiozia corrente e circolante, ahimè, sovrana. La curiosità intellettuale e sentimentale rivelata dalla tua lingua franta e interrotta, che non può neppure (né vuole) adeguarsi all’ordinaria pagina tipografica (per non parlare poi di quella scrittura per capoversi e margini zoppi rispetto al normale) mi assicurarono subito che eri ben vivo, e combatti e insegui il tuo sogno. Tieni duro, non mollare, anzi vai oltre più dove puoi, e non farmi mancare tue novità. Grazie ancora, e con l’augurio e il saluto amico di S. M. M.
Quarto, 1.10.98
Caro Stelio,
solo adesso trovo il tempo per rispondere alla tua bella e gradita lettera (ovvero, solo adesso un mio vecchio malanno mi ha concesso un po’ di tregua, dopo avermi costretto, praticamente, a passare quasi tutta l’estate in un pietoso letto d’ospedale), dove noto con soddisfazione che è di tuo gradimento la mia modesta recensione al tuo «Via nel tempo». Grazie per il fatto di condividere il mio modo di scrivere, d’incoraggiarmi a proseguire per questa strada. Onestamente, non ne vedo altre all’infuori di quella che dichiara apertamente guerra al classicismo, alle etichette, ai dolcificanti, alle fasulle certezze, in quanto, parafrasando il grande Villa, non c’è che un “illimite Niente” che ci attende ad ogni angolo; ci sarebbe solo d’aggiungere che ogni qualvolta la penna si appropria del foglio, la parola muore, si nullifica, per poi riapparire poco dopo o molto dopo, in punti diversi ed in modi diversi, irriverente, libera, antilirica. Ma queste sono cose che tu già sai, ti sono familiari. Volevo telefonarti ma ho tante cose da dirti che è meglio dirtele attraverso l’inchiostro della penna, una penna che non si è mai stancata di scrivere, neanche durante il periodo più brutto della mia vita, appena cessarono le pubblicazioni di «Oltranza», quando m’ammalai gravemente, costretto a ricorrere a cure periodiche e, per l’appunto, a qualche ricovero.
Ti è sembrato che non operassi più perché non mi leggevi tra il gruppo di “amici” oltranzisti? Oltranzisti forse è un termine improprio; anzi, sicuramente improprio, come “amici”, d’altronde. O meglio, nella tana di quelle iene? pronte ad azzannarti alle spalle alla prima occasione? È una polemica che non voglio alimentare, soprattutto non voglio assillarti con questa mia esternazione, ma la rivista «Novilunio» 1993-94 (si veda La vitalità della poesia italiana a Napoli, a cura di Vitiello), il Dibattito col poeta. Poesia a Napoli di Nazzaro, il tentativo d’indagine superficiale di Carandente in «Il Cobold» n. 25 e tante altre cosucce 5, vogliono pur dire qualcosa! e valgono…, ma, lasciamo stare.
Intanto io vado avanti per la mia strada, tranquillo tranquillo, senza le “sanguisughe” che ti mordono i polpacci, portando avanti alcuni progetti che ho in cantiere. Uno di questi è una serie di pubblicazioni edite dalle Edizioni Riccardi, nella nuova collana “Risvolti”, in formato A4, simili ad una rivista, nel senso che sono formate da sezioni, sperando di dirigerla nel migliore dei modi, avvalendomi del contributo redazionale, sia fisico-economico che intellettuale di Pasquale Della Ragione e di Marisa Papa Ruggiero, nonché della collaborazione esterna di Luciano Caruso, Pier Luigi Ferro, (la tua, spero), Gian Paolo Roffi, Antonio Spagnuolo.
Dopo circa un anno di ripensamenti e d’interruzioni, il primo numero è previsto tra la fine di ottobre o l’inizio di novembre 6. Volevo interpellarti prima dell’estate, per chiederti un intervento (e qualche consiglio, tu sai quanto ti stimi) per la prima sezione “I grandi poeti del ’900”, dedicata al grande Emilio Villa. Ma desistetti, in quanto Marisa [Papa Ruggiero] mi confidò che non stavi tanto bene in salute e non me la sentii di “assillarti” con i miei dubbi e le mie incertezze. In mancanza di niente, mi sembrava (e mi sembra) adatta allo scopo (che tra l’altro, non prevede, categoricamente, materiali inediti [siamo convinti che d’inedito non c’è niente o non c’è dato di sapere se non il niente, appunto: veniamo sempre dopo qualcosa e tutto ci appartiene], fatta eccezione per la sezione “Poeti del Duemila”) una tua breve nota (Nota per E. Villa) che pubblicasti sul n. 10-12 di «Terra del Fuoco» dell’amico Lubrano. Avremmo voluto inserire altri contributi per Villa, ma si deve far fronte agli spazi ristretti e alla moneta, visto che è tutto autogestito da noi tre 7, e da qualche collaboratore generoso (per questo numero, Roffi e Spagnuolo). Anche l’articolo di Caruso è già edito: non avendo nulla di inedito, di pronto, ci aveva spedito “Alcuni rilievi al margine di Emilio Villa…” 8, apparso sul n. 1° di «Le braghe di Gutenberg». Come il tuo, anche quest’articolo l’abbiamo trovato adatto al nostro discorso, in quanto, oltre a rimarcare la grandezza di Villa, evidenzia la presunzione di certi esegeti autoproclamatosi depositari dell’arte di Villa 9, unici conoscitori, i quali si sono trovati di fronte ad un linguaggio ipertrofico e cosmogonico che non capiranno mai, confondendo il suo “Niente”, l’atarassia nei confronti delle etichette, dei clan, delle corporazioni, del mercato più vieto, come marginalità di un poeta di periferia. Mi piacerebbe sapere il tuo giudizio 10; intanto ti spedisco la copertina del 1° numero. In attesa di spedirti qualche copia, di conoscere il tuo parere, scusandomi della lunghezza o della lungaggine di questa lettera, con stima e affetto ti saluto. Giorgio
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1 Edizioni Documento-Sud, Napoli, 1962; Edizioni Morra, Napoli, 1989.
2 STELIO MARIA MARTINI, Nota a Via nel tempo, op. cit., p. 34.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Tutte pubblicazioni dove si è accuratamente premeditato la mia esclusione, senza una ragione culturale plausibile, proprio da quei miei “amici e sodali”, coi quali ho condiviso non poche situazioni, comportandomi sempre in modo corretto e sincero. Un’azione gratuita di rimozione, all’interno del panorama letterario napoletano dove il mio ruolo vale almeno quello di altri che si è voluto forzatamente e a tutti i costi avallare. L’unico mio rammarico è quello di non aver capito da che parte stessero. Non c’è attenuante in siffatte cattiverie, se le scelte vengono fatte non in base ad un’analisi dell’argomento trattato o ad una scelta ideologica e poetica (che non riguarda questi, in quanto la loro analisi – si fa per dire – ha toccato anche l’area della ricerca, e praticamente da sempre, escluso il periodo giovanile, la mia poesia si è sempre realizzata in quest’area), bensì in base ai propri umori e fobie, favorendo gli amici, a prescindere dal loro spessore culturale, che non è preso – in più di una circostanza – minimamente in considerazione.
6 Invece uscì a dicembre (anche se reca l’indicazione “settembre 1998”), per una serie di motivi anche tipografici, che alla fine ci costrinse anche a rivedere il formato, che divenne 15×21 cm. e a forma di quaderno. Nel frattempo uscirono, in altri contesti, alcuni contributi sull’opera di Emilio Villa, ma fummo costretti ad ometterli nella bibliografia essenziale che chiudeva l’omaggio, per non creare ulteriori ritardi tipografici.
7 Da me, da Pasquale Della Ragione e da Marisa Papa Ruggiero, quest’ultima fino al numero 10, allorquando decise di abbandonare la redazione per divergenze culturali. Dal n. 2, «Risvolti» si avvale anche del contributo di Carlo Bugli. Le Edizioni Riccardi ci mettono solo l’etichetta.
8 Questo scritto aprì una breve polemica tra Caruso e Aldo Tagliaferri (io nel mezzo a tentare di fare da paciere).
9 Il riferimento, ma le verità sono comunque amare ed indigeste per chi le ascolta, nella mia intenzione, era rivolto a Gianni Grana più che ad Aldo Tagliaferri (giacché anch’egli, come tutti noi che ci siamo avvicinati alla poesia iper-sperimentale e totale di Villa – chi più, chi meno –, coi propri limiti e le proprie ignoranze), al quale va riconosciuto, ad esempio, unitamente ai sacrifici editoriali di Nanni Cagnone (e più recentemente, con l’apporto di Lombardelli, per la pubblicazione delle Sybillae, e delle Edizioni Empirìa per Zodiaco, quest’ultimo curato con Cecilia Bello), di aver riproposto, con la Coliseum, la prima corposa antologia di testi di Villa (sia pure tra quelli più leggibili) e, appunto le Sybillae, in una dimensione e respiro un po’ meno sotterranei.
10 Dopo aver ricevuto la lettera e il materiale che riguardava il 1° n. di «Risvolti», Martini mi telefonò, confermandomi la sua disponibilità, oltre che elogiare la nostra iniziativa. Rammarico di quella telefonata, non aver potuto accontentarlo, per motivi di spazio e per i problemi suddetti, circa la pubblicazione di due lettere autografe di Villa che mi propose con una eventuale sua nota accompagnatoria che ne spiegasse la storia. Però, mi aspettavo da parte sua che mi dicesse: «Caro Giorgio, se è una questione di spazio, poi benissimo togliere la mia nota, tra l’altro già edita e inserire quello che ti spedirò». Mi avrebbe così affrancato da un compito alquanto delicato: quello di vedermi costretto a fare a meno comunque della sua Nota. Non me la sentivo di prendere da solo una iniziativa abbastanza imbarazzante. Credo che da quel giorno Martini abbia preso le distanze da «Risvolti», pur mantenendo integra la considerazione nei confronti della mia scrittura. Ma ad ognuno le proprie motivazioni e le proprie ragioni. Ci rincontrammo a casa sua (nell’estate del 2000) alla vigilia dell’omaggio a Mario Diacono di cui «Risvolti» si è occupata nel n. 5 (ottobre 2000), dove ci confidò, a me e a Carlo Bugli, che era in mia compagnia, il motivo vero del suo allontanamento da «Risvolti», sottolineando che il linguaggio che stava portando avanti «Risvolti», pur apprezzandolo, per lui si era già esaurito con la militanza nell’avanguardia napoletana targata anni ’60-’70, e data l’età che si ritrovava, non se la sentiva di ricominciare una nuova militanza, preferendo, per rimanere nell’ambito napoletano, dare i suoi scritti a riviste qualunquiste del tipo «Secondo Tempo», le quali non avendo una progettualità, né un discorso di tendenza da portare avanti, essendo una miscellanea di testi tra i più disparati e accogliendo un po’ tutto e tutti, non l’avrebbero coinvolto né sentimentalmente né sul piano del linguaggio, delle tematiche, della “lotta poetica”, dello “scontro sul campo”. Ma si notava dalle sue parole una specie di soddisfazione per la presenza a Napoli, dopo «Altri Termini» e «Terra del Fuoco», di una rivista d’avanguardia come «Risvolti», e soprattutto per quello che stavamo facendo e che avremmo continuato a fare in quest’Italia letteraria della stagnazione e della mercificazione dell’arte più vieta. In vena di confidenze, proseguendo il suo discorso, forse alla ricerca di un alibi che giustificasse la sua repentina marcia indietro, la “pacatezza” d’azioni, aggiunse: «Ora spetta a voi confrontarvi col mondo – ci incitò quasi paternamente, quasi come un’abdigazione generazionale –, fare le battaglie delle idee. Io ormai sono vecchio. Lasciatemi i miei capricci di vecchio». Io e Carlo ci guardammo negli occhi in silenzio, un po’ perplessi e un po’ delusi. Il vecchio leone non ruggisce più, pensammo. Capimmo tante cose quel giorno: una, l’impotenza dell’uomo di fronte alla potenza invincibile della scrittura. Uscimmo dalla sua casa un po’ più poveri.
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