Il paradiso dell’assenza
by Cristiano Caggiula

 

Toccandosi l’addome scopriva poco a poco il paradiso dell’assenza. Al passaggio delle dita il corpo veniva diviso in due quadranti asimmetrici. Una lenta metamorfosi si configurava a ogni palpazione, tutto si orientava verso il punto di propagazione del dolore trafittivo senza pace.

Mi domando: può il centro del mondo localizzarsi nel mezzo della gabbia toracica? E cosa fare quando l’istinto suggerisce di scoperchiare l’anima, facendo leva sulla decima costola?

Era come se ogni contrazione delle pareti molli potesse frantumare anche il cemento. Con i succhi gastrici di sangue, poteva lavare i peccati dei morti accasciati sul ventre di Mut. Nel sepolcro del suo stomaco fluttuavano pezzi di corpo disciolti, come le schiere di santi affrescati sulle rughe della fronte. E intorno a me, centinaia di ibis in preghiera imploravano di schiacciarmi lo sterno e sfondarmi il petto. Diviso in due sezioni simmetriche, disposte su un piano ordinato. Per infiniti punti, infinite maledizioni.

Resta, sfiancandomi il cervello, una repulsione profonda per ogni pensiero digeribile che mi dedicava la sera.

Per ogni tuo lamento, soffio le ceneri dal capo e urlo che il cibo è inutile, che lo stomaco esiste solo per stritolare ogni particella dell’esistente, tenero e inodore. Ma cosa fai, mentre scorri il rosario dei tuoi giorni, quando prima c’era qualcos’altro e ora ci sei tu? Forse solo un altro segreto da irrorare con le lucide suppurazioni dei tuoi occhi.

È come se dovessi ancora tornare dal mare. Come se nuotassi ancora in un pianto anoressico, dove la colpa è non sentire niente. Poi mi volto, e i tuoi capelli di fiori secchi si sgretolano erosi dal vento: una disgregazione meccanica, precisa, che segue la dissoluzione eterna di ogni tuo paradiso.

Nel monolocale in cui vivo la quarta parete a sud è dominata da un armadio di specchi. Lasciando alcune ante socchiuse, la mia immagine riflessa scompare dalla stanza.

Smettere di abitare
in attesa che tutto scada
scaraventato nell’angoscia
di un tutto
scaraventato come meteora.