Autobiografia come storia artistica
by Stefano Lanuzza
Libro di formazione è l’autobiografico Tous les rêves du monde (Firenze, Altralinea edizioni, novembre 2020, pp. 144, € 20,00) della livornese-fiorentina Kiki Franceschi, artista multimediale con all’attivo scritti di poesia, saggistica, drammaturgia e numerose personali pittoriche che, dette figurative per convenzione, trasvalutano statuti o categorie dell’immagine figurale staticamente simbolica e allegorica a favore d’un gesto espressivo elaborato, secondo gli stessi intenti dell’artista, dal pensiero e dal sentimento… Luoghi e Persone nel vissuto di un’artista contemporanea è il sottotitolo di quest’opera vibrante di passione giammai sopita.
Premettendo come le autobiografie, “le memorie, i diari e gli autoritratti” possano facilmente correre il rischio di essere “artistiche menzogne” o apologhi al fine di “valorizzare la nostra immagine davanti a noi stessi”, l’autrice non trascura, raccontandosi dalla giovinezza alla maturità, di osservare “un preciso contesto storico” che muta le prospettive autoreferenziali dando ampio rilievo alla rappresentazione di fatti divenuti artistica cronaca d’arte e complessivo sguardo a un passato comparato col presente.
Nella Livorno dei novecenteschi anni Sessanta (ancora memore del suo sindaco dal 1944 al 1954, lo storico comunista Furio Diaz a capo d’una giunta comunale di “tutti ex partigiani”), sono essenziali riferimenti la Casa della Cultura e il “Cisternino […,] luogo simbolo della rinascita culturale della città”. Aperti al contesto nazionale guardando all’Europa e al mondo, quelle istituzioni coinvolgono numerose personalità di letterati poeti pittori attori architetti e gruppi musicali.
È l’incontro, presso il livornese Centro artistico Il Grattacielo, con un’emozionante mostra di Osvaldo Licini che fa sentire l’appena quindicenne Kiki vocata per le arti, particolarmente per la pittura e la poesia. Così dipinge, partecipa a concorsi letterari ottenendo un primo premio dell’Unione Donne Italiane (UDI), si scrive ai corsi di lingue comparate dell’università di Pisa affinando gli interessi per l’anglistica e la letteratura americana, la filologia e la semiologia; pure associando agli studi un impegno politico che la porta a condividere le lotte sociali in corso. Presto coinvolta nella contestazione sessantottesca, è comunque indocile a certe posizioni fin troppo ideologiche che la giovane studentessa universitaria ritiene un limite alla libertà di pensiero: non condividendo, nella propria visuale allargata, il fideismo manicheo di tanti coetanei, mentre più vicini al suo cuore sono le pur minoritarie idee anarchiche insieme al romantico ribellismo progressista di artisti eretici (Artaud e il teatro del Living, pittori astratti francesi e acquarellisti cinesi, Enrico Baj o il poeta-pittore Marcello Landi…).
Ingannevole le appare il ‘miracolo economico’ che in quegli anni apparentemente stabili inaugura, con l’opportunistico ‘patto sociale’ tra gli schieramenti politici, il culto alienante d’un consumismo rimato col conformismo bigotto sostenuto in Italia dal partito democristiano. Senza essere apolitici, c’è piuttosto bisogno di più nuovi riferimenti e confronti, di guardare a possibilità diverse, cogliere i fermenti di svecchiamento, viaggiare conoscere fare. Ed eccola a Milano, alla Palazzina Liberty sede del teatro indipendente di Dario Fo e Franca Rame; o a Parigi, a respirare l’atmosfera effusa da quel ‘Maggio francese’ che ha dato l’avvio a una radicale rivolta antisistema coinvolgente con la vita sociale soprattutto la cultura e il costume, protagonisti i movimenti giovanili studenteschi, le classi operaie, intellettuali, immigrati, larghe fasce della popolazione proletaria e della stessa borghesia non omologata… Così, nel 1971, la giovane Kiki è, dopo Parigi, a Collioure, piccolo comune francese del dipartimento occitanico dei Pirenei orientali, per festeggiare un gioioso Primo Maggio ricco di promesse rivoluzionarie.
Senonché, nell’Italia degli ‘anni di piombo’ aduggiati dal terrorismo con le stragi di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), Gioia Tauro (22 luglio 1970), Peteano a Gorizia (31 maggio 1972), della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), dell’Italicus (4 agosto 1974), di Ustica (27 giugno 1980) o l’atroce attentato alla stazione di Bologna (2 agosto 1980), interrompe per un po’ l’attività creativa a favore dell’impegno politico contrastato dalla repressione poliziesca: “Smisi di dipingere, di pensare all’arte e alla poesia. […] Assistevo sgomenta a progrom antilibertari, programmati; il tema dominante nell’informazione era la necessità di un ritorno all’ordine, di una lotta agli ‘opposti estremismi’. Destra e sinistra posti sullo stesso piano. Strategia della tensione, si diceva”… In ogni caso, “Dovevo riprendere a dipingere e a scrivere” s’impone. È determinata a continuare il proprio lavoro, dopo avere presentato già nel 1972 la sua prima personale alla galleria livornese La Manticora con opere informali e astratte, animate da un colorismo espressionistico di forte impatto.
Laureatasi, lascia Livorno per trasferirsi a Firenze e insegnare in un liceo. Nella città del Giglio avvia i suoi primi incontri formativi frequentando diversi artisti e letterati che coniugano una frenetica attività inventiva con la dialettica politica, le battaglie per i diritti civili, la controinformazione militante lanciando manifesti, libelli e libri autoprodotti.
Mancava nella Firenze già novecentesco centro propulsore di cultura, dopo i fasti del Futurismo, dell’Ermetismo e dell’importante tradizione delle riviste letterarie (“La Voce”, “Il Leonardo”, “Il Marzocco”, “Lacerba”, “Hermes”, “Il Regno”, fino a “Solaria”, “Campo di Marte”, “Il Ponte”…), un probante aggiornamento: ed è quanto Kiki Franceschi propone dimidiando la propria vicenda biografica e segnalando tutta una serie di eventi periferici e presenze che senza il suo prezioso memoriale risulterebbero pressoché obliati. Dagli anni Settanta e per un periodo sono protagonisti “Cabalà”, rivista di controinformazione e provocazioni lietamente goliardiche, e un cosiddetto GAS, Gruppo di Azione Surrealista collegato alla controcultura francese, a quella inglese della rivista “Mad”, alle diffuse pubblicazioni di “Re Nudo” e ai satirici “Il Male” e “Cuore”.
“Fino alla metà degli anni ’70 la città di Firenze era un territorio culturale frizzante” racconta nel libro della Franceschi l’artista e architetto Andrea Chiarantini. “Dopo, verso la fine del decennio, arriva il buio […]. Firenze è diversa. Non è più l’affascinante, creativa città che mi ha formato. I giovani sono come vinti. Smarriti e svuotati”; e quelli che non passano allo spinello o alle droghe pesanti, rifluiscono chi nel comodo pacifismo dei ‘figli dei fiori’ americani, chi nell’extraparlamentarismo violento.
Nell’entropia dei contrasti sociali, quello vissuto adesso dall’autrice è un momento convulso che la porta a interessarsi alle attività del Ponte della Ghisolfa, circolo anarchico milanese, e del Soccorso Rosso Militante fondato da Fo e Franca Rame. Segue, a Firenze, la conoscenza con un intellettuale tra i più rilevanti nell’ambiente culturale secondonovecentesco, quell’Eugenio Miccini poeta sperimentale, semiologo, filosofo e teorico della verbovisualità cui si deve l’invenzione della ‘Poesia visiva’ che, nel segno di una critica corrosiva dei mass media, fa simbioticamente interagire parola e immagine. Ma è un intellettuale sans papier, Miccini (maestro elementare al pari di uno Sciascia), che resta escluso dall’ambiente filosofico fiorentino ufficiale operante fra l’Ateneo e l’Istituto Gramsci di Piazza Madonna degli Aldobrandini: comprendente i Garin, Luporini, Paolo Rossi, Giulio Preti, Ettore Casari, Francesco Adorno, Sergio Moravia, Michele Ciliberto, Andrea Vasa o Ferruccio Masini, anche poeta e pittore, che il più giovane filosofo Ubaldo Fadini, citato dalla Franceschi, definisce “uno studioso straordinario, fiorentino ma di difficile collocazione in città”.
Nata a Firenze nel 1963 poco dopo la Neoavanguardia del Gruppo 63, comprendendo diversi poeti sperimentali (Lamberto Pignotti, Lucia Marcucci, Luciano Ori, Giuseppe Chiari, Luciano Caruso, Paolo Albani), la poesia verbovisiva raggiunge una “dimensione internazionale tra il 1972 e il 1974”. Lo spirito innovatore dell’autrice ne è coinvolto, ma non conquistato: in quegli anni, preludenti alle rivolte del ’77, per un dovere di sincerità lei non condivide un uso troppo esclusivo e ideologizzante dell’immagine “estratta dalla stampa dei quotidiani o periodici, né la parola poetica, ridotta a semplice slogan”. È di preferenza nel Lettrismo, movimento pluriculturale francese di metà Novecento rivisitato da Miccini, e che all’uso privilegiato del testo sostituisce il ricorso a una musicalità onomatopeica, che la Franceschi trova le conferme per la sua pittura scandita in funzione poetica. Per sé, lei pensa a un’arte immaginativa più ‘intima’ e rara, intensa e integrante “il racconto con la lirica, la denuncia con l’astrazione, il segno con il suono”: è del tessuto profondo del mondo che l’autrice vorrebbe poter dire.
Un’evoluzione del Lettrismo e una fase estrema ma feconda delle Avanguardie appare alla Franceschi l’Inismo (da INI, Internazionale Novatrice Infinitesimale), movimento fondato a Parigi nel 1980 da Gabriele Aldo Bertozzi, promotore d’“una scrittura lontana dal parlato, misteriosa, inedita, talvolta asemica” e certo svincolata dalla risaputa editoria industriale.
Ora che dell’editoria storica fiorentina – dei Sansoni, La Nuova Italia, D’Anna e la Vallecchi anticipatrice della grande editoria industriale italiana – non rimane molto, il pensiero corre ancora al Miccini fondatore dell’‘alternativa’ casa editrice Téchne con l’omonima rivista di conio nazionale e internazionale, poi stampata dal piccolo editore Campanotto di Pasian di Prato in provincia di Udine. Con essa Miccini pubblica, oltre a scritti di giovani autori, le autoedizioni Critica, estetica e semiotica e “il bellissimo Poesia è violenza, un vero manuale di poetica rivoluzionaria”; promuovendo un’inedita ‘scuola’ che se non s’impone a Firenze, dall’autrice giudicata “tradizionalmente città nemica del nuovo”, lascia una traccia divenuta indelebile memoria.
Un debito omaggio tributato a Miccini può allora apparire, nel 1978, l’invenzione di Kiki Franceschi e di Chiarantini di un’Operazione Lavoisier per stampare “libri manufatti”: ben “49 libri di artisti che facevamo interamente a mano riciclando le ‘scorie’, cioè quello che l’artista ci dava come avanzi del suo lavoro”… Hanno magari un qualche tacito retaggio nell’esoeditoria micciniana anche le riviste fiorentine “Quasi” di Zagarrio e Beppe Favati, “Collettivo r”, “Salvo imprevisti”, “Erba d’Arno”. Cui segue “Pianura” di Ivrea, fondata nel 1975 da Sebastiano Vassalli e Adriano Accattino; e, a Milano, il Gruppo 93 composto da Mariano Baino, Lello Voce, Rossana Campo, Filippo Bettini, Marcello Fraxione, Biagio Cepollaro, Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri, aderenti, da volontaristici margini d’influenza, a una “letteratura della lateralità” praticata da riviste quali “Linea d’ombra” diretta da Goffredo Fofi o “Baldus” fondata da Baino. Fino all’accademica-militante “il Portolano”, fondatori, nel 1995, l’architetto e letterato Francesco Gurrieri e il giornalista Piergiovanni Permoli.
Accade che “verso la fine degli anni ’70 i giochi [sembrino] fatti”: cesserebbero la ricerca, gli spregiudicati progetti sperimentali, l’anticonformismo innovatore; e, relativamente all’arte, con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, s’assiste al “ritorno della pittura anteguerra”, a un figurativo più o meno standardizzato, a onor del vero ambiguo e non proprio rigoroso, che punterebbe a imporsi nel mercato in concorrenza con l’arte informale, astratta e asemantica imposta soprattutto da potenti galleristi statunitensi che hanno fissato a New York la capitale artistica del mondo. Mentre s’assiste all’epifenomeno di collezionisti pretesi ‘internazionali’, gerenti d’un mercato equivoco e alla moda spacciando un’‘arte democratica’ che invece è solo consolatoria, pubblicitaria e narcotica ‘istituzione totale’.
Mentre a Firenze vanno costituendosi alcuni “salotti d’arte”: il salotto della pittrice Dona Mei, la Barbagianna di Alessandra Borsetti Venier, il femminista Giardino dei ciliegi, le Murate, la cafétéria Il Conventino e l’oggi estinto Caffè letterario Giubbe Rosse dopo incontri condotti per due decenni da Massimo Mori, poeta verbovisuale e performer. Edisodiche opportunità di resistenza all’incombente omologazione appaiono le attività del gruppo dell’Incongrua attesa dedito a “una poesia sperimentale neo-Dada”, dei poeti d’avanguardia di Il Colpo di Glottide gemellati coi milanesi Spatola e Giulia Niccolai. Possiede questi poeti elettivamente à l’écart “il mito dell’Arte Totale” opposta al passatismo bollato dai futuristi.
Nel frattempo, col Postmoderno si va proponendo “la riesumazione di esperienze artistiche passate”, valori pseudoclassici che, dopo l’Astrattismo antifigurativo dapprima promosso dalla galleria fiorentina Michaud, rigetterebbero ogni nuova pratica sperimentale o possibilità di ‘lettura aperta’ dell’opera d’arte. “Se prima l’artista contribuiva con la sua opera a mutare il gusto corrente, ora è il gusto corrente a dominare” rileva la Franceschi. Laddove il gusto risulterebbe una sorta di “imposizione, un tacito convincimento sociale” cui “il prodotto artistico si adegua. […] Si afferma ogni giorno di più un capitalismo feroce, ignorante, che ha bisogno di un’ignoranza generale per confermarsi nel ruolo di potere”.
Senza indulgere a considerare quanto d’una dinamica innegabilmente sperimentale possa risultare da nuovi esiti figurativi (si pensi alle pioneristiche sperimentazioni di Picasso sulla figura umana, o al drammatico esistenzialismo di un Bacon), l’autrice vuole denunciare la perdita di ruolo dell’artista odierno affidatosi fin troppo all’“intuito del critico” che inopinatamente lo promuove: oltretutto un artista alquanto prono all’egemonia di mercanti e imbonitori a nient’altro dediti se non al commercio a prezzi gonfiati delle opere. Intanto, negli spazi pubblici si diffondono e dominano le ‘Installazioni d’arte’, con musei moderni che compulsivamente “vanno dietro alla moda” al pari di tanti critici e artisti “alla disperata ricerca di notorietà”: di un successo mondano che – deplorava Pasolini durante un’intervista con Enzo Biagi nel programma televisivo “Terza B” del 27 luglio 1971 non andato in onda – “non è niente. […] E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo”.
Come un’oasi, un luogo magico posto in via Vincigliata alla periferia di Firenze salendo verso Settignano, la Villa i Tatti – già residenza dello storico dell’arte Bernard Berenson, che l’ha dotata d’una nutrita pinacoteca – è proprietà dell’Università di Harvard che col suo Center for Italian Renaissance Studies situato nella Villa gestisce una biblioteca specializzata. Meta di studiosi del Rinascimento, l’antica struttura situata in un grande giardino novecentesco d’ispirazione rinascimentale (tra i suoi frequentatori, Vita Sackville West, Gertrude Stein, D’Annunzio e la Duse, Marc Twain, il filosofo Bertrand Russell, la storica dell’arte Vernon Lee) diventa un grato posto, una “Bloomsbury fiorentina”, anche per la Franceschi e Chiarantini che nel 1980 e fino al 2004 affittano uno studio in quei pressi, nel Borghetto non distante dal fiumicello Mensola… Furono “anni meravigliosi: si lavorava”; e Kiki ha modo di approfondire i propri studi di anglistica e scrivere intorno a Mary Shelley, l’autrice del famoso Frankenstein (1818), dopo averne trovato i diari nella biblioteca di Berenson. Nello stesso tempo dipinge con rinnovata energia (“Facevo un’arte visionaria”) su grandi tele che espone nel 2000 presso la galleria Il Ponte, tuttora operativa al pari delle gallerie Frittelli, Bagnai o Poggiali Forconi.
“L’arte, ovvero la libertà […,] la capacità di aggiungere qualcosa di nuovo all’universo” perorava l’autrice in un suo fervido ‘manifesto’ del 1978. L’arte come azione di accrescimento della realtà, di avventura e rischio, utopia visionaria, libertaria e liberatoria, “creazione, invenzione, genio anarchico”, scevra dal controllo dei poteri economico-politici e dalla stessa Storia consegnata a piani di dominio che hanno il nome delle tante guerre mai cessate nel mondo; con l’esiziale 11 settembre 2001 emblematizzato da due aerei irrompenti nelle Torri gemelle di New York. Allora “ebbi la certezza che fosse in atto un’Apocalisse che avrebbe distrutto ogni civiltà, forse la nostra specie, il futuro era una strada sbarrata […]. Si era in guerra, ancora una volta, guerra” come quella della cieca sopraffazione scatenata dal 24 febbraio 2022, dopo Uganda Bosnia Cecenia, in Ucrainma seguita alla iattura, dai primi mesi del 2020, di un coronavirus che ci fa tutti “possibili untori”. Esistenziale infelicità che ne deriva… Sì, però siamo felici “anche della nostra infelità perché l’accettiamo. Perché ci aiuta a creare qualcosa”.
Come sospesi tra l’autocratico nazionalismo russo e il liberalismo americano, incompatibili ed entrambi metamorfosanti in un funesto imperialismo guerrafondaio, citano la Prima guerra mondiale alcuni recenti quadri di Kiki Franceschi: dove, “per tentare di descrivere l’orrore, la rabbia, lo spavento, il senso di incapacità ad agire e reagire”, alfine s’adombrerebbero predittivamente “le guerre che sarebbero [che sono, ndr] accadute poi”, foriere d’una comunità mondiale sempre più disorganica, squilibrata e nemica di sé stessa. Perciò cosa fare se non capire che, malgrado tutto, “è questo il tempo propizio per desiderare un mondo nuovo”?