Catabasi
Alessandro De Francesco

 

I.

  

Alcuni, sdraiati tra i cespugli, parlano una lingua a noi attualmente sconosciuta. Possiamo però vedere, in questa lingua, il modo in cui la luce si diffonde attraverso i vetri di una finestra e i diversi percorsi che dovranno essere stati intrapresi, percorsi in cui distinguiamo solo provvisoriamente i concetti e gli oggetti. Bisogna restituire movimento alla spirale, riattivare l’indecidibile, dirà qualcuno, ma per il momento cerco ancora i margini del tappeto, voglio capire come è tessuto, e fino a che punto. Ho l’impressione che i fotoni siano stati dimenticati o siano evaporati come le gocce convesse di un’onda, ho l’impressione che da qualche tempo le onde del mare si distinguano dalle onde radio, e che si stiano formando delle stratificazioni, una geologia, una civiltà tra un livello e l’altro della propagazione. Mi chiedo quale sia la funzione di questa lingua e di queste onde, se ve n’è una, e perché le onde sfuggono dalle mie mani quando cerco di trattenerle, perché rimangono altrettanto vaghe quanto pensieri in successione caotica, mentre guardo il paesaggio ad alta velocità, le antenne che scorrono, resti di una passata aggregazione sociale sotto forma di tralicci, colonne e alberi. Anche i pensieri qui si diffondono senza provenienza e non mi appartengono, cerco di tradurre questi pensieri che non mi appartengono, che mi vengono suggeriti dall’ambiente, cerco di rendere la scrittura un modo per restituire sinceramente questo ambiente mentale senza margini, dove nasceranno immagini come la luce che ora inonda la stanza, dalla finestra, e mi accorgo che ho bisogno di notare gli uccelli mentre cammino. Una storia uditiva, ma non solo: è una coscienza che ricevo invece di provocarla, o anche solo riempirla, da dentro me stesso. Si tratta forse di fantasmi gravitazionali, che oppongono una leggerissima resistenza quando si passa la mano dietro il dispositivo per testarne la consistenza; si tratta di recipienti, di orizzonti, di involucri, e cosa resta da fare se non localizzare pelle e fibre nel vuoto, o in quanto credevamo fosse il vuoto e dove invece si condensa il vapore, la traccia di un respiro forse, o di un fenomeno di ebollizione senza provenienza. Scopro così che il tappeto è capace di tessersi da solo, e che i suoi margini sono quelli che gli attribuisco. Se continuo a camminare, anche lui continua, stendendosi sotto i miei piedi come un prato, poi ritorna su sé stesso in un punto impreciso dello spazio, si curva e diventa una spirale, o una sfera, il tuo viso è troppo vicino al mio per dirlo con certezza, resta il fatto che rivedo cose che credevo di aver lasciato da parte, forse mi sto avvicinando al centro dopo aver attraversato gli strati, o sto tornando sui miei errori per guardarli diversamente, nella speranza di farli evaporare. Cerco, forse invano, di tradurre in segni questa coscienza che mi viene da fuori eppure abita il mio linguaggio e quello degli altri, e che sembra semplicemente – senza volontà, senza giudizio – affermare che corrisponde a quanto è dato continuamente, il continuum del continuo e il suo contenuto, vedi, la mia lingua diventa goffa, non riesce ad esprimere questa succulenta blu e viola che si muove impercettibilmente nel suo vaso e costruisce, giorno dopo giorno, nonostante il dolore del mondo, ancora una foglia. Queste foglie le appartengono oppure è le sue foglie? È una storia di avere o di essere? Da un lato, se la pianta perde una foglia, rimane integra. È come se avessimo perso non tanto una mano o un orecchio, ma una parte del nostro passato, poco importa se positiva o negativa, dipende dallo stato della foglia, se era tempo che cadesse oppure no. D’altronde, anche se la succulenta non è in rapporto di identità con le sue foglie, resta pur sempre una storia di essere, di partecipazione di diverse articolazioni di un organismo non solo al proprio essere, ma al suo modo di condensare l’essere rendendolo provvisoriamente locale. Mi sorridi in cucina, ti versi un bicchiere d’acqua, posi le borse della spesa, la voce tace, la notte attende dietro i cespugli dietro gli alberi sulle piume degli uccelli, le bolle si disperdono nell’aria componendo strutture che non sembrano prevedibili, e non importa, anche se è lì che bisogna guardare, in questo linguaggio che tace e che non vuole fermarsi, perché la luce verde sullo sfondo del corridoio è un dispositivo per segnalare segni, e ricordare che ci sono, nel susseguirsi delle stagioni sopra le onde, ancora amici, ancora una differenza, minima ma in espansione e accelerazione, tra il non essere e il nascere. Nel tuo sorriso sembri dire: spettro e fiumi, spettro e fiumi. Parli dei modi in cui lo spazio scorre e si contraddice, si ritrae. Sta a noi ripercorrerne il movimento ignorandolo, anzi riscoprendolo come materia provvisoria dietro lo sguardo di un animale che soffre e chiede aiuto. Il continuum ha luogo tra questa manifestazione del reale che non possiamo ignorare, qui dove siamo, e il tappeto, o il polmone che respira senza provenienza, senza situarsi, sempre più avvolgente, sempre più inclusivo man mano che si procede oltre le membrane dell’origine. Ci spostiamo così sulle antenne, sui tralicci, sui piloni, scegliendo a caso porzioni d’aria dove possono trovarsi spore o plancton, che fluttuano e che filtriamo utilizzando sistemi simbolici e relazioni affettive. Visto da fuori, tutto questo ha dell’incredibile, eppure siamo riusciti – lo vediamo molto chiaramente, in lontananza – a diventare nuvole di particelle che galleggiano nel vuoto, dopo l’estinzione del tempo; è iniziato di domenica, nel parcheggio, c’era vento, qualcuno aveva portato con sé oggetti molto colorati, poi se ne sono aggiunti altri, abbiamo persino saputo accettare che in questo processo qualcosa del passato potesse assorbirsi, poi diventare corpuscolare e morire prima che si formasse un’atmosfera, prima di riuscire a perdonare.II.

 

IV.

  

Tutti, senza esclusione, si sono ricordati delle nuvole. Il ricordo scendeva molto velocemente vicino alla risacca, fuori dalle credenze. Anche se si trattava di forme che, un attimo dopo, potevano non esistere più. In questo modo il vapore è simile alla memoria stessa. Una spugna – questo oggetto che era stato una città, una civiltà – rotola sulla costa, i suoi movimenti sono imprevedibili, urta contro reti e altri ostacoli, forse verrà di nuovo inghiottita dal mare, forse è evaporata nel frattempo, durante questi pochi milioni di anni che ci separano. Il sole stava diventando obliquo, eravamo tornati a casa dopo che qualcosa era andato perso. Allora la configurazione delle cose cambiò, ciò che era viola divenne sferico, ciò che era vapore si trasformò in pensieri; la distesa, con i suoi alberi tutti piegati in un’unica direzione, quella del vento, è diventata un pendio. È stato in quel momento che abbiamo potuto decidere di sollevarci ed osservare la scena da un promontorio. Abbiamo visto una bottiglia vuota, filamenti intrecciati, un volto che si girava lentamente nel buio, le tracce di una finestra che era stata aperta in un’altra città, mentre il cielo era ancora una volta da cui si irradiavano connessioni, relazioni, e dell’informazione che cercava di comunicare il proprio contenuto mescolando colori non ancora nominati. Gli oggetti erano molto distanti e lontani tra loro, ogni goccia poteva decidere di essere un pianeta, le radiazioni non potevano raggiungersi al di fuori di scambi impercettibili dove il tempo non si era ancora coagulato. In questo futuro senza determinazione spaziale le nubi erano diventate nebbia, bisognava attraversarle, il mattino presto, poi aspettare sulla banchina, in periferia, un panino e delle bacche nella borsa o nella risacca del mare mentale, vicino al distributore. Questa giornata avrà i tratti della solitudine ma passerà inosservata nella memoria il treno ondeggia, la nebbia si dissipa, le torri si piegano alle leggi del movimento e si richiudono su qualcosa di opaco che cambia colore. Sto parlando e guardo le persone, gli alberi che passano, sento il calore che viene da sotto il sedile, questo luogo nero e infinito che viene notato solo quando vi cade un oggetto e che tuttavia è sempre lì, in attesa, come un vortice dietro la griglia, punto di osservazione dei movimenti e delle capacità di orientamento in uno spazio tubolare dove i corpi si toccano senza sentirsi e il respiro esegue poliritmi silenziosi, inosservati. Posso scegliere di spostarmi da una posizione all’altra e di diventare un altro soggetto, i colori ad esempio sono meno vividi in questi altri occhi, ma il vento è percepito più intensamente, e con esso il ricordo delle nuvole si sovrappone a chi ora vede dietro gli edifici e le linee elettriche, dietro informazioni e spostamenti. Qualcun altro guarda su uno schermo una scimmia che mangia un frutto tropicale, entriamo momentaneamente, ed è questo il problema, in un paesaggio dove i peli, i filamenti, le traiettorie non hanno coscienza dei colori loro attribuiti, però attirano i sensi e i pensieri in questo viaggio nella nebbia che nel frattempo si è dissipata, che è stata assorbita da ciò che resta della civiltà, della città vicino alla risacca, o del suo ricordo, sotto forma di informazione che nasce o si riaccorda come un accordo ricordato, sotto il sedile, nel nero abissale di tutti i non-luoghi che i nostri corpi sfiorano ogni giorno nelle città, e che a volte emergono dal pensiero, o da un treno che entra in stazione, o da qualcosa che è stato perso per sempre, come il tempo, perché il tempo perde sé stesso costantemente, si smarrisce nel mare o vicino al distributore di bottiglie d’acqua, negli ingranaggi che operano uno scambio tra una convenzione umana e l’origine molecolare della vita. È così che usciamo dallo stagno e impariamo a camminare in mezzo alla folla, come vettori la cui direzione unica diverge da quella della risacca, che va e viene, che è incerta, ma ci rendiamo conto del fatto che le cose non stanno necessariamente così, che la risacca può essere orizzontale, che la folla può diventare schiuma e la schiuma può prendere decisioni, voltare le spalle agli imballaggi e ai vestiti che aspettano nella notte al di là dei vetri, sotto i neon di sicurezza, sì, un’altalena laterale, litorale, vista dall’alto del promontorio, dai filamenti della rete: una serie di gocce e nuvole che gioiscono di essere indecifrabili e disfunzionali, uno scambio che avviene in un sole infinitesimale che sorge sotto il sedile di un treno, in fondo al buio.

V.

  

Ma stavamo parlando del vapore in fondo allo spazio, della sensazione che prova la mano quando le dita scivolano sulla superficie lucida della pietra, in un parco dove tutto sembra aspettare che un evento abbia luogo, i bambini giocano vicino all’altalena, le persone passeggiano in un sistema complesso di relazioni, di traiettorie e di scambi chimici, il recinto protegge, racchiude e lascia intravedere la possibilità di un altro giardino che si espande in una delle numerose gocce che condividono lo stesso spazio e che non sembrano tuttavia toccarsi l’una con l’altra. La superficie lucida delle pagine di un giornale o di uno schermo mostra attualmente foto di edifici in rovina, fulmini nella notte, e volti stretti, contriti, davanti a un incavo dove i prati sembrano sfumare in scatole ed evaporare in un blu sempre più intenso, che non appartiene alla scena.

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