Omaggio ad Adriano Spatola: Figurarsi la poesia…
by Pasquale Fameli
I maggiori contributi di Adriano Spatola alla ricerca verbovisiva etichettati come Zeroglifici e realizzati a partire dal 1965 sintetizzano più che ogni altra forma di poesia visuale idee e prospettive di tanta filosofia coeva. Con la distanza storica che ci consente di compiere simili connessioni, la poetica dello zeroglifico può essere vista come il potenziale crocevia di una molteplicità di idee e relazioni tra estetica e psicanalisi variamente riferibili a pensatori come Gilles Deleuze, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard, offrendoci anche una più efficace chiave di comprensione e di inquadramento di quella poetica all’interno del sistema culturale dell’epoca. Non si può certo sostenere che le sintonie e le corrispondenze tra la poetica di Spatola e le riflessioni di quegli autori siano dovute a filiazioni o a influenze dirette, anche per via del fatto che quei filosofi francesi sono arrivati un attimo dopo la proposta dell’emiliano. Vige in questo caso quell’idea, ormai ampiamente condivisa, che artisti e poeti siano in grado di cogliere con rapidità molto maggiore i sentori del loro tempo rispetto a filosofi o scienziati, e questo perché procedono per intuizione anziché per analisi. A ciò bisogna però aggiungere un più concreto dato alquanto significativo, cioè che tutti questi autori (compreso Spatola) si muovono a partire da espliciti confronti con il pensiero di Sigmund Freud, per cui è facile comprendere come e perché giungano a risultati analoghi. Il fatto che questo confronto si sviluppi poi su due piani distinti, quello della poetica e quello dell’estetica, è poco limitante o problematico: contano infatti, ai fini della nostra analisi, tutte le possibilità di correlazione tra le due sfere in grado di metterne in luce le concordanze.
Il primo Zeroglifico è un’opera di portata ambientale, una sorta di installazione interattiva, realizzata insieme a Carlo Cremaschi e a Claudio Parmiggiani, con un agglomerato di blocchi cubici riportanti frammenti di lettere dell’alfabeto da smontare e rimontare liberamente. In questa occasione il fruitore è invitato esplicitamente a «inventare» (e «non a seguire») le regole di un gioco che, nella proposta di Spatola, deve innescare un processo di liberazione psichica. I riferimenti alle teorie di Sigmund Freud e di Herbert Marcuse sono palesi: il gioco assunto come atto di liberazione psichica dalle repressive costrizioni della civiltà, tra cui figurano anche le norme e le convenzioni del linguaggio. Proprio Freud (1905) ha sostenuto la possibilità di liberazione libidica attraverso i giochi di parole e, tra i meccanismi da lui descritti, vi è anche la fusione per sincrasi, la stessa alla base del termine “zeroglifico”. Sono riferibili invece alle teorie di Johan Huizinga (1938) la comprensione della funzione sociale del gioco e la relazione che il poeta emiliano stabilisce tra la dimensione ludica e quella rituale, descrivendo il suo Zeroglifico come «gioco che invade, con la sua sola presenza, la sfera del sacro, nella quale sacro è cerimonia, e la cerimonia è serie rituale di gesti» (Spatola 1965). Alla base di questo processo liberatorio-energetico deve porsi una sorta di “riduzione fenomenologica” che permetta di «immaginare una tabula rasa, un’assenza totale di modelli», di cose assolutamente «prive di attributi» e «rese magiche dall’azione di chi interviene». Il gioco in questione deve essere, ci dice Spatola, come quello del “paese di Sangoi” formulato da Hans Zulliger (1960), la città immaginaria del pensiero infantile in cui vigono la magia, l’animismo e il totemismo. Per raggiungere questo paese fantastico, sottolinea il poeta, bisogna però essere in gruppo e accettare, una volta raggiuntolo, che esso assuma, per ciascun componente del gruppo, un aspetto diverso. Proprio «questa varietà nell’unità» diventa «la forza motrice di un recupero» su basi psicologiche «dell’esperienza sensibile dell’arte come creazione di oggetti carichi di energia vitale». Ciò che ci colpisce particolarmente è come Spatola, rielaborando le teorie di Alexander Dorner (1964), autore che a sua volta non manca di un confronto con Freud (pp. 142-144), affermi che questa energia stia «nella ripetizione», perché «la ripetizione assicura la continuità» nell’esperienza sensibile del tempo e dello spazio, un’affermazione che sembra anticipare di qualche anno Gilles Deleuze, che individua il fine più alto dell’arte proprio nel «porre in atto simultaneamente tutte le ripetizioni» agendo «per conto di una potenza interiore», convertendo così la copia in un simulacro (Deleuze 1997, p. 375). Tanto nel pensiero del filosofo francese quanto nella poetica del nostro autore vi si rintraccia la volontà di annullare il rinvio dell’arte a una realtà-modello e di riconoscerla come realtà autonoma e autosufficiente, per il tramite di ciò che entrambi chiamano “ripetizione”, un meccanismo che è presente in Spatola, sotto forma di figura retorica, almeno a partire dal 1961, come si può rilevare da vari versi contenuti in Le pietre e gli dei (Moio, 1999, p. 3).
Nel 1966 l’operazione zeroglifica si concretizza nella prassi poetica trovando corpo unitario in una prima pubblicazione di piccole schede verbovisive presso l’editore bolognese Sampietro nella collana Il dissenso. L’operazione si colloca nell’ambito della poesia concreta, che secondo Spatola ha l’obiettivo di una «ristrutturazione sistematica dei metodi di creazione poetica» mediante la ricerca di «nuove forme di disponibilità eteronoma del fare poetico» e con «aperture semantiche a largo raggio»: tali aperture sono finalizzate «all’analisi delle possibilità “attive” della parola», considerata come «il centro vitale di forze in continua trasformazione» (Spatola, 1966). L’affermazione ci appare già proiettata verso una concezione “totale” di poesia, ma la sua idea della parola in quanto «centro vitale di forze in continua trasformazione» è chiaramente ancora legata alla problematica del recupero su basi psicologiche di quell’energia vitale che passa attraverso il gioco-rito-arte, presupposto sia della sua Poesia da montare, già pubblicata da Sampietro nel 1965, sia dei Puzzle-Poems, realizzati nello stesso anno con Claudio Parmiggiani.
Lo Zeroglifico si rivela allora un esercizio ludico di decostruzione dei codici linguistici e quindi di liberazione psichica a uno stadio ancora più avanzato rispetto a quelle opere del 1965 in cui la parola rimaneva tuttavia riconoscibile, interpretabile, anche se isolata o decontestualizzata. La scrittura zeroglifica marcia quasi al passo della scrittura onirica freudiana, una scrittura “geroglifica”, come la definisce appunto Freud, fatta di elementi pittografici, ideogrammatici e fonetici che restano però scarsamente o per nulla interpretabili (Freud, 1989, p. 257). Nella rilettura che ne fa Jacques Derrida nel 1966 – una data talmente prossima a quella dello Zeroglifico da indurci a porla a suo stretto confronto – viene messo in luce quanto la scrittura psichica non si lasci leggere attraverso nessun codice pur operando mediante un gran numero di già elementi codificati nel corso di una storia individuale o collettiva. Chi sogna, inventa una propria grammatica ma, pur non rinunciando a utilizzare elementi codificati preesistenti, non se ne accontenta, e li piega alle proprie necessità idiomatiche (Derrida, 1990, p. 270). Il limite di Freud secondo il filosofo francese sta nell’eccessiva preoccupazione per i presunti contenuti della scrittura psichica: se non esiste in essa un codice condivisibile, non vi può infatti essere traduzione né effettiva interpretazione. Essa deve funzionare allora soltanto come un sistema che, pur rinunciando alla significazione, libera un’energia attraverso cui produce il suo stesso senso (Derrida, 1990, p. 275). Non appare troppo diversa la pratica della scrittura zeroglifica, in cui si assume un codice preesistente, quello alfabetico, se ne frammentano le singole istanze (i grafemi) e si ricombinano secondo una grammatica autonoma, del tutto arbitraria, in cui il fallimento della significazione garantisce la liberazione di sopite energie. È lo stesso Spatola a darcene conferma quando, in merito alle tavole visuali di Franz Mon, agli Iconogrammi di Luigi Ferro, a certi poemi di Emilio Villa nonché agli Zeroglifici stessi, scrive che, «a differenza dei poemi concreti del Gruppo Noigandres o di Gomringer, che comunicano la propria struttura, questi testi (collages o décollages) stabiliscono con il lettore un rapporto di tipo emozionale»: essi, infatti, «sono percepibili istantaneamente ma non razionalmente» e «l’imprevedibilità del messaggio» è proprio il loro tratto saliente. Allontanandosi dalle convenzioni del linguaggio comune «il poema-collage concreto inventa un codice di lettura personalizzato» e, soprattutto, «tende a ridare valore all’impulso soggettivo» senza tuttavia negare o rifiutare l’idea di una lingua universale, anzi: «esso collabora alla sua realizzazione proprio perché rivaluta l’immaginazione pura, sganciata da ogni riferimento del tessuto culturale e linguistico immediato» (Spatola, 1978, pp. 98-99). Più in generale l’operazione poetica di Spatola appare in sintonia con la prospettiva filosofica di Derrida per via del comune intento di proscrivere il logocentrismo che ha dominato l’occidente per secoli. Non sarà forse un caso se il “modello” di Un coup de dès di Stephan Mallarmé viene spesso richiamato da Jacques Derrida costituendo, in qualche modo, lo sfondo costante della sua pratica filosofica (cfr. l’introduzione di Gianni Vattimo a Derrida, 1990, p. X). Ma la destrutturazione testuale di Spatola opera con un’accelerazione maggiore, a un livello molto più estremo del coup mallarmeano, distruggendo, negando ogni convenzione sintattica, lessicale, ma soprattutto grafemica.
Il termine “zeroglifico” nasce ovviamente dal termine “geroglifico” mediante la sostituzione dell’iniziale, scelta che non si limita a funzionare come semplice mot-valise, ma allude all’azzeramento dello statuto simbolico della scrittura: i suoi elementi, frantumati e ricomposti, intendono offrirsi come “icone” – non a caso l’autore emiliano conierà anche il termine di Iconoscrittura per indicare altre composizioni di frammenti grafemici assimilabili agli Zeroglifici ma dotati di varietà cromatiche. Chiamando in causa Roland Barthes, potremmo affermare che in questo modo Spatola vada addirittura oltre «il grado zero della scrittura» annullando significati e significanti, che si presentano ora laceri o spezzettati. Sottrattasi all’ordine del simbolico, la scrittura zeroglifica non riesce tuttavia ad appartenere neppure all’ordine dell’iconico, giacché non intrattiene alcun rapporto di somiglianza con un proprio referente. Lo zeroglifico si presenta quindi come sistema di segni autosufficienti, asemantici e aniconici, come il risultato di un procedimento finalizzato a un volontario fallimento della semiosi che si presta a una pura “figuralità”, intendendo quest’ultima come carattere generale del sensibile, e nell’accezione datane da Jean-François Lyotard alla soglia degli anni Settanta. La proposta estetica di Lyotard sulla crisi della parola e la rivalsa del figurale possono valere come teoria a supporto dei fenomeni poetico-visuali e logo-iconici più in generale, e non solo per il caso specifico di Spatola; la vicinanza cronologica tra la prassi dell’uno e la riflessione dell’altro è certo stretta e significativa, ma non al punto da giustificarne una connessione quasi esclusiva, che del resto cadrebbe di fronte alla fioritura, sia sul piano pratico sia su quello teorico, che le poetiche logo-iconiche conoscono già a partire dai primi anni Cinquanta (cui forse lo stesso Lyotard, pur senza farne menzione, non era rimasto estraneo). Ciò che tuttavia ci induce ad accostare le proposte dei due autori con più dettaglio è il fatto che entrambi si muovono, pur se con mezzi e obiettivi differenti, entro una comune ottica fenomenologica, giunta all’uno dal confronto con il pensiero di Maurice Merleau-Ponty e all’altro dalle lezioni di Luciano Anceschi; questa prospettiva incontra e si confronta poi, ancora una volta, con il pensiero freudiano, che certo nelle riflessioni di Spatola è tenuto in buona considerazione almeno a partire dal suo iniziale periodo parasurrealista.
Alla ratio analitica e al logo-centrismo tipicamente occidentali Lyotard oppone l’inarrestabile avanzata del figurale, del sensibile: proprio a partire dalle avanguardie artistiche ci si può rendere conto che la ricerca dell’ordine e dell’armonia tipici della modernità collassano di fronte all’emergere pulsionale del desiderio, dell’Es, che trova suo pieno esito nella decostruzione. La parola e la significazione appaiono finalmente limitativi nei confronti del senso: Mallarmé rappresenta, per Lyotard forse ancor più che per Derrida, il pioniere di una rivoluzione decostruttiva della parola in poesia che ha messo in crisi il valore della significazione e l’intero ordine del discorso: disarticolando il testo, il poeta francese avrebbe rivelato, secondo il filosofo, «un potere che lo eccede, il potere di essere “visto” e non solo letto-inteso» e quindi «il potere di figurare e non solo di significare» (Lyotard, 2008, p. 95). La poesia visuale di Spatola è manifestazione tra le più certe ed estreme di questa consapevolezza: in essa la figuralità domina in toto e distrugge le norme del codice linguistico allo stesso modo di come «il desiderio […] violenta l’ordine della parola» (Lyotard, 2008, p. 291). L’energia che, secondo il filosofo francese, deflagra il testo e la parola è, in tutto e per tutto, quella stessa energia che Adriano Spatola, già nel 1965, pone al centro della sua personale “decostruzione” poetica, sintetizzando nella prassi segnali e ragioni del definitivo tramonto della modernità.
Deleuze, G., Differenza e ripetizione (1968), trad. it., Milano, Raffaello Cortina, 1997.
Derrida, J., La scrittura e la differenza (1967), trad. it., Torino, Einaudi, 1990.
Dorner, A., Il superamento dell’arte (1958), trad. it., Milano, Adelphi, 1964.
Freud, S., L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.
Huizinga, J., Homo ludens (1938), trad. it., Torino, Einaudi, 1973.
Lyotard, J.-F., Discorso, figura (1971), trad. it., Milano, Mimesis, 2008.
Moio, G., Due parole di presentazione per A. S., «Risvolti», II, 3, dicembre 1999.
Spatola, A., Verso la poesia totale (1969), Torino, Paravia, 1978.
Spatola, A., Zeroglifico. Laboratorio / A, Galleria della Sala di Cultura, Modena 1965.
Spatola, A., Zeroglifico, Bologna, Sampietro, 1966.
Spatola, A., Zeroglifico, Torino, Geiger, 1975.
Zulliger, H., Gioco e fanciulli (1952), trad. it., Firenze, Giunti e Barbera, 1960.
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